L'Italia, com'era - 8) Torino, una Belle Époque e due dinastie sotto il segno del ferro
di ANDREA ALOI*
(accompagnamento musicale di VERONICA RAMONDA e MARTINA MASSIMINO)
Metallurgica, ferrigna, “futurista” perché devota alla ragion pratica del fare e del taylorismo. Torino celebra, nel torno d’anni tra Otto e Novecento, una risalita in vesti moderne alle sue origini di piazzaforte militar-industriale e un passaggio di consegne tra dinastie, dai Savoia capitani di ventura ai capitani d’industria, homines novi su cui viene a primeggiare, fin dalla fondazione della Fabbrica Italiana Automobili Torino nel 1899, il già ufficiale nel Savoia Cavalleria e futuro senatore Giovanni Agnelli da Villar Perosa.
Lestamente convertito al macchinismo dopo una formazione militare d’accademia, il nonno del principesco Gianni rappresenta l’idealtipo del nuovo e antico potere taurinense, innervato da spregiudicatezza e dura arte del comando, in caserma e in fabbrica (e quindi la conversione risulterà parziale, tanto più che la Fiat arriverà a lucrare non poco dalle commesse belliche). E il popolo? Passare da suddito col moschetto o la chiave a stella a cittadino richiederà tempo, lotte, consapevolezza, in una città che separa i ceti con intransigenza toponomastica. Chi può in collina, dal clima mite, chi non può giù a “godersi” - nei malsani isolati del vecchio centro o dei primi borghi operai - il ristagno freddo di una pianura chiusa dalle Alpi.
Nelle ultime decadi ottocentesche Torino s’insinua finalmente nella corrente della seconda rivoluzione industriale, una volta smaltita la crisi economica e morale dovuta allo scioccante, vulnerante passaggio della capitale nazionale prima a Firenze e quindi a Roma, nel 1871. La città sabauda non è più un posto qualsiasi “au delà des Alpes”, come usava dire in epoca napoleonica, denotando sufficienza e insieme un certo appetito verso una regione ritenuta strategicamente destinata.
Originata da un castrum romano, concresciuta su cardo (direzione nord-sud) e decumano (direzione est-ovest), deve rigare dritta e il vivere squadrato si è fatto, nei secoli, senso comune. Tanto che nel 1894 l’apertura di via Pietro Micca suscita scalpore: la strada dedicata al soldato minatore piemontese morto da eroe nel 1706, durante l’assedio francese, per salvare la Cittadella, procede in diagonale e, perbacco, il reticolo viario classico ne risulta turbato.
(La famiglia reale presenzia alla posa della prima pietra del ponte Umberto I Autore non identificato 1905 ca. )
Agli inizi del Seicento i duchi di Savoia avevano spinto sullo sviluppo di una pianta a scacchiera. Nell’intento denunciato, doveva rifarsi al Rinascimento, ma insomma, il richiamo alla pulizia architettonica e alla simmetria classica finiranno nei secoli per contare meno del “gioco di squadra” intimamente torinese: piazze (piazze d’armi o civili possibilmente con monumento equestre di un sovrano savoiardo, a Garibaldi verrà dedicata in zona decentrata una semplice statua pedestre: niente nobile cavalcatura per il sovversivo Eroe dei due mondi), incroci a novanta gradi, punti di fuga di poco rinascimentale smisuratezza, come corso Francia, via realizzata nel 1711 partendo dall’antico tracciato della via Francigena e che oggi corre da piazza Statuto a Rivoli per tredici chilometri. Segni di rigorosa grandeur, appena mitigata dal barocco dello Juvarra.
I Savoia, combattendo
dalla parte giusta la guerra di Successione Spagnola, dopo i trattati di
Utrecht e Rastadt (1713 e 1714), vinti i Francesi che si eran rotti i denti
inutilmente per centodiciassette giorni nell’assedio di Torino, da duchi
diventano re, il primo è Vittorio Amedeo II. Il regno cresce, all’alba dell’800
la nuova capitale sabauda, polo amministrativo ed economico, arriva a 60.000
abitanti e si espande con nuovi quartieri - ovviamente - geometrici.
Far bene le guerre, detta crudamente, conviene. Emanuele
Filiberto di Savoia, detto in
piemontese Testa 'd Fer e dagli alleati spagnoli Cabeza de Hierro,
si era messo al servizio di Carlo V contro la Francia (sempre lei) e nel 1557 a
San Quintino aveva combattuto e vinto, recuperando fior di terre al ducato di
Savoia, ormai non più un’esile voce nel concerto delle potenze europee.
Dedicargli un monumento nella centrale piazza San Carlo sarà il minimo, tanto
più che grazie a lui Torino era diventata capitale degli Stati sabaudi nel
1563, al posto di Chambery.
(Armatura di Carlo Emanuele I e Vittorio Amedeo I, Palazzo Reale Fratelli Alinari 1920-1930 ca.)
Poco più di un secolo dopo, Carlo Emanuele II attuerà cruciali riforme, piantando semi fatidici per Torino e l’Italia tutta. Non solo licenzia i costosi mercenari e crea cinque nuovi reggimenti interamente piemontesi (il reggimento "Piemonte", il "Savoia", il "Monferrato", il "Saluzzo" e quello delle “Guardie”), ma nel 1668 fonda l’Arsenale per la fusione dei cannoni. Il germe di future industrie d’armi, di polvere da sparo, di un forte comparto metallurgico-meccanico. E soprattutto di una tradizione industriale secolare che per li rami porterà in dote agli Agnelli, ai fratelli Ceirano, a Vincenzo Lancia e a moltissimi altri imprenditori-progettisti, una manodopera qualificata e orgogliosa del mestiere, preparata nei lavori d’alta precisione, tecnologicamente aggiornata con tutta l’esperienza maturata nelle industrie del legno, nelle officine militari o delle Strade Ferrate dello Stato.
Nel periodo che precede la fioritura degli anni tra Otto e
Novecento, all’Arsenale lavoravano 750 operai, 600 alla fabbrica d’armi
Valdocco, altrettanti alle Officine di Artiglieria. E poi Torino ha enormi
disponibilità di energia idraulica, in virtù di molti canali e quattro
fiumi, oltre al Po la Dora, la Stura e il Sangone. A configurare una
congiuntura più che propizia c’è pure l’apporto generoso dell’energia
elettrica, nel 1896 viene fondata la S.A. Elettricità Alta Italia. Il costo del
lavoro, ecco, non è davvero un problema, la questione sociale ha tinte
drammatiche.
Torino nel 1881 ha 250.000 abitanti, nel 1911 saranno il doppio.
È un boom demografico naturalmente legato alla marcia imponente
dell’industrialesimo. La Barriera di Milano con Fiat e Ansaldo quintuplica gli
abitanti, che arrivano a 25.000; a Pozzo Strada e Borgo San Paolo, dove si
viene a creare un distretto dell’auto con Scat, Ceirano, Itala, Chiribiri,
Fast, Lancia, Nazzaro, Lux, Taurinia, Diatto e altre ancora, gli abitanti
passano da poco più di 4.000 a 32.000. La Fiat assorbe l’officina Ceirano e lì
sforna le prime otto vetture, in attesa di trasferire la produzione in corso
Dante, in una fabbrica costruita a tambur battente. Nel 1916 inizia
l’edificazione del Lingotto in via Nizza - verrà inaugurato nel ’23 -, nel 1917
ingloba le Ferriere Piemontesi a Borgo Dora (Fiat Ferriere: un nome che negli
anni ’50 del Novecento diventerà famoso per il reparto confino dei forni ghisa,
frequentato da molti sindacalisti della Fiom).
I dati del 1901 parlano di una città già robustamente operaia: su 335.650 abitanti, ben 14.900 lavorano nella metalmeccanica, dieci anni dopo saranno più di 30.000. Nei primi anni del secolo il 33% degli alloggi operai è costituito da una sola camera dove vivono dalle cinque alle dieci persone e il salario per chi va in fabbrica viaggia sulle 2 lire al giorno, un muratore arriva a 3. Nel 1896 un chilo di pane costa 35 centesimi, il lavoro di bambini e donne sottopagate (nell’industria laniera sono la maggioranza) è la norma e nel 1886 è servita una legge per proibire il lavoro notturno dei minori di dodici anni e limitare a sei ore quello dei ragazzi da dodici a quindici anni. Sotto le dodici ore non si scende, è l’inferno in terra o giù di lì. E la fotografia sociale non si è ancora imposta come testimone.
(Imbarcazioni sul Po Autore non identificato 1900-1930)
Solo l’ottimismo della volontà permette a Edmondo De Amicis di mettere nella stessa classe di terza elementare il figlio di borghesi Enrico Bottini e il muratorino Antonio Rabucco, la Torino di collina o dei grandi viali come corso Vittorio e la Torino del vecchio centro popolare o dei nuovi borghi in cui convivono casa e fabbrica. Mondi magari spazialmente contigui, come la Piazzetta Reale e Porta Palazzo, eppure sideralmente lontani. “Cuore”, pubblicato nel 1886, distilla sì ammaestramenti per fanciulli che vogliono diventare obbedienti cittadini del Regno e animosi soldati per la Patria, ma almeno espone le feroci disparità sociali di una città che non perdona chi resta dietro mentre si sfreccia a mille sulle rotaie del Positivismo e del declamato Progresso.
L’Omnibus a cavalli è
bello, così moderno, ma non è per tutti se una corsa costa come un paio d’ore
del lavoro di un operaio. Nel 1897 i cavalli vanno in pensione, il Comune
elettrifica tutte le linee, intanto continua a crescere la Mole Antonelliana,
che nel 1889, anno del completamento della guglia, è l’edificio in muratura più
alto del mondo, con un'altezza di 167,5 metri. E si moltiplicano le Esposizioni
Internazionali dell’Industria e dell’Artigianato, le reti ferroviarie, col
traforo del Fréjus ad aprire le danze nel 1871. A Torino fiorisce una robusta
industria cinematografica, il pioniere Arturo Ambrosio, la Cenisio, la Bonnard
producono centinaia di pellicole - western compresi - fino al kolossal
“Cabiria” di Giovanni Pastrone, girato negli stabilimenti della Itala Film
sulla Dora e uscito nel 1914. E si fa strenua concorrenza ai cioccolatieri
svizzeri con la Caffarel-Prochet e la Talmone, antesignana della grande
industria dolciaria. Per chi ha un portafogli munito o comunque passabilmente fornito,
è Belle Époque.
(Veduta della Mole Antonelliana Anderson 1903)
Torino delle macchine e delle armi tra ferro e terribile fuoco metallurgico, del passaggio di testimone tra Savoia e Agnelli ha un nome simbolo, Mirafiori, a sud della città. Miraflores o Milleflorum, così si chiamava il castello fatto costruire nel 1585 da Carlo Emanuele I, residenza fastosa con grande parco, dal ’39 totem della città-Fiat. Dalla sabauda delizia alla croce (pur sempre benedetta quando non ti costava la ghirba) del lavoro. Dagli angoli retti e dagli incroci obbligati alle derapate ribelli, di cui Torino - a grattare un po’ la superficie delle agiografie belliche e dinastiche - mai è stata avara. Viene in mente per prima Maria Cattarina Bonino, la vedova del supersoldato Pietro Micca. Ottenuto un vitalizio di due pani al giorno per il sacrificio del marito, convolò nel 1709 a nuove nozze con tal Lorenzo Pavanello, disertore e già detenuto nelle carceri senatorie di via San Domenico.
*ANDREA ALOI (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro)
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