Mal d'Africa

di MAURIZIO SORRENTINO*

Mi è rimasto nel cuore il Kenya, sebbene da quel viaggio del novembre 1991 mi separino decine di altri meravigliosi viaggi, due figli, una ventina di chili acquisiti, una folta capigliatura perduta e una trentina d'anni che scavalcano un secolo e un millennio. Anche Mujer non era ancora Mujer: per la Chiesa e per l'anagrafe era già mia moglie, ma in realtà allora era semplicemente Paola, la ragazza di cui mi ero quasi patologicamente innamorato e ai cui diari devo la dovizia di particolari che arricchisce questi miei racconti di viaggio.

Circa un anno prima aveva squillato il telefono fisso del mio ufficietto a Potenza. Era nientepopodimeno che il direttore commerciale del business, il capo del capo del mio capo, per capirci: ‒ Sorrentino, ho visto che hai già chiuso il target dei lubrificanti. A me servono altri 200 quintali. Riesci a farli tu?

‒ Ma sono il dieci per cento in più!

‒ Tu risolvimi questo problema e l'anno prossimo ti mando al viaggio premio con tua moglie.

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Ci ero riuscito ed è così che io e Paola che non era ancora Mujer, a profilassi antimalarica appena terminata, ci ritroviamo a Fiumicino in partenza con un volo notturno per Nairobi insieme a un gruppo di colleghi e di gestori di stazioni di servizio.

Willy e Selvaggia, gli accompagnatori dell'agenzia, con le prime istruzioni e anticipazioni sul viaggio, ci consegnano una dotazione di borsoni, cappelli, magliette, teli mare e binocoli professionali con lenti Zeiss.

Arriviamo a Nairobi di prima mattina. Controllo passaporti e recupero bagagli lunghi e faticosi (come spesso accade in Africa). Poi subito divisi nei mini-van per raggiungere il lodge al lago Naivasha (circa 85 km). Pomeriggio con gita sul lago e avvistamento di ippopotami al bagno e uccelli di varie specie, tra cui riconosciamo ibis e marabù. Prima di cena un giro a cavallo. Dal diario di Paola che non era ancora Mujer: «Bellissimo il giro a cavallo! Un po' meno il nero scudiero che si è preso anche un paio di passaggi sul mio posteriore dopodiché ha voluto l'indirizzo e qualche foto».

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La tappa successiva è il lago Nakuru, il paradiso dei fenicotteri rosa (gli ornitologi giurano di averne contati a volte oltre un milione). Sulla pista incontriamo facoceri, impala e scimmie. Scattiamo le prime foto. La vista del lago coperto dall'enorme macchia rosa dei fenicotteri è di fortissimo impatto emotivo.

Il giorno seguente sveglia all'alba per affrontare i duecento chilometri di strada sterrata che ci conducono alla riserva del Masai Mara. Arriviamo al lodge all'ora di pranzo e già dal pomeriggio partiamo per il primo safari fotografico con avvistamento di leoni.

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Qui, in questo turbine di impressioni e suggestioni, tra apparizioni di ghepardi, profili di giraffe al tramonto, elefanti bianchi di fango, iene sdraiate nelle pozze, branchi di zebre e gazzelle Thomson; tra villaggi di uomini e donne magrissimi eppure incredibilmente statuari; tra scheletriche vacche e l'odore greve dello sterco che cementa le capanne; qui, nel dormitorio dei dipendenti del lodge, un confine invalicabile tra la vita reale e il mondo fatato dei turisti che per caso mi trovo ad attraversare per chiedere in prestito una chitarra;  qui, nel sorriso tutto denti del nostro autista Attanasio, nei "Jambo", negli "Habari?" - "Muzuri!" scambiati con un sorriso, ho capito cos'è il "Mal d'Africa". Un bagaglio di emozioni indimenticabili legate a suoni, odori, colori impossibili da trovare altrove.

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Parlo del volo all'alba in mongolfiera, in un silenzio naturalissimo che pure mi viene di definire innaturale; dei branchi di elefanti che, visti da lassù, sembrano piccoli come formiche; del sole che si leva lento sull'orizzonte; della savana che si sveglia mentre noi, io e Paola che non è ancora Mujer, occupiamo uno dei sei scomparti del cesto e ci chiediamo con gli occhi come sia possibile che questa meraviglia sia capitata a noi. Parlo dell'atterraggio imperfetto alle 8.00 di mattina, col cesto che si abbatte costringendoci, tra le risate, a uscire strisciando, mentre la radura si popola improvvisamente di cuochi e di una cucina da campo che in un attimo sforna uova bacon e salsicce per una favolosa colazione a cui prende parte un temerario rapace, che plana su di noi per afferrare al volo i pezzi di carne che a turno lanciamo in aria. Parlo dell'euforia mista a tensione regalataci da questo imprevisto pasto nel cuore della savana, col Kilimanjaro sullo sfondo, circondati dagli agenti della sicurezza armati di fucile e appostati a proteggerci dagli animali che da lontano ci scrutano curiosi e attratti dall'odore del cibo. Parlo di una lotta all'ultimo sangue che si protrae per ore nella notte, con muggiti e ruggiti che ci tengono svegli e vigili, mentre ci chiediamo chi la spunterà. Della risposta che il giorno successivo, dopo una breve perlustrazione in pullmino, otteniamo dai musi insanguinati dei cuccioli di leone che fanno capolino dal ventre aperto del bufalo morto, mentre le leonesse controllano la situazione e i due giovani maschi già sazi dormono all'ombra. Della pipì della giraffa che dura sei minuti cronometrati. Parlo della contagiosa paura letta negli occhi di Attanasio e dei suoi colleghi quando uno dei nostri mini-van si guasta e dobbiamo trainarlo fino al lodge, mentre il sole tramonta e la parola "predoni" si diffonde nel gruppo tra i sussurri. Parlo del contrasto, che qui è di casa, della vita e della morte, della tenerezza e della violenza, della luce e del buio, del colore e del bianco abbacinante. O del nero più cupo.

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Siamo ripartiti dal Masai Mara. Il viaggio in Kenya non è finito, ma la savana è rimasta dentro di noi. Incancellabile. Continuiamo a vederla e a respirarla durante il volo a bassa quota sul trabiccolo da diciotto posti che ci porta a Mombasa e che Paola che non è ancora Mujer affronta (si fa per dire) con gli occhi chiusi per la tensione. È ancora con noi nel Norfolk Hotel di Nairobi, che risuona delle parole potenti e delle immagini immortali dei personaggi di Hemingway. Non ci lascia, la savana, a Mombasa, negli agi dell' Intercontinental Hotel, in cui trascorriamo gli ultimi rilassanti giorni di viaggio.

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 Non ci abbandona in barca, nel parco marino di Malindi, mentre ci godiamo dal fondo trasparente i colori dei pesci tropicali. Non quando veleggiamo sull'Oceano Indiano a bordo di un dhow, la tipica imbarcazione a vela latina, munito di tutti i confort. Non durante la cena al "Tamarind", mentre ci rimpinziamo di crostacei e altre leccornie. Non nel disagio che ci crea il quadro di sporcizia e povertà del mercato di Malindi. Non quando, convinti da Willy, assistiamo coinvolti e ammirati allo spettacolo, perché per noi di spettacolo si tratta, della messa in Swahili. Non quando torniamo in volo a Nairobi per l'ultima notte in Kenya. Non sul volo di ritorno in Italia. Non nei mesi successivi, quando ascoltiamo, con lo sguardo sognante, la cassetta musicale con le canzoni che avevamo imparato laggiù.

Non ora, mentre scrivo.


* MAURIZIO SORRENTINO (Piano di Sorrento, 1961; quando è sveglio è l'Area Manager Sud della Enifuel Retail; quando sogna si diverte a suonare la chitarra e a scrivere racconti e romanzi; quando vive viaggia)


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