L'Italia, com'era - 9) Venezia, magìa diversa

di NICOLA FANO*

(accompagnamento musicale di VERONICA RAMONDA e MARTINA MASSIMINO)

La storia di Venezia è lunga quanto la sua diversità; è difficile fermarla in cento anni. L’unica grande differenza - forse - dall’inizio del secolo scorso a oggi sta nel numero dei suoi abitanti. Nel 1951, picco storico, erano circa 175 mila; oggi sono intorno ai cinquantamila, contro i quasi 160 mila del 1921 (fonte: Ufficio Statistico Comune di Venezia). Sono in molti a sostenere che la città ormai sia soltanto una quinta teatrale per il turismo di massa, ma chi l’abbia vissuta in questo anno di Covid, ossia deprivata quasi completamente di turisti, sa che oltre il fondale c’è un mondo vivo. Ma diverso. Diverso da tutto e da tutti.




Proprio la diversità è il segno che la storia ha attribuito a questo luogo meraviglioso. Cogliere tale peculiarità significa non solo capire la storia di Venezia ma anche trovare gli strumenti per apprezzarla non come un affascinante spazio teatrale, bensì come un luogo vitale e contraddittorio.

Vediamo.


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(Canale sul rio Toresela     Autore non identificato             luglio1903 )


La Repubblica Veneziana nasce all’incirca nell’800 dopo Cristo intorno alla basilica che ne incarna, fin da subito, la grandiosità e la specificità (punto di congiunzione anche stilistico tra Oriente e Occidente). La città occupa un florilegio di isole e isolette collegate una all’altra da una rete di canali. Il primo problema, dunque, è quello di urbanizzare un territorio inospitale e inaffidabile. In questa chiave, la soluzione è nella creazione di un substrato di pali sommersi i quali, proprio perché infitti nel terreno delle isole, e dunque non a contatto diretto che l’aria o con l’acqua, nel tempo si mineralizzano diventando quasi blocchi di pietra dura. I palazzi, i ponti e tutte le strutture urbanistiche della città sono realizzati su questa sorta di piattaforma secolare.

Lo spazio determinato e limitato delle isole, e dunque dei terreni effettivamente edificabili, ha fatto il resto: lo sviluppo della città, una volta occupate tutte le terre, non poteva che essere in altezza. Nel Quindicesimo secolo, quello di maggior prosperità della Repubblica, la carica esotica di Venezia era legata (anche) al fatto che ospitava i palazzi più alti del mondo; un po’ come all’inizio del Novecento sarebbe successo a New York e all’inizio del secolo successivo a Dubai. E per la stessa ragione: sono città costruite su isole, ossia su un territorio definito e circoscritto; nel momento in cui hanno richiamato grandi masse di immigrati, per ospitarli stabilmente hanno dovuto ampliare gli spazi urbani verso l’alto, non verso l’esterno del proprio perimetro come è accaduto alle altre metropoli del mondo.


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(Barche per il trasporto delle merci e motoscafo sul Canal Grande    studio fotografico Vincenzo Balocchi      1932)


L’unica opportunità che Venezia si è data è stata quella - fino a un secolo fa abbastanza frequente - di interrare piccoli o grandi canali onde creare spazi nuovi sui quali costruire. Anzi, l’antropizzazione ha sempre fatto da spinta alla creatività progettuale dell’architettura cittadina: i palazzi di Venezia, specie quelli nelle zone più popolose, sono tempestati di barbacani, ossia rinforzi esterni dell’edificio, protuberanze sulle quali in genere venivano costruiti nuovi spazi vita restringendo gli spazi tra un palazzo e l’altro.

Il termine barbacani ci porta dritti dritti sul pianeta della diversità veneziana. Che poggia (anche) sulla sua lingua. Che è fatta di lemmi autoctoni, o di parole che qui assumono un uso tutto diverso e particolare. Per esempio: a Venezia c’è una sola piazza propriamente detta (San Marco): le altre si chiamano Campi o Campielli. Ci sono poi una sola via (intitolata a Giuseppe Garibaldi e frutto dell’interramento di un ampio canale) e una sola Strada (Strada Nova, vagheggiata da Napoleone, come vedremo più avanti). Per il resto, le vie si chiamano Calli, Rughe, Salizade, Rio Terà, ecc. Ciascun termine, naturalmente, esprime un significato differente: la calle è la piccola via, la Salizada è la grande via di comunicazione, la Ruga è la via commerciale, il riò terà è sorto dall’interramento successivo di un canale. A Venezia la toponomastica non si indentifica con le vie, ma in sestieri (i sei quartieri della città) dove ogni portone è contrassegnato da un numero che segue una progressione libera e spesso non conseguente: fare i postini a Venezia non è davvero un mestiere invidiabile. In città ci sono, per esempio, una quindicina di Calle della Malvasia, in quindici posti diversi. A Venezia, per esempio, Google Maps è inutile.


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(Le bancarelle del mercato di Rialto a Venezia           Fotografia Ferruzzi      1955 ca. )


Ma poi, in fondo, tutte le diversità di questa città si possono riassumere in una: qui non è ancora arrivata la civiltà della ruota. Automobili, biciclette, monopattini elettrici non esistono. Addirittura i carrelli dei trasportatori (e quelli, immancabili, di chi va a fare la spesa) hanno delle ruote speciali tripartite, in grado di salire i gradini con semplicità.

Il trasporto, d’altro canto, è alla base della piramide del potere e della gloria della città. Tutto cominciò con il monopolio del sale nel mondo occidentale: sfruttando la sua posizione di frontiera (e forte di una lungimiranza economica ignota alle grandi monarchie), la Repubblica conquistò rapidamente tutte le saline del Mediterraneo diventando principale, se non unico produttore del prezioso minerale che all’epoca rappresentava il solo strumento di conservazione dei cibi, quindi un bene essenziale per chiunque. Naturalmente, la perfetta organizzazione del trasporto del sale dai centri di produzione al luogo di smistamento veneziano era alla base del successo del progetto. Grazie a tutto ciò, Venezia ha mantenuto salda la sua potenza nel mondo pur essendo una “repubblica”, ossia senza godere dei benefici gestionali e politici delle vecchie monarchie. La crisi, lunga e inarrestabile arrivò con Colombo e Magellano, ossia con l’apertura di una via di trasporto (relativamente) semplice per il trasferimento del pepe dalle Americhe all’Europa, essendo il pepe l’unico competitor del sale per la conservazione dei cibi. E così, perso il monopolio della protezione alimentare, Venezia dopo il Cinquecento si avviò a una lenta decadenza. Non bastò la mezza rivoluzione borghese del Settecento a salvarla: l’equivoco napoleonico era lì in fondo al secolo a farla crollare definitivamente nel 1797.


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(Giovani donne in abiti eleganti su una gondola          Fotografia Ferruzzi           1950 ca.)


È storia relativamente recente e ha a che fare con la mancata accettazione della diversità di Venezia. Perché Napoleone fu, sì, l’unico a vantare un disegno urbanistico inedito per Venezia ma esso, appunto, non ne rispettava l’anomalia secolare. Napoleone progettò e iniziò a realizzare Strada Nova (completata dagli austriaci) e quella che poi sarebbe stata Via Garibaldi. Il problema di Napoleone è che egli riteneva di poter difendere la città solo muovendovi rapidamente le sue schiere le quali, come è noto, marciavano in file da quattro per venti. Ebbene, queste non potevano certo attraversare Venezia usufruendo delle sue strette calli: così Napoleone disegnò una direttrice larga e diritta che doveva collegare da un lato la terraferma con Piazza San Marco e dall’altro il mare aperto con la piazza medesima (considerata il cuore dell’impianto di difesa della città). Quando si rese conto che il suo progetto era irrealizzabile, si convinse che Venezia era un tesoro indifendibile e, anziché perderla in guerra, preferì regalarla al nemico, all’Austria. Sennonché tutta quella borghesia veneziana che in Napoleone aveva visto il federatore della futura Italia si ritrovò ad accusarlo di essere colui che aveva venduto la Repubblica a un dominatore straniero. Onta terribile per un popolo che aveva fatto dell’autodeterminazione la propria bandiera da mille anni.


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(Sbarcatojo al ponte della paglia                      Autore non identificato         1900-1910)


Il resto è Italia, ossia storia fresca, recentissima: poco più di centocinquant’anni di convivenza tra uno stato imperfetto (e mai definitivamente completato) e un’anomalia millenaria. Le stesse foto dell’Archivio Alinari dimostrato questa situazione. La missione culturale dei fratelli Alinari (perseguita soprattutto da Vittorio, figlio del fondatore Leopoldo) fu quella di testimoniare l’Italia unita dando al nuovo Stato una sostanza iconografica, appunto, unitaria. Le immagini di Venezia, in questo senso, si sforzano di mostrarne l’italianità. Fatta si mestieri, di vita comunitaria, di giochi di bambini, di gentiluomini a passeggio, di signore ingioiellate o vecchi assopiti sulle scale... Ma alle spalle di queste figure comuni (comuni all’identità italiana, appunto) compaiono i segni di un’aporia difficilmente governabile: i profili dei palazzi, le simmetrie dei barbacani, le vie d’acqua, le geometrie sghembe dei campielli. Insomma, dietro le facce compare Venezia. Ecco perché oggi, benché sempre meno popolata, la città riesce ancora a conservare il suo profilo e il suo lessico autentici. Altro che finzione teatrale per turisti!



*NICOLA FANO (1959. Vive tra Roma e Torino dove insegna all’Accademia Albertina di Belle Arti l’astrusa materia di Letteratura e filosofia del teatro. Da quarantacinque anni va a teatro quasi tutte le sere e, giacché è recidivo, alla storia del teatro ha dedicato i numerosi libri che ha scritto. Detesta il calcio, ma gioca a pallacanestro: quando smetterà di farlo, con ogni probabilità, morirà)

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