Mani magic e le ceneri di Chatwin / 2

di MANUELA CASSARA' e GIANNI VIVIANI*

Andando a sud, dopo una decina di chilometri lungo la costa, si raggiunge Stoupa e i limitrofi neo agglomerati di villette monofamiliari, tutte simili, tutte in stile moderno-maniota, cosa che le rende architettonicamente meno invasive: Lefktro in basso e Neohori in alto sono due enclave di expats inglesi che ci vivono tutto l’anno, socializzando tra barbecue casarecci, generose bevute di birra e mercatini benefici, organizzati con tanta buona volontà e scarso senso del gusto. Stoupa, a differenza di Kardamili, ha un vero lungomare, diversi ristoranti affiancati con menù che sembrano copiati, un paio di pub e soprattutto una spiaggia di vera sabbia, il che la rende meta ambita di genitori con pargoli, rumorosi e armati di secchielli, palloni e palette. Not my cup of tea, ma per chi ha famiglia… 

Prima di Stoupa c’è Kalogria, se non lo sai manco ci vai: un’ansa caraibica di acque basse e turchesi,  posto di una bellezza mozzafiato, che il fiato te lo toglie pure se entri in acqua, per via di una gelida, infida corrente d’acqua sorgiva che arriva direttamente dalle cime del Taygeto. L’ameno angolino, ormai snaturato da stratificazioni di lettini e ombrelloni e da rumorosi tornei di pallavolo tra squadre di ragazzetti palestrati, aveva accolto Nikos Kazantzakis, l’autore di Zorba il Greco, da cui il film di Cacoyannis con Antony Quinn e Alan Bates, quello che ha fatto diventare il sirtaki la danza più virilmente sexy che si conosca. C’è chi dice che l’abbia scritto proprio qui, nel ‘46, ma non ci conterei; invece è confermato che lo scrittore alloggiasse davvero nella bianca costruzione sugli scogli a destra della baia. Una casupola bassa che, oggi, può essere affittata a prezzi da cinque stelle.

fiore di capperojpeg(Fiore di cappero       foto di Gianni Viviani)

Stoupa l’oltrepassavamo per recarci in posti a noi più congeniali. Salendo in direzione Neohori, ci si inoltrava tra pietraie e boschi di lecci per arrivare a Kastania: una dritta di amici greci, che verrà eletto a posto perfetto per fuggire dalla calura estiva e rifugiarsi all’ombra dell’enorme platano, cenando nell’unica taverna, accanto alla torre saracena restaurata con i fondi della UE. Con la padrona ci si capiva a gesti, tanto la scelta era limitata e scontata: tzaziki,  souvlaki,  louganika, patatine, zucchine e melanzane fritte. Il tutto così genuino che si riusciva a sopravvivere senza ricorrere al Maalox. Vino permettendo, perché quello non perdonava.

Sulla costa, e si cerca l’atmosfera, una cena a base di pesce o un ouzo ghiacciato, guardando il rollio delle barche ormeggiate, c’è il porticciolo di Aghios Nicholaos, altra enclave ma a priorità tedesca. Difficile sbagliare dove mangiare. Ellis era il nostro ristorante preferito. L’ultimo sul molo, To Limani, cercava di sedurci offrendosi di cucinare gli spaghetti all’aragosta, ma stendiamo un velo sulla cottura.

Oltre Ag. Nick, come lo chiamano familiarmente gli inglesi, svoltando verso la costa, tra altalenanti alti e bassi, la strada porta, e si ferma, a Trachila. Capolinea. Non c’è niente a Trachila, solo due taverne senza pretese, un piccolo porto, un’acqua limpida, poche anime vive, eppure il posto è affascinante. Bello arrivarci, bello trascorrerci qualche ora di quiete e relax.

Aghios Nick P2jpg(Aghios Nick            foto di Gianni Viviani)

A volte ci avventuravamo più a sud.  E diventava imperativo, per Gianni che, da sfegatato fotografo, nel Mani si trasformava in sfegatato ciclista, fare tappa a Platanos, un kafenion tradizionale, affollato di vecchietti chiacchieroni, perditempo e tabagisti. Era l’unico modo per riprendersi da quella fatica improba, una trentina di chilometri fatti sotto il solleone, in un crescendo di salite e tornanti, una specie di trofeo della montagna, impresa che lo gratificava e riscuoteva l’ammirazione incredula di amici e conoscenti.

Se era solo Gianni, a quel punto, faceva un bel  dietrofront e ci raggiungeva in spiaggia; se no, ripreso fiato, noi in macchina, lui a rotta di collo, tutti giù verso lo spettacolare golfo di Ittilo fino alle azzurre acque di Limeni, che poi vuol dire porto, anche se il porto non c’era.  Perché quando volevamo celebrare, intrattenere o stupire, s’andava a pranzo da Takis, che il pesce l’aveva davvero fresco di giornata, che te lo faceva scegliere, te lo pesava con destrezza e poi te lo faceva grigliare da un paio di silenziosi albanesi. E non è che te lo regalasse. Per di più non ti faceva nemmeno il caffè, manco quello greco, manco a implorarlo, Takis. Perché perdere tempo? Non lo diceva, ma chiaramente lo pensava. E poi non offriva il karpusi, dicasi anguria o cocomero, a fine pasto. Il che da queste parti è veramente malmostoso. Nemmeno a pagarlo, te lo dava. Ma il ristorante, il luogo, erano, sono, imperdibili, anche se Takis, non so nemmeno se sia questo il suo nome, non è per niente un simpaticone. Ogni volta ce n’andavamo guardandolo in cagnesco, pensando: che stronzo! Ma ogni volta ritornavamo. Dopo cinque anni ci siamo conquistati un suo stitico sorriso. Il che ci dava il diritto di chiedere, timidamente, umilmente, fracchianamente, un tavolino a ridosso del mare e di essere accontentati. Se si era fortunati, al crepuscolo si cenava in compagnia di una bulimica, abitudinaria tartaruga Carretta Carretta, in visita per rifocillarsi.

Da Takis a Limeni P2jpg(Da Takis a Limeni        foto di Gianni Viviani)                

Il caffè e l’ammazzacaffè lo si  andava a prendere ad Aeropoli, cinque chilometri di ulteriori tornanti sempre in salita; la bicicletta,dopo le libagioni, saliva saggiamente in macchina. Aeropoli, borgo abbandonato e male in arnese, in breve tempo si era trasformato in un gioiellino di antiche case in pietra restaurate, di caffè all’ombra di bouganville, di piccoli negozi d’artigianato, di panetterie che sfornavano pane e biscotti tradizionali dal profumo fragrante e tentatore. Infatti non riuscivamo a resistere .

Quando volevamo fare conoscere agli amici le bellezze della penisola, ci spingevamo fino a Yerolimenas, un fiordo anticamera del Mani più profondo, dove hanno costruito un albergo di charme, il Kyrimai, che ha costi abbordabili, una location spettacolare e un ristorante da non ignorare, anche se intorno, non così perfetti,  sono nati piccoli boutique hotel alternativi.

Con Yerolimenas andavamo sul sicuro, come con Limeni: la bella figura era garantita.

Anni dopo abbiamo scoperto un’altra piccola chicca, più segreta, più nascosta. Scollinando da Aeropoli , verso est, si arrivava, e non era facilissimo trovarla, alla piccola insenatura di Alypa. Fine della strada: micro taverna e micro spiaggetta, il tutto largo pochi metri, il tutto rischiando di essere i soli clienti. Si arrivava, ci si buttava in acqua, ci si asciugava, ci si faceva una Mythos gelata in attesa del pesce, poi un riposino e si ripartiva, rigenerati. Immagino non sia cambiato nulla.

Alypa P2jpg(Alypa               foto di Gianni Viviani)

Quando invece volevamo fare le cose in grande, dopo aver dormito a Yerolimenas si proseguiva barra a dritta verso sud.  Tappa obbligata a Vathia, il turrito e fotogenico paese, recuperato da alcuni stranieri che hanno ristrutturato poche torri diroccate, per poi proseguire fino a Porto Kagio. Volendo si girava verso la spiaggia di Marmari, ma raramente. Personalmente la trovo spettacolare solo dall’alto, poi c’è un albergone che seppur mimetizzato, è comunque invasivo. Per arrivare, ovunque si decida di andare, a destra verso Marmari, a sinistra verso Porto Kagio, la cornice offre panorami mozzafiato: la costa scoscesa, le piccole spiagge nascoste, l’acqua blu oltremare. E’ il Mani più puro, più vero, più drammatico e austero. Si viaggia con i finestrini aperti, per inebriarsi coni profumi della salvia, dell’origano selvatico, per respirare la salsedine.

Chi ha gambe e fiato, e non soffre di pressione alta, chi vuole guadagnarsi la cena dopo un dispendio calorico, può proseguire fino a piedi fino al capo Tainaro o Tenaro o Matapan. Un nome vale l’altro. Che si decidano. C’è chi dice che il sentiero sia poco impegnativo, un’oretta di camminata, io non ho cronometrato, in compenso ho sudato, e concordo sul consigliare un bagnetto rigenerante lungo la via, in una delle tante solitarie calette, per rinfrescarsi prima di arrivare al faro. Consigliamo di avere una buona scorta di liquidi.Verso Porto Kagio P2jpg

(Verso porto Kagio       foto di Gianni Viviani)

Gli antichi dicevano che il capo fosse l’ingresso del Regno dell’Ade, la porta degli Inferi, probabilmente perché è la punta più a sud della Grecia, ed ha un che di terminale, di definitivo. Non sono superstiziosa, ma il posto, ecco, è molto evocativo. Posso solo immaginare la magnificenza del circumnavigarlo in barca.  Un’ipotesi da non scartare. Certo è che, in lungo e in largo, in alto e in basso, a destra o a manca, sulla costa o sui monti, il Mani è da non mancare. Date retta a Bruce Chatwin.

*MANUELA CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto) 

*GIANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast ha documentato con i suoi still life i prodotti di molte griffe del Made in Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di Repubblica. La sua passione più recente sono le foto di viaggio)


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