L'isola pedonale di Telendos
di GIGI SPINA*
La vacanza in Grecia comincia col viaggio in nave, meglio se con auto al seguito. Lo sostengo e l’ho praticato da quando ho cominciato ad andare in Grecia d’estate (1977). Ho fatto solo qualche eccezione aviatoria, una volta per un convegno internazionale di papirologia, di recente per Capodanno. E poi la volta di cui sto per raccontare.
Nella prima vita - chi mi conosce sa che sono di formazione gaberian-pirandelliana - si partiva da Brindisi, destinazione Igoumenitsa; lì, a partire da Igoumenitsa, si capiva cos’era la Grecia e perché la si amava a prima vista. Il fatto di essere un professore di filologia classica non c’entrava niente.
Nella seconda vita, si parte da Ancona per Patrasso.
Nella terza penso di potermi affidare a Hermes, esperto psicopompo.
Comincia lì la vacanza, nella fila di attesa all’imbarco; che sia la mitica Superfast o una nave delle Aneke Lines non conta, ormai le compagnie si mettono insieme e si lasciano come amanti; si passa in rassegna la fila per controllare se ci sono persone conosciute; ci si divide i compiti fra chi va a ritirare i biglietti e chi magari provvede a qualche ultimo acquisto; poi mi preparo alla salva di ordini perentori mezzo italiani mezzo greci che indicano lo spazio nel quale bisogna millimetricamente fare entrare la macchina, meglio se velocemente; trovo le comode scale o l’ascensore che conduce alla reception.
Una volta conquistata la cabina (non riesco più a farne a meno), comincia la vacanza: anche se conosco a memoria tutte le strutture e gli spazi della nave, faccio con rinnovato entusiasmo il giro per i ponti; al distacco della nave dalla banchina, scatto foto patriottiche o inneggianti alla fratellanza italo-greca; m’impadronisco di uno strategico tavolino con sedie, magari a bordo piscina, per poter giocare poi a burraco o leggere in santa pace un libro; conosco perfettamente l’ora in cui guadagnare il self-service e so già cosa scegliere, scambiando battute amichevoli con i ristoratori: insomma, sono in vacanza.
Al ritorno, da Patrasso, è tutto più semplice, tranne che trovare il porto e la banchina Grecia-Italia. Ma una volta lì ci si imbarca quasi subito. Lo sbarco è forse più complicato, ma si supera anche quello.
Ora, nella prima vita, quando sbarcavo a Brindisi, in genere intorno alle 19/20, mi ero fissato che non si doveva tornare subito a Napoli, ma bisognava fare una deviazione e fermarsi a Barletta, per mangiare al ristorante Ettore Fieramosca. Perché mi andava così. Ho costretto la mia famiglia, maggiorenni e minorenni, a farlo per molti anni, fra fine anni ’70 e per tutti gli Ottanta, con una ostinazione degna forse di miglior causa. Però il ricordo è indelebile, compreso il ritorno tardissimo a Napoli. Al punto che non voglio neanche cercare in rete per sapere se il ristorante c’è ancora. Mi basta sapere che allora c’era e io dentro a mangiare, di ritorno dalla Grecia.
Quando partivo da Brindisi, la vacanza in Grecia era perfettamente organizzata dall’amico Carlo, di cui ho già raccontato a proposito della Jugoslavia; dai tre ai cinque nuclei familiari con figli/e adolescenti, stanze (domatia) prenotate in anticipo o trovate sul posto, con tutta l’improvvisazione di un mondo senza internet.
Una volta ci imbucammo in un edificio ancora in costruzione, per una notte soltanto, ma capitò che un turista tedesco passasse l’intera notte a restituire al suolo greco i litri di retsina che aveva bevuto, cibi solidi compresi. Solo da pochi anni ho dimenticato quell’odore tremendo e ho ripreso ad assaggiare, se non a bere, il retsina. Ultimamente, preferisco il Moschofilero.
Carlo portava e metteva a disposizione generosamente il gommone, che noi, amici ‘filippini’ avremmo montato e smontato sotto la sua vigile direzione.
Faceva anche provare lo sci acquatico (per me misterioso e impraticabile, quasi come lo sci-sci: sono nato in Mediterraneo), però io usufruivo di un posto speciale per le battute di pesca subacquea, in apnea ma mai a più di 8 metri. Una delle prime volte, bardato da capo a piedi con cappuccio, maschera e boccaglio, pinne, fucile nella mano sinistra e coltello nella mano destra, purtroppo senza muta, mi esibii nella capriola all’indietro, come i sommozzatori di una squadra d’assalto. Nella spinta che tentai di darmi per una perfetta entrata nel mare, infilai la punta del coltello nel polpaccio, senza avvertire alcun dolore; solo quando cominciai a pinneggiare vidi un’ elegante scia di sangue che usciva dalla mia gamba e, con dignità tipica di un eroe greco, riaffiorai, appoggiandomi al gommone.Con voce calma, feci: “Carlo, mi sono pugnalato”, evitando l’accento francese alla Clouseau.
Non racconto il seguito; se ci incontreremo mai su una spiaggia, vi mostrerò la cicatrice che dovrebbe avere ormai quasi quarant’anni. Per non sputtanarmi del tutto, dirò che negli anni ho almeno pescato qualche scorfano e qualche polpo; ho una foto con capello lungo e la muta che ho portato per lunghissimi anni, grazie al mio peso costante, mentre ostento ben due polpi abbastanza grandi, pescati a Finikounda, in Peloponneso. Solo una volta, in Sardegna, ho pescato un maestoso grongo. Da un po’ di anni ho sostituito le armi con una macchina fotografica subacquea, grazie alla quale inondo ogni estate la mia pagina facebook di meravigliose istantanee sempre uguali, ma abbastanza suggestive. Pochi metri di profondità, in apnea, in compagnia, spesso, di murene e polpi.
L’anno del viaggio in aereo, Carlo aveva prenotato delle stanze su un’isola piccola piccola, un’isola pedonale, non raggiungibile con auto al seguito; eravamo in pochi, con un bimbo piccolo: ma soprattutto era un’estate caldissima, di quelle che se hai prenotato in Grecia cominci ad aver paura e a sudare già dall’Italia. Era l’88.
Atterrammo a Kos per pernottare in un bellissimo residence pieno di verde, che mi sarebbe piaciuto vedere di giorno. Impossibile: arrivammo intorno alle 23; dovevamo prendere il traghetto per Kalymnos la mattina seguente, molto presto. Kalymnos è l’isola ammiraglia, nel Dodecaneso, quella da cui, pare per un terremoto-maremoto in epoca medioevale, si staccò a un certo punto, dalla costa occidentale, Telendos, la nostra mèta, con di fronte le coste della Turchia. Di Kalymnos conoscevo alcune iscrizioni funerarie, che studiavo in quel periodo, e che poi andai a controllare nel locale museo archeologico.
Da Kos a Kalymnos un traghetto abbastanza capiente ospitava turisti e qualche auto; mi muovevo ancora dentro esperienze non inconsuete. Ma quando da Kalymnos prendemmo un barcone che doveva portarci a Telendos, cominciai a sentirmi l’eroe greco che deve affrontare l’ignoto mare e l’isola misteriosa, magari il canto delle sirene o l’occhio vorace del Ciclope. Controllai che ci fosse un albero resistente, in quel barcone, a cui magari farmi legare, e lì cominciò davvero la vacanza.
Sbarcammo su una delle due spiagge frequentabili, ma l’unica abitata, ciascuna soggetta alle bizzarrie dei tipici venti greci, che possono vanificare una vacanza se si rimane sempre sulla stessa costa. Lì era possibile valutare ogni mattina e scegliere di conseguenza. Il giorno di Ferragosto, per esempio, quando i Greci festeggiano la Vergine Maria e si prevedeva una processione di barche nello stretto fra le due coste, Kalymnos e Telendos, si levò un vento fortissimo che ritardò di molto la processione, mettendola a rischio.
Le stanze le dava in affitto Spiro, un uomo di mezz’età che venne ad accoglierci all’arrivo; si muoveva trascinando le gambe in modo innaturale. Solo nei giorni seguenti, parlando con lui, capimmo che eravamo nel mondo dei pescatori di spugne, capaci di scendere a profondità impensabili per raccoglierle, ma destinati a vedere il loro corpo indebolirsi e perdere vitalità, soprattutto nell’uso degli arti. Di grande intelligenza e ironia, Spiros diventò il nostro amico (interessato) per una quindicina di giorni. Sua era anche la taverna dove mangiavamo, scegliendo la mattina il menu o prenotando il pesce fresco che veniva pescato. Non che ci fosse solo pesce fresco. Spiros si divertiva, spesso con la nostra complicità, a spacciare pesce congelato per pesce fresco ai pochi altri europei sull’isola, mi pare danesi od olandesi. Spero non abbia fatto lo stesso con loro ai nostri danni.
Quando arrivammo, il caldo era davvero impressionante, anche se secco, per fortuna. Solo che, appena entrammo nel piccolo edificio con le camere ripartite ai vari piani, vedemmo in una stanza, con la porta spalancata, un ospite sdraiato sul letto con la testa avvolta in un asciugamano bagnato. Segnale per nulla incoraggiante. Poi, col passare dei giorni, ci abituammo, anche se ogni pomeriggio, alla controra, Carlo si sdraiava sulla riva con le gambe nell’acqua, cercando di sfruttare al massimo l’ombra di qualche timido alberello.
Per raggiungere l’altra spiaggia si attraversava in diagonale l’isola, incontrando, dentro una vegetazione non proprio rigogliosa, una chiesa bianca e blu, quei colori che incantano con la loro nettezza.
Così passarono giorni tranquilli, con qualche gita a Kalymnos, ma soprattutto, attenuatosi un po’ il caldo, con la rara sensazione di vivere una vacanza quasi da naufrago protetto, con Spiros e i suoi aiutanti e familiari come divinità del luogo, assolutamente originali e benefiche.
Finché, qualche giorno prima della partenza, mi sentii abbastanza forte per tentare quello cui avevo pensato sin dall’arrivo: il periplo dell’isola a nuoto (con le pinne, naturalmente). E lo feci: un paio d’ore, mi pare di ricordare, di nuoto calmo, ragionato, con tutte le lentezze e le continue deviazioni nelle piccole insenature che si aprivano lungo la costa. Quell’inganno della apparente linearità che continuamente viene fratta dall’approfondimento, dall’anche, dall’accumulo, mai uguale, soprattutto sul fondo, per fortuna basso. Naturalmente fu anche un percorso in continuo dialogo con me stesso, ma di questo non ho né foto né video, e neanche ricordi.
So, però, che fu anche questo, come so che il ritorno fu una climax (sì, è femminile, e significa scala, non acme!) discendente: dai pochi, dal silenzio e dalla riflessione intima ai molti, ai rumori, ai dialoghi e alle comunicazioni multiple.
Una discesa verso la complicazione, che però è la normalità della vita.
Del resto, è proprio per spezzarla ogni tanto che si va in vacanza, seguendo una climax ascendente. Buon viaggio verso la Grecia, in nave!
*GIGI SPINA (Salerno, 1946, è stato professore di Filologia Classica alla università Federico II di Napoli. Pratica jazz e tennis. Gli piace pensare e scrivere, mescolando passato e presente)
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