Madagascar, time lapse a Nosy Iranja

di MAURIZIO SORRENTINO

Iranja si allontana rapidamente. Il rumore del motore copre quello del mare. Stempera il clangore di pensieri che si scontrano. Non ero preparato a tutto questo, il Madagascar non era il mio viaggio. L'ho organizzato senza entusiasmo, senza studiare l'itinerario: un'offerta colta al volo per realizzare un sogno di Mujer, due notti Iranja e cinque a Nosy Be con volo in turistica.

La barca è quasi piena. Siamo una decina, tre europei, due persone di equipaggio e un po' di abitanti dell'isola che si spostano verso il capoluogo, sull'isola maggiore. Ci sono dei bambini, sorridenti. Anche le due donne anziane sorridono. Il comandante mi ricorda Lothar, un personaggio dei fumetti di Mandrake. Siamo stati gli ultimi a partire. Questa notte non ci saranno ospiti nel resort.

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Qui dove navighiamo il mare è profondo, non ha le meravigliose rifrangenze che mi hanno innamorato sull'isola. Mi volto a scrutare l'istmo di sabbia che collega i due isolotti quando la marea è bassa. Poi fisso Mujer che ha il viso puntato verso prua, gli occhi chiusi e i capelli scarmigliati dal vento, nonostante il fazzoletto in cui li ha racchiusi. Stiamo insieme da trent'anni e solo ora capisco perché: lei è quello che a me manca, è la mia curiosità, la mia visione laterale, le lingue che non parlo, le domande che non so farmi.

C'è un solo modo per arrivare a Iranja, un solo percorso. Iranja è un punto d'arrivo.

Avevamo avvertito i ragazzi che per qualche giorno non saremmo stati rintracciabili. Nè telefono nè internet. Già. Difficile spiegare il resto. Sei bungalow, dodici posti letto ai margini del villaggio in cui abitano, in capanne senza servizi igienici, tre o quattrocento nativi. Viviamo contemporaneamente due vite: ricchi turisti europei che si godono relax e natura incontaminata e abitanti di un villaggio africano in cui la cosiddetta civiltà non è ancora arrivata. L'interruttore che cambia la prospettiva è quello del gruppo elettrogeno, che viene acceso al tramonto, verso le sei di sera, e spento alle ventidue, dopo la cena.

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Di questi tre giorni non riesco a mettere a fuoco alcun ricordo se non per pochi secondi: la mangrovia semi sommersa davanti casa (mi viene di chiamarla così, casa); le cene squisite cucinate sui carboni e consumate allo stesso tavolo con gli altri sei ospiti della struttura; l'attesa dell'acqua calda alle sei di sera; la lampada a carica solare per muoversi nella stanza dopo le dieci; la schiusa delle uova di tartaruga e la corsa verso il mare delle nuove nate; i resti della pira e la macchia di sangue dello gnu che il giorno precedente al nostro arrivo è stato sacrificato per la festa; i bambini che suonano la batteria sulle latte di plastica o che rincorrono la palla di stracci sulla spiaggia al tramonto; il sollievo nel veder ripartire dopo pranzo l'imbarcazione del gruppo di chiassosi tedeschi arrivati al mattino presto; la mia difficoltà a risalire in barca senza scaletta; il colle scalato per vedere il panorama mozzafiato dall'alto; il faro di Eiffel; la vecchia scuola abbandonata e la nuova con i bambini che ci gridano "Italia Uno!"; il maestro che quasi commosso ringrazia Umberto e Francesca, i nostri nuovi amici bergamaschi i quali, molto più previdenti di noi, hanno portato penne, matite, quaderni e farmaci da donare; le stelle, diverse per emisfero e per mancanza di inquinamento; la nostra testardaggine a voler godere fino all'ultimo raggio di luce il tramonto dalla costa occidentale; la corsa nell'oscurità per rientrare prima che la marea ci blocchi; il neonato che piange nella capanna a tre metri dal nostro bungalow e la nenia che sua madre gli canta; la gallina che ci viene a svegliare la mattina; il misterioso via vai davanti alla nostra capanna verso la folta macchia a duecento metri da noi (sarà il loro bagno pubblico?); i pareo coloratissimi esposti alla vendita sui fili fuori dalle capanne come fosse il bucato del giorno; le sirene di legno intagliate dal ragazzo dai capelli lunghi; le nuvole che qui non creano ombra, ma nuove e diverse sfumature di luce.

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Lothar rallenta per un'onda anomala. L'attraversiamo, ma la manovra non ci evita uno spruzzo di acqua. Anche i pensieri rallentano e si depositano. Uno di essi spicca, resta più in alto: e se a Iranja avessimo sperimentato le tre stagioni del tempo, il passato, il presente e chissà, magari anche il futuro?

C'è un solo modo per arrivare a Iranja. Iranja è un punto d'arrivo. Anche quando te ne vai sai che non sei mai veramente ripartito.



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