Luna Rossa e il pianoforte a coda

di ENRICO FIERRO

Non so perché capitai in quell’albergo...

Napoli, qualche tempo fa. Arrivo di corsa in città, come sempre, e per lavoro. Qualcosa di grosso era successo. A Napoli non è mai una novità. Avevo bisogno di trovare subito una sistemazione. Posare lo zaino, buttarmi un po’ di acqua in faccia e uscire per tentare di capirci qualcosa.

Sono in Piazza Garibaldi, all’uscita dalla stazione. Non la piazza di oggi, moderna, ampia, spaziosa e pulita, con i percorsi che ti guidano all’ingresso della metro e le stazioni d’autore, insomma una piazza europea. No,  quella di una volta. Con il casino dei taxi, il traffico da città indiana, la fermata dei bus che dal capoluogo del Regno decaduto portavano alle province,  il venditore di calzini, quello di accendini, ‘o zingariello che ti vendeva la fortuna col pappagallo, e la netta divisione per marciapiedi delle varie attività svolte sull’altalena tra legalità e illegalità.

 Avendo le spalle alla stazione, sulla destra (lato Caffè Mexico) bancarelle con dvd taroccati, magliette e vestitini made in China, computer e telefonini, qualche prostituta di colore, più una italiana avanti con gli anni che  ripeteva a tutti la stessa litania: “Vieni, levate ‘o sfizio”. Lato sinistro, di nuovo bancarelle e i tavolini del gioco delle tre campane. E l’Hotel Terminus, un mito. Una volta era l’albergo degli sposini che arrivavano dalla provincia per passare la loro prima notte di nozze. Entro e non c’è posto, le camere sono piene di giapponesi, già allora con mascherina. E allora giro per i vicoli, fino a via Pica, dove mi colpisce una scritta. “Hotel Luna Rossa”. Entro.

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Mi accoglie un addetto alla reception vestito come Totò nei suoi film migliori. Una sorta di livrea nera su pantaloni a righe. La hall è piccola e mi incuriosisce. Banco per l’accettazione minuscolo, all’entrata un pianoforte a coda antico. E’ un mastodontico “Petrof”. Attaccata a una parete una gigantesca bacheca custodisce partiture di antiche canzoni napoletane, e le copertine di dischi con un titolo predominante: Luna Rossa. In italiano, inglese (britannico e made in Usa), francese, giapponese, finanche russo. Per accedere alla stanza devo prendere un ascensore posizionato all’esterno dell’albergo che occupa un piano del palazzo, il resto è costituito da appartamenti dove vivono napoletani doc e non viandanti. Poco male, penso, mi faranno compagnia le loro voci e gli odori delle loro cucine. Ogni stanza ha una targhetta rossa con su disegnata una chiave di violino e il titolo di una canzone napoletana. Si può scegliere tra “Torna a Surriento”, “’O sole mio”, e, immancabile, “Luna Rossa”. Nel corridoio la “filodiffusione” trasmette antiche melodie partenopee. Saranno appassionati, arguisco. E faccio male. Il mistero mi viene chiarito la sera, quando scambio due parole con Dora Viscione.

Una affabile signora, la proprietaria dell’albergo. “Sì, siamo appassionati di musica napoletana, ma non si tratta solo di questo. Io sono la figlia di Antonio Viscione, in arte Vian. Il Petrof che vede all’ingresso era il pianoforte di mio padre…”.

Le parole aprono un mondo. Perché certi alberghi, se li ascolti, possono parlarti e farti mille racconti. Quella di Antonio Viscione, Vian, è una storia di vita straordinaria, un pezzo importante della storia della canzone napoletana, e quindi mondiale.

Antonio Viscione nasce a Napoli il 14 di giugno del 1918. La sua è una famiglia di albergatori, padre severo, voleva il figlio dottore. Medico, che a quei tempi era una professione rispettata e di sicuro avvenire. Ma Antonio ha le note nel sangue. Presa la maturità classica non ne vuole sapere di appendiciti e corsie di ospedale. Tenta con Filosofia, va male, si iscrive al Conservatorio, va peggio. Ma nel 1936 compone la sua prima canzone, “Dormiveglia”,  su un testo di Ciro Parente. Il giovane Viscione (a quel punto per sempre e per tutti Vian), fonda una sua casa editrice dividendo il tempo tra l’albergo di famiglia e la musica. Sono alti e bassi, c’è la guerra, le Quattro giornate, gli americani con il loro boogie, anni duri che però preparano il successo del giovane Vian.

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1950, l’incontro con un giovane che abitava al Vasto, più grande di lui di tre anni, Vincenzo De Crescenzo. Antonio ha composto una musica innovativa per quegli anni, una cosa al ritmo di beguine. La leggenda vuole che il giovane compositore l’abbia fischiettata e poi accennata al pianoforte ad un maestro di musica per metterla su carta. Serve un testo, la storia che ha in mente è quella di un giovane lasciato dalla sua lei, che vaga “distrattamente abbandonato” per le strade buie di Napoli, con le mani in tasca, il bavero del cappotto alzato e gli occhi nascosti sotto il cappello. Alla fine, il povero innamorato scopre che dietro la finestra dell’amata dove lui sospira non c’è più nessuno. 

De Crescenzo capisce e scrive il testo. “Vaco fiscann' a e stelle ca so asciute”,  è poesia. I puristi della melodia tradizionale insorgono, i “librettisti” sole mare e putipù anche. Ma “Luna Rossa" è subito un successo. La cantano in francese  (“Prière sous la Lune”),  nel mondo se ne fanno cinquanta edizioni e in tutte le lingue. La canta Frank Sinatra (“Blushing moon”), musica e parole resistono ancora oggi grazie a Renzo Arbore, che ne fa un cavallo di battaglia della sua Orchestra italiana, viene tradotta in arabo da M’barka Ben Taleb. La leggenda racconta di un tizio che fischiettò mestamente Luna Rossa la sera del 22 giugno del 1966, mentre Antonio Viscione respirava gli ultimi attimi della sua vita terrena.

Sì, è proprio vero:  certi alberghi, se li sai ascoltare, ti raccontano storie straordinarie. E  l’hotel Luna Rossa ti racconta di Napoli e della sua sterminata tradizione musicale. Ti proietta nella città del Festival (diretto concorrente di Sanremo), con le dispute tra Sergio Bruni e Giacomo Rondinella, le claque che applaudivano fino allo sfinimento Peppino Gagliardi. I negozi di dischi del Rettifilo con gli altoparlanti attaccati fuori e la musica a tutto volume. Insomma, la Napoli dove la musica è da sempre la città e il suo popolo.

Ovviamente, da quella prima volta sono tornato all’ Hotel Luna Rossa. Oggi Piazza Garibaldi è cambiata, nei vicoli ci sono trattorie e ristorantini di gusto, l’albergo ha tutto quello che si deve avere (internet in ogni stanza, tv via cavo, etc), ma nella hall c’è ancora il vecchio Petrof e la bacheca con gli spartiti. L’aria che si respira è la stessa e se sai ascoltare senti un giovane pazzo per la musica che una sera fischietta il motivetto di una canzone che racconta di un innamorato ferito e di una Luna rossa che “me parla e' te”.




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