L'isola di Pasqua, e i miei due piccoli Moai

di ANNAMARIA PASSARO *

La sagoma dell’aereo sembrava enorme, nonostante fosse notte fonda e la pista poco illuminata. Era quasi mezzanotte, ero stanchissima e quasi non riuscivo a tenere gli occhi aperti.

Mi trovavo all’aeroporto di Santiago, pronta a imbarcarmi su un Airbus LAN Chile (l'aerolinea che avrebbe poi cambiato il nome in LATAM Chile) con “destino” l'Isola di Pasqua (Rapa Nui, in lingua locale). Ero stravolta. Le venti ore di volo dall’Italia con tre scali intermedi, le sei ore di fuso orario di differenza, i tre giorni di visita della città e della casa di Neruda, la salita al Cerro e l’escursione a Valparaiso mi avevano ridotto in pezzi. 

Un giorno, mentre pranzavamo al mercato del pesce, il ristoratore (un personaggio tuttofare, che riusciva a districarsi tra aste di pesce, ristorante e negozio) ci aveva raccomandato caldamente di non prenotare alcuna sistemazione sull’isola. Esisteva un solo albergo, piuttosto anonimo, ma quasi tutti i turisti preferivano alloggiare presso i locali. All’arrivo sarebbe bastato uscire dall’aeroporto e chiedere della signora Maria Hey, che ci avrebbe ospitato a casa sua. Il ristoratore alloggiava da lei ogni qualvolta accompagnava in trasferta sull’isola la squadra di calcio di cui era presidente. 

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(La "fabbrica" dei Moai         foto di Annamaria Passaro)

Gli annunci sulle procedure di decollo delle compagnie aeree di lingua spagnola mi hanno sempre terrorizzato. Equipaggio si dice “tripulación de cabina”. Prevediamo di arrivare a destinazione si dice “esperamos llegar en el destino”. Suoni molto poco rassicuranti. “Esperando de llegar en el destino”, e augurandomi che la sorte ci fosse benigna, ho bevuto mezzo litro di vino, ho allacciato la cintura di sicurezza e mi sono addormentata.

Mi ha risvegliata il rimbalzo dell’aereo sulla pista: eravamo giunti a “destino”.Alle due di notte ora locale, dopo un volo di poco meno di 5 ore. Thor Heyerdahl (il grande esploratore norvegese) era stato il primo a “farmi navigare” con l’immaginazione nei mari del sud con la sua zattera Kon-Tiki. Poi erano arrivate le stravaganti avventure di Corto Maltese ad aggiungere fascino e mistero a quei luoghi. Dopo tanti sogni e fantasie, in quel momento ero finalmente approdata a Rapa Nui, ombelico del mondo (Te Pito o Te Henua, in lingua locale), come gli abitanti amano ancora riferirsi all’isola. Mi trovavo nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, a 3750 km da Santiago del Cile e a 4250 km da Tahiti, nel luogo abitato più isolato dal resto del mondo. 

La pista di atterraggio era lunghissima e molto larga. Al momento non capivo come mai un’isola così piccola fosse dotata di un’infrastruttura così grande. Avrei scoperto più tardi che il governo cileno aveva concesso agli americani la possibilità di ampliare la pista esistente per consentire un eventuale atterraggio di emergenza degli Space Shuttle (circostanza che fortunatamente non si è mai verificata). 

L’edificio dell’aeroporto era invece costituito di una serie di casette e capanne di cannucce.

Ritirato il bagaglio e usciti all’aperto, ad accoglierci ci aspettavano in gran numero gli abitanti del villaggio. Abbiamo chiesto di Maria Hey, che subito si è presentata sorridente: era una pascuense, discendente dagli antichi abitanti dell’isola. Maria, dopo aver raccolto un’altra coppia – un sacerdote anglicano con moglie, orgogliosamente presentatisi come membri della “Anglo-Chilean community” – ci ha condotto a casa sua: un Airbnb ante litteram.

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(foto di Annamaria Passaro)

L’unico centro abitato dell’Isola di Pasqua si chiama Hanga Roa. Nel 1994, al tempo della nostra visita, il villaggio consisteva di due strade principali che si incrociavano, costeggiate da casette di legno colorato, con verande. Una grande chiesa dedicata a San Francesco si trovava in cima a una delle due strade principali, quella perpendicolare alla costa.La domenica siamo andati a messa. I canti tradizionali durante la funzione erano davvero belli, come ci avevano assicurato. Alla fine della cerimonia il prete ha voluto conoscerci. Era cileno e si trovava sull’isola da molto tempo. Aveva studiato a Roma, caput mundi. E quindi, giustamente, l’avevano mandato in missione a Te Pitu o Te Henua, che del mondo era l’ombelico... Parlava con grande nostalgia dei parenti, che non vedeva da anni. “Sacame una foto”, mi aveva chiesto. Fammi una fotografia, e mandala ai miei, così vedranno come sono, vedranno com’è la mia faccia.

Ricordo ancora il bigliettino su cui aveva scritto l’indirizzo: naturalmente spedii la fotografia e il bigliettino appena mi fu possibile. Conservo ancora una copia di quella foto: si era messo in posa sorridente sotto un’immagine di San Francesco. 

Riguardo all’isola e sulle sue sculture misteriose avevo letto tutto ciò che ero riuscita a trovare. Molte le teorie sull’origine di quelle popolazioni, e altrettante le leggende. Teorie che negli anni si sarebbero poi evolute, ma non avendo più approfondito l’argomento, non saprei dire oggi su quali sostanziali differenze si dibattesse allora. Una teoria, riconducibile a Heyerdahl, sarebbe stata poi smentita: dal DNA delle ossa ritrovate si è scoperto che i primi abitanti venivano dalla Polinesia, e non dal Sud America come lui aveva ipotizzato.

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(Il cratere Rano Kao         foto di Annamaria Passaro)

Gli sporadici visitatori che nei secoli passati vi fecero scalo trovarono di volta in volta situazioni diverse. Chi la scoprì fu un olandese nel giorno di Pasqua del 1722: vi trovò una popolazione in buona salute e una civiltà fiorente. Poi transitarono gli spagnoli nel 1770, che non rilevarono condizioni particolarmente degne di nota.  Quattro anni dopo l’isola venne visitata da James Cook, che riscontrò condizioni di vita molto degradate senza riuscire a capire le ragioni del repentino declino: sembra che nessuno fosse disposto a discuterne.

Delle grandi sculture sparse ovunque sull’isola (i moai) non si conosce ancora l’esatto significato. E neanche cosa voglia dire il nome. Secondo la teoria più accreditata, sarebbero le immagini degli antenati, protettori dell’isola. Volgono le spalle al mare, e il loro sguardo orientato verso l'interno sembra voler rassicurare gli isolani: “State tranquilli, siamo qui noi a proteggervi dai pericoli.”

Queste statue si trovano per lo più lungo la costa, ma alcune anche nell’interno, isolate o affiancate l’una accanto all’altra su piattaforme chiamate aku. Le prime che ho visitato si trovavano davanti a una spianata selciata con pietre laviche disposte in maniera regolare. Mi pare vi fosse una lapide in ricordo di Heyerdahl.

A prima vista i moai, pur se di altezze diverse, sembrano condividere una stessa forma. Ma osservandoli attentamente si possono osservare forti differenze.Alcune statue, decisamente più raffinate e meno grezze, sono sormontate da grandi cappelli di roccia tufacea rossa, hanno tratti del corpo appena accennati e tracce di occhi colorati (corallo bianco per la sclera e ossidiana per l’iride).  

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(L'autrice sotto il "suo" Moai)

Rapa Nui (che vuol dire “grande isola”) è di origine vulcanica, e ha molti crateri. I tre principali sono Rano Kao, il Maunga Puakatiki (più noto come Poike) e il Maunga Terevaka. Un tempo separati dal mare, eruzione dopo eruzione essi si sono fusi in un’unica isola triangolare, della quale oggi costituiscono i vertici.

Nei quattro giorni che avevamo a disposizione abbiamo girato l’isola con ogni mezzo: a piedi, in auto e persino a cavallo. Tra i molti hermanos di Maria ce n’era sempre uno pronto a procurarci ciò che occorreva per le nostre escursioni. Uno di questi, di nome Emiliano, ci ha fatto vivere una delle esperienze più suggestive, portandoci a cavallo a visitare le statue e le grotte laviche che costellano l’interno dell’isola. Si sentiva solo il rumore del vento e del mare. L’isola ha un’atmosfera che ti cattura, magica, probabilmente dovuta anche all’enigma che ancora circonda gran parte della sua storia. Tuttavia la presenza delle statue e il senso di potenza che trasmettevano mi davano davvero la sensazione di essere in mezzo ad antichissimi “parenti” protettori.

Questa sensazione l’ho provata in maniera molto intensa in un sito in particolare, sulle pendici di un vulcano secondario, il Ranu Raraku. Non lontano dal Poike, questa era la “fabbrica” dove i moai venivano scolpiti scavandoli dal tufo, per poi essere trasportati altrove. C’era un’intera “foresta” di statue abbandonate. Molte in piedi, altre cadute, alcune ancora sdraiate nella roccia. Una di queste, incompiuta, era lunga oltre 20 metri: la più grande che avessimo visto. Difficile immaginare come potessero alzarla e trasportarla. In questa atmosfera magica, ho scelto un moai per appoggiarmi e riposare. Sono rimasta seduta ai suoi piedi a lungo, con un gran senso di pace. Forse era stato lui a scegliermi.

Sulla via del ritorno da Ranu Raraku abbiamo incontrato una spedizione di archeologi giapponesi che stavano finendo di restaurare Aku Tongariki, l’altare-piattaforma che ospita il maggior numero di statue affiancate, tra gli aku dell’isola. 

Sui bordi del cratere di Rano Kau (uno dei tre crateri principali, non lontano dall’abitato di Hanga Roa), oltre agli usuali moai si trova anche il santuario di Orongo, cui è legata una tra le leggende più straordinarie sulle usanze degli antichi abitanti: quella dell’ ”Uomo Uccello”. Era una prova di forza e resistenza nella quale si sfidavano gli uomini più giovani e forti delle diverse tribù che un tempo popolavano l'isola. Scendendo a precipizio le pareti del cratere, i contendenti dovevano nuotare tra gli squali fino a raggiungere un isolotto di fronte (Motu Nui), raccogliere l’uovo dal nido di una sterna, nuotare di nuovo verso terra, ri-scalare le pendici del vulcano e consegnare l’uovo intatto al Gran Sacerdote. Il vincitore avrebbe avuto in sposa una vergine, e per tutto l’anno sarebbe stato onorato come l’”Uomo Uccello”.

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(L'isola di Pasqua, nel cuore del Pacifico)

Ogni angolo, ogni sito dell’isola ha un riferimento nei racconti tradizionali o mitologici.

Nelle molte grotte di origine vulcanica sono state trovate sepolture, una delle quali attribuita a Hotu Matu’a, il primo leggendario colonizzatore dell’isola, e capo supremo del suo popolo.

Ho nuotato davanti alla spiaggia di Anakena, l’approdo di Hotu Matu’a, splendida insenatura di sabbia al riparo dagli sguardi indiscreti dei moai, che anche in quel luogo appartato volgono lo sguardo verso l’interno e le spalle verso il mare. Ho visto pietre sacre e rotonde disposte in circolo. Tra queste, la più grande e meglio levigata rappresenta il famoso “ombelico del mondo”. Si parlava allora di tribù dalle lunghe e corte orecchie, del disboscamento dell’isola per il trasporto delle statue. Credo che ancora oggi non si sappiano spiegare in maniera convincente il tipo di vita e i mutamenti che l’isola ha subito nei secoli, prima dell’arrivo stabile di abitanti continentali.

Sono ripartita portando con me due piccoli moai, che conservo in una credenza.

Mi osservano, serissimi, da oltre 25 anni.  

Spero che mi proteggano a lungo.


*ANNAMARIA PASSARO (nata a Milano nel 1955 da famiglia napoletana. Laureata in Filosofia, illustratrice. "Onirico ironica" è la definizione che amo e che mi diede l' amatissimo agente Marcelo Ravoni (Quipos) )


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