Mi Buenos Aires querida, troppo tardi e troppo fredda / 2

di CARLO PICCHIOTTI*

La riunione iniziò puntuale alle sedici. Che strano, pensai, puntuali in Argentina. Poi capii meglio. Il capo progetto della Tecnobridas era un tedesco, e secondo la mia fertile fantasia di allora un transfuga nazista, nei modi, nei tratti e, soprattutto, nella protervia che poneva in ogni sua affermazione. Si intrattenne poco, giusto il tempo di introdurre i temi in discussione e poi lasciò la sala facendo ampi cenni ai suoi di continuare senza distrarsi per saluti ed ossequi. Tutto filò liscio, si trattava semplicemente di prendere accordi su come ci saremmo divisi il lavoro di La Plata tra noi, i “francesi prìncipi dell’ingegneria”, e loro, gli schiavi locali del dettaglio di progettazione. Non era la prima volta, ma mi faceva sempre un certo effetto essere all’ estero, giovane ingegnere italiano, a rappresentare la grandeur francese… chissà, mi dicevo, se mandavano sempre me voleva dire che gli rassomigliavo molto. Proprio io, che odiavo la prosopopea in tutte le sue forme e manifestazioni. L’incontro finì alle otto di sera e puntuale ricomparve il tedesco che ci invitò tutti a cena per le dieci.

Ero disperato. Sì, vero, mi ero riposato un paio d’ore, ero perfino riuscito a farmi un orlo provvisorio ai pantaloni del completo di velluto con la cucitrice da ufficio prestatami da un’attonita impiegata della reception dell’hotel, ma volevo assolutamente DORMIRE DORMIRE DORMIRE .

Alle nove e mezzo ero di nuovo nell’atrio dell’albergo e il mio collega argentino che per tutto il pomeriggio era stato il mio principale interlocutore passò a prendermi con la sua fiammante FIAT 128 di cui era manifestamente molto orgoglioso. Salii, e a bordo sedute sui sedili posteriori trovai altre due persone, una giovane donna bruna che si presentò come Graciela, psicologa, sua amica, ed un uomo dal fisico possente, con i capelli scuri dal taglio lungo, pettinati all’indietro e leggermente impomatati. Mi strinse la mano con forza ed il suo viso aperto mi ispirò subito grande simpatia.

buenos-aires-4448623_960_720jpg(Illustrazione da Pixabay)

“Io sono Enrico“ mi disse in italiano “e mio nonno era napoletano. Mi chiamo Enrico in onore di Caruso. Faccio il giornalista per El Clarin e se mi prometti di perdonare tutti i miei errori di grammatica e di pronuncia stasera possiamo parlare in italiano. Così mi aiuti a fare un po' di pratica ...“.

Quando scendemmo per avviarci al ristorante, mi accorsi che Graciela non era solo simpatica, aveva anche un corpo da modella ed un modo di muoversi così attraente da farmi subito pensare: vuoi vedere che la gita non è stata proprio inutile?. Enrico, invece, era almeno dieci centimetri più alto di me e mi caracollava accanto con la tipica andatura di chi cerca di stare al passo con altri che non hanno il suo stesso vigore .

La serata era stata organizzata in uno dei ristoranti più famosi dell’epoca, Clarks, nel quartiere storico della Recoleta, di fronte ai giardini del monumentale Cemeterio, grande attrazione per tutto il popolo argentino, che visitava con curiosità le varie tombe degli uomini illustri della nazione. Naturalmente la specialità era la carne, in tutte le sue forme, dimensioni, tagli e cotture, dall’Asado al Bife de chorizo.

Anche stavolta il tedesco se ne andò prima di tutti, verso mezzanotte. Io avevo trascorso le due ore conversando quasi solo con Enrico, anche se a tratti distolto dalla voce di Graciela che, nel corso della serata, aveva sempre reso più evidente la sua profonda ... amicizia con l’ingegnere argentino, raffreddando progressivamente ogni mia più stanca voglia di possibili avances. Gli altri commensali erano risultati quasi tutti neutri e trasparenti comprimari di una cena a cui volentieri si sarebbero sottratti.

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(Foto da Pixabay)

La mia chiacchierata con Enrico si era praticamente trasformata in una sorta di interrogatorio sempre più incalzante sulla situazione politica locale e sulle condizioni di vita nell’ Argentina di quegli anni. Quale migliore occasione, mi ero detto, che non quella di poter parlare con un giornalista. All’inizio Enrico aveva esitato e le sue risposte erano state generiche, vaghe abbastanza da non far trapelare alcun dettaglio se non quelli già conosciuti dagli articoli edulcorati della quasi totalità della stampa internazionale . Poi, all’improvviso, aveva virato, sia nei toni che nei contenuti, come se mi avesse riconosciuto tra gli appartenenti al ristretto gruppo di coloro con i quali si poteva parlare apertamente e dei quali ci si poteva fidare.

L’Argentina era un paese soggiogato, mi disse, la dittatura di Videla prima e quella di Galtieri con la sua Giunta militare che l’aveva seguita, erano state dure e spietate. Si parlava ormai di genocidio e di molti oppositori del regime che, semplicemente, sparivano da un giorno all’altro. Lui stava conducendo discretamente delle indagini per seguire la pista che partiva da una sua amica scomparsa e sembrava condurre molto in alto. Mi rivelò che aveva individuato alcuni luoghi di raccolta dove, nel più assoluto segreto, erano state allestite vere e proprie camere di tortura.

Mi indicò una donna in chiaro stato interessante che sedeva al tavolo accanto al nostro, e avvicinandosi col suo volto al mio mi sussurrò:

 “Anche i neonati vengono rapiti e scompaiono. E di questo non abbiamo ancora capito nulla, né i motivi né le finalità. “

Io ero a disagio, sbalordito, avrei voluto saperne di più ma nello stesso tempo avevo quasi paura di saperne troppo. Probabilmente il mio imbarazzo era evidente ed Enrico lo percepì , mi guardò fisso negli occhi e passò allo spagnolo:  “Usted es un extranjero. No tengas miedo. Ellos no haran nada “.

Poi sorrise, lasciò cadere il discorso e mi parlò di Maradona, di come ormai fosse l’unico a rappresentare i valori positivi dell’Argentina nel mondo, e di quanto questo, per persone come lui, fosse assurdo.

Ci alzammo da tavola che era quasi l’ una, uscimmo dal locale, tutti si salutarono augurandosi un buon weekend, il mio collega mi strizzò un occhio pregandomi di prendere un taxi per tornare in hotel e se ne andò ormai avvinghiato alla sua Graciela. Io rimasi sul marciapiede deserto con Enrico e lui, dopo essersi guardato intorno in modo disinvolto ma muovendosi con manifesta inquietudine, mi disse che mi avrebbe accompagnato fino alla stazione di taxi, distante non più di cento metri.house-facade-51170_960_720jpg

(Foto da Pixabay)

Ne avevamo percorsi forse trenta quando si accostò silenziosa una grossa berlina nera con i fari abbaglianti accesi. Non era un taxi. Enrico scattò come un velocista, ma anche gli altri tre, saltati giù dall’auto che non si era ancora fermata, fecero la stessa cosa. Uno mi venne dinnanzi, mi girò bruscamente col viso rivolto verso la saracinesca abbassata di un negozio, e mentre mi faceva sentire nel fianco la canna di una pistola mi minacciò con una voce bassa e roca:  “Quieto y mudo¡!“.

Feci appena in tempo a vedere gli altri due che, sfoderando delle spranghe di ferro nascoste sotto i cappotti, avevano raggiunto Enrico, lo avevano gettato a terra colpendolo con una violenza forsennata e lo stavano trascinando esanime nell’auto ferma con le portiere spalancate ed il motore ancora acceso. Appena saliti a bordo, partì un richiamo alla volta del mio guardiano. Lui mi strinse le spalle fino a farmi cadere in ginocchio e poi corse via. La berlina partì lentamente, senza fretta, ormai non ce n’era bisogno, voltò a sinistra e tutto finì .

Ero sul marciapiede, seduto scomposto, solo. Tirai sù col naso e mi accorsi che, malgrado il freddo pungente, avevo il viso sudato. Non era sudore, erano lacrime; piangevo in silenzio, non riuscivo a trattenermi. Mi sollevai lentamente in piedi, mi guardai intorno per vedere se vi fossero luci e scorsi l’insegna di Clarks ancora illuminata. Tornai indietro, tentando di asciugarmi la faccia con la manica del montone, e dalla porta a vetri vidi che un paio di camerieri erano ancora all’ interno e stavano riordinando la sala. Bussai e chiesi a gesti di entrare e di poter fare una telefonata. Il foglietto di Antonio era ancora lì nel mio portafogli. Il telefono squillò a lungo e poi rispose una voce femminile:

” Hola ...”.

Parlai direttamente in italiano e nel locale si udì solo la mia voce:

 “ Signora, lo so, lei è la mamma di Antonio, io sono un suo caro amico italiano, ho bisogno di lui qui al ristorante Clarks alla Recoleta. Per favore me lo passi .”

La voce, anch’essa in italiano, rispose:

 "Antonio abita al piano di sotto, lo avverto e gli dico di venire. Lei come si chiama?“

 Già, Antonio non conosceva il mio nome. Mi venne una sola idea:

 “Gli dica el tano di stamattina, lui capirà, grazie“. Riattaccai in silenzio.

buenos-aires-246733_960_720jpg(Foto da Pixabay)

 Non passò più di un quarto d’ora ma fu un tempo lunghissimo. Nessuno mi chiese nulla, soltanto vidi arrivare un vassoio con due bicchieri, uno più grande colmo d’ acqua e un altro più piccolo con un liquido ambrato scuro. Cognac. Bevvi l’acqua avidamente, e subito di seguito il cognac lentamente, quasi a chiedergli di creare un velo caldo a protezione della mia anima.

Scorsi attraverso i vetri d’ ingresso i riflessi dei fari di un’ auto. Per un attimo esitai. Sono di nuovo loro, pensai , sono tornati a prendere anche me. Mi risuonarono in testa le parole di Enrico:

“Non temere, tu sei straniero, non ti fanno nulla“

 e in quell’ attimo Antonio si affacciò sulla soglia sorridente.

“Tano, spero che tu non mi abbia chiamato alle due di notte per una corsa da cinque pesos fino al tuo albergo“, mi disse allegramente davanti ai camerieri.

 Poi mi prese per un braccio, delicatamente come si fa con gli infermi, e mi guidò verso il taxi. Non riuscivo a parlare, ero un automa. Mi fece sedere sul sedile accanto a lui e partì. Guidò dritto, sicuro, lentamente, senza accennare a deviare dall’ Avenida.

“Tano, sei spaventato, non ti chiedo nulla. Adesso andiamo all’ hotel, tu sali, prepari velocemente il bagaglio, lasci la stanza, paghi, alla reception dici che devi partire d’urgenza, io ti aspetto.”

Non disse altro e io, come ipnotizzato, ubbidii. Erano quasi le tre del mattino quando imboccammo di nuovo l’ autostrada per Ezeiza. Poi mi catturò il sonno, di piombo.

Quando mi sentii di nuovo scuotere dolcemente per il braccio, era passata solo mezz’ora ma davvero non sapevo dove fossi. Guardai Antonio che con il mio bagaglio accanto a sè mi invitava a scendere. Chiuse accuratamente le serrature delle portiere del suo taxi e sempre sorreggendomi mi guidò verso il tabellone degli aerei in partenza. Mi indicò un volo della TWA per NewYork, in orario, programmato per le cinque e trenta, ed io con un cenno assentii. Avevo in tasca ancora quasi tutti i miei mille dollari e al ticket counter pagai in banconote. Ci avviammo insieme verso il controllo e Antonio, questa volta, mi scrollò energicamente, mi guardò fisso e....

“Non aver paura, tu sei straniero,non ti fanno nulla. Calmati!“

Le stesse parole di Enrico. In un attimo compresi tutto. Antonio faceva parte del gruppo di Enrico, aveva capito cos’era successo. Anzi, probabilmente era già stato avvertito e mi stava salvando senza esporsi .

buenos-aires-245387_960_720jpg(Foto da Pixabay)

Mi sfilai il montone che solo poche ore prima lui stesso mi aveva aiutato a comprare e glielo porsi.

“Nel mio bagaglio non entra e a Roma fa un gran caldo“

furono le sole parole che fui in grado di pronunciare mentre infilavo cento dollari in una delle tasche.

Antonio era un attore consumato. Proruppe nella sonora risata baritonale che gli avevo sentito fare al mattino, con noncuranza ripiegò el cuero, mi passò la valigia a rotelle che per tutto il tempo aveva trascinato con sé, estrasse un taccuino e una penna, e scribacchiò qualcosa su un foglietto che mi porse dopo averlo ripiegato. Mi strinse la mano indugiando quel poco che conferma la complicità tra due esseri umani, e si avviò verso l’uscita a passi lenti, tranquillo, come se avesse appena terminato la sua corsa con un qualsiasi turista.

I militari al controllo erano distratti dal fine turno, chiacchieravano ad alta voce mentre scorrevano svogliatamente le pagine dei passaporti dei pochi viaggiatori che, a quell’ora, erano soltanto quelli del primo volo per gli Stati Uniti. Sapevo di essere pallido e dentro di me continuavo a ripetere… calmati, sei straniero, non ti fanno nulla…

Nessuno mi fermò, feci in tempo a prendere un caffè al chiosco interno e si accese quasi subito la luce lampeggiante che dava il via all’ imbarco.

Il volo AZ610 dell’Alitalia da New York atterrò a Roma alle otto del mattino di domenica 22 agosto. In perfetto orario. Quando cercai in tasca il gettone per chiamare mammà, estrassi anche il foglietto scarabocchiato in fretta da Antonio in aeroporto a Buenos Aires, che fino ad allora non avevo avuto il coraggio di leggere. Solo quattro parole, in castejano:

“ La puta es Graciela “.

Roma era già incandescente, chissà se a pranzo avrei trovato il viteltonnè?

(2 - fine) 

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*CARLO PICCHIOTTI  (E' nato a Roma nel 1948 e ha studiato musica, ingegneria , filosofia e lingue straniere; ma soprattutto ha studiato gli altri e da queste osservazioni sono nati i suoi racconti e i suoi lavori teatrali. Vive nella vecchia Roma dove continua a dipingere i suoi sogni)


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