Ladakh, e tocchi il cielo con un dito

di ANNAMARIA PASSARO*

Ci svegliamo molto presto: il volo da Nuova Delhi per Leh, capoluogo del Ladakh, prevede moltissimi controlli alla partenza, e quindi dobbiamo presentarci in aeroporto con notevole anticipo per sbrigare le formalità d’imbarco. I voli per Leh sono infatti considerati ad alto rischio, e non solo per la particolare posizione dell’aeroporto della cittadina (poco prima di raggiungere la pista, la rotta porta a sfiorare un’inquietante collinetta rocciosa). La regione del Ladakh si trova infatti all’estremo nord dell’India, ma la sua porzione nord-orientale (Aksai Chin) è caduta sotto il controllo cinese nel 1962. Rare sono le scaramucce tra le truppe che presidiano la “Linea di controllo effettivo” (denominazione “ufficiale” del confine di fatto), ma la tensione è tuttavia palpabile. 

125402527_1257147304641601_6231613814280171011_njpg

Come se ciò non bastasse, anche la linea che divide il Kashmir (regione geografica di cui il Ladakh fa parte) nelle due porzioni controllate da India e Pakistan è controversa e presidiata dai rispettivi eserciti, nonostante si stia celebrando proprio nell’anno del nostro viaggio (1997) il cinquantesimo anniversario dell’indipendenza del subcontinente indiano dalla Gran Bretagna, con la contestuale scissione del medesimo nei due stati dell’India e del Pakistan (la cosiddetta partition). I tentennamenti del sovrano nella decisione se aderire all’uno o all’altro stato ai tempi della partition avevano portato il Kashmir a diventare sin da allora un territorio conteso tra le due potenze, e di fatto controllato in parte dall’una e in parte dall’altra. Qui le scaramucce lungo la “Linea di controllo” (denominazione “ufficiale” anche questa) sono più frequenti di quelle che interessano la “Linea di controllo effettivo” tra India e Cina, e le conseguenze sono spesso più gravi (noi stessi avremmo evitato per pochi giorni una granata sparata dal Pakistan su Kargil, cittadina all’estremità orientale del Ladakh, ordigno che colpì il mercato e provocò 17 morti. Kargil è stata co-capoluogo insieme a Leh fino alla divisione del Ladakh in due territori autonomi, divenuta effettiva il 31 ottobre 2019).

 In questa polveriera, è del tutto evidente che la sicurezza dei trasporti da e per la regione richiedesse allora (come richiede tuttora) l’adozione di misure straordinarie.

 Il volo dura poco più di un’ora. Il cielo è limpido e di un blu intenso. Dal finestrino dell’aereo posso ammirarela catena del Karakorum, e in lontananza la piramide del K2 e il profilo degli altri Ottomila che lo affiancano (il BroadPeak con i Gasherbrum I e II). Mi torna improvvisamente alla mente la figura di Achille Compagnoni, uno dei conquistatori della vetta (nel 1954). Quando ero adolescente, l’avevo conosciuto al rifugio Casati al Cevedale, sopra Santa Caterina Valfurva. Avevo trascorso in quel luogo un paio di settimane, perché volevo imparare a sciare. Mi ero divertita moltissimo, ma quella era stata la prima e l’ultima occasione in cui avevo messo gli sci ai piedi (e con la classica fortuna dei principianti avevo persino vinto una gara! Credo di conservare ancora la medaglietta…). Ricordo benissimo la figura di Compagnoni: un omone dai capelli bianchi, con un eterno maglione rosso. Governava con mano ferma e mugugni il rifugio e una massa di ragazzini scatenati, soprattutto all’ora di andare a letto.

125429761_707466519898217_2279233245719867954_njpg

(foto di Annamaria Passaro)

Mentre i ricordi riaffiorano dal passato, atterriamo a Leh.

Imboccata la scaletta per scendere dall’aereo, mi sento mancare le gambe: l’aria rarefatta mi fa girare la testa e quasi non riesco a stare in pedi. Passare di colpo dai poco più di 200metri s.l.m. di Delhi ai 3500 metri di Leh è proprio una bella botta. Passiamo la prima giornata barcollando, con il fiato corto non appena abbiamo da salire due gradini. Però la città è così affascinante che non possiamo trattenerci dal girarla subito. Il clima estivo è mite, e ovunque ci sono giardini fioriti. Leh si sviluppa sulle prime alture del fondovalle, ed è circondata da colline e montagne che arrivano a superare i 6000 metri di altezza. Il paesaggio è un alternarsi di alture brulle, tra le quali giacciono piccole conche verdi e coltivate. Un contrasto di colori fortissimo.

Seppure barcollante e stonata, sono affascinata dall’atmosfera che si respira per le vie della città, a tratti sorprendentemente internazionale. Incrocio giovani da tutto il mondo e mi imbatto in bar, ristoranti e ritrovi decisamente “di tendenza”, con musica e menù inaspettati in un posto del genere. (A proposito di menù, alcuni riportano allarmanti specialità locali quali i fried children, bambini fritti: siamo certi che non si tratti invece di fried chicken, pollo fritto? Nel dubbio, meglio evitare...)

La città sta diventando un polo di attrazione per gli amanti della natura. In ogni angolo si incontrano agenzie specializzate in trekking a piedi o a cavallo, oppure in rafting sui fiumi Indo e Zanskar. Molti edifici di concezione moderna si sostituiscono alle case tradizionali. Leh è tuttavia ancora “autentica”, anche se sono chiari i segni di un’espansione velocissima. Ovunque, sulle colline circostanti, si possono vedere i festoni di drappi colorati che il vento non riesce a strappare dalle lunghe funi tese alle quali sono appesi. I drappi sono pieni di scritte, per me naturalmente incomprensibili. Mi viene spiegato che si tratta di preghiere, che il vento si incarica di prelevare dalle bandierine e di consegnare alle divinità.

125469555_376694903783550_2247704523225521555_n 1jpg

(foto di Annamaria Passaro)

Nel centro di Leh si trova il palazzo reale, che è stato costruito seguendo il modello del Potala di Lhasa, antica residenza del Dalai Lama. E’ una versione in miniatura di quello tibetano, e domina la parte vecchia della città – un dedalo di stradine strettissime, su cui affacciano negozietti stracolmi di meraviglie. Leh è stata uno snodo importante per le rotte commerciali tra la Cina, il Tibet, il Kashmir, la valle dell’Indo e la più lontana Asia Centrale. In quei bazar “ho visto cose che voi umani…” – una varietà incredibile di collane in corallo, turchesi, lapislazzuli, perle e ambra. Tesori da mille e una notte, ai quali mi è stato però impedito di avvicinarmi troppo…

Le strade sono ancora in maggior parte sterrate, percorse da pedoni, auto, carretti e altri generi di veicoli improvvisati. Verso sera la città viene attraversata da greggi che tornano dal pascolo. Mi imbatto di una deliziosa pecorella nera che corre su e giù smarrita, in cerca della mamma. Ancora mi domando che fine avrà fatto… 

L’ultima notte viene a mancare la luce in tutta la città. Rimaniamo al buio fino all’alba: occasione magnifica per vedere in lontananza la catena di montagne innevate, illuminate dalla luna e dalle stelle. Ci sembra di poter letteralmente toccare il cielo con un dito.

Il cielo stellato sopra di me…”, penso che Kant aveva voluto una frase bellissima per la sua tomba. Quella notte è l’apoteosi di quattro giorni limpidissimi.

Nella prima parte del viaggio, prima di sbarcare in Ladakh, avevamo visitato alcune zone dell’India centrale, ciascuna caratterizzata da una religione prevalente. Eravamo stati “indottrinati” via via da una guida indù, da una sikh e da una musulmana (un distinto signore, discreto e distaccato, che fumava come un turco). Con il pensiero che ancora sta cercando di districarsi in quel groviglio di riti e di credenze, non immagino che il “meglio” stia ancora per arrivare: Il Ladakh è anche noto come “piccolo Tibet indiano”, oltre che per ragioni linguistiche e culturali, anche per la concentrazione di monasteri e di istituzioni buddiste. Molti esuli tibetani vi hanno trovato una seconda patria. Il Dalai Lama ha una sede in Ladakh, e vi si reca di frequente. Monasteri e centri religiosi si sono moltiplicati nel tempo. Insomma, tutta la regione è un concentrato di spiritualità buddista.

125543656_406984056999986_1539479805100866857_njpg

(foto di Annamaria Passaro)

 Per una curiosa coincidenza, la nostra nuova guida si chiama Tenzing, come lo sherpa Tenzing Norgay (universalmente noto semplicemente comeTenzing) che con Sir Edmund Hillary aveva raggiunto per primo la vetta dell’Everest (nel 1953). E’ un giovane di una tenacia e una resistenza ammirevoli, come lo sherpa suo omonimo, ma in questo caso le sue energie sono tutte dedicate a illustrarci i rituali e le preghiere della sua religione, nonché le storie delle molteplici reincarnazioni del Buddha. Grande importanza sembra attribuire ai vari colori dei cappelli del Buddha. (Oggi, a distanza di quasi un quarto di secolo dal nostro viaggio, ricordo solo che ne aveva anche uno giallo, ma ho dimenticato perché allora la cosa mi avesse così tanto colpito). Non conosco quasi nulla del buddismo e delle sue ramificazioni. Continuo a scalare monasteri, respiro l’odore del legno, dell’incenso e della carta, ammiro i disegni di animali, dei e demoni, ma non me la sento di approfondire i vari aspetti della religione. Forse solo non mi piacciono le rappresentazioni pittoriche dalle facce mostruose, dalle mille incomprensibili allegorie. Mi inquietano. A differenza dei canti dei monaci e dei suoni degli strumenti tradizionali, che invece mi creano una sensazione di armonia.

Dopo il primo giorno di adattamento all’altitudine, dedichiamo quelli successivi alla visita dei dintorni, con escursioni giornaliere anche molto lunghe. Nonostante l’altitudine, ovunque scorra l’acqua le valli sono verdeggianti e molto ben coltivate. Vi crescono soprattutto orzo e alberi di albicocche. Mi imbatto perfino in alcune piante di capperi (che, per non smentirsi mai, crescono come e dove vogliono; solo io non sono mai riuscita a far crescere una sola pianta, nonostante abbia interrato semi di cappero quasi ovunque). 

125403874_378875726501590_2222851211503457465_njpg

(foto di Annamaria Passaro)

Lungo le strade si incontrano decine e decine di stupa:  monumenti spirituali buddisti a forma di panettone con un pinnacolo, la cui principale funzione sembra essere quella di conservare reliquie.  

Il primo monastero che visitiamo è il Thiksey Gompa, a circa 20 km da Leh. Anch’esso assomiglia al Potala, e per entrare nel complesso composto da ben dodici livelli bisogna arrampicarsi sulla cima della collina (il che sarà vero anche per tutti gli altri monasteri che andremo a visitare, ma questo è particolarmente alto e imponente). Il complesso custodisce una statua di 14 metri, il Buddha del Futuro. A uno dei livelli superiori troviamo una fila di campane a forma di cilindro che vanno fatte ruotare con le mani per farle suonare e per affidare al vento le preghiere.

I suoni e le vibrazioni delle campane nei monasteri creano un’atmosfera ultraterrena.

Il canto dei monaci, un vibrato metallico che arriva dalle profondità del corpo: ti trasporta in un’altra dimensione. Il tutto mi dà un senso di grande pace. 

Ci troviamo ora a Spituk Gompa. Siamo i soli a visitarlo oggi. Ad aprirci viene un bambino, un giovanissimo aspirante monaco con il moccio al naso. Ci accompagna nella cucina del monastero, una stanza molto buia e piena di pentole, dove un monaco sta cucinando su una piccola stufa. Ci accoglie con grande ospitalità, e subito si mette a preparare per noi il famoso the al burro di yak. Lo guardiamo perplessi mentre con i pollici stempera le scaglie di burro essiccate in una tazza semisferica, aggiungendovi di tanto in tanto un goccio di the bollente, fino a ottenere il giusto amalgama. Alla fine riempie la tazza con abbondante the bollente. Il colore è molto inquietante… Per non offendere l’ospite, avendo già avuto incidenti di percorso, mi scuso dicendo che la mia religione mi impedisce di bere o mangiare in quel particolare momento della giornata. Il mio compagno di viaggio, che invece non rifiuta mai nulla, si scola tutta la tazza da solo (era per due…). Per sua fortuna è ancora vivo. 

125409393_659928684887684_8897683718035528694_njpg

(foto di Annamaria Passaro)

In un altro monastero, un monaco molto colto, e che ha molto viaggiato, ci fa da cicerone per le stanze e i piani dell’edificio. E’ assai cortese, e visto il nostro interesse ci fa accedere di sua iniziativa a terrazze e luoghi normalmente chiusi alla visita dei turisti. Sarà la nostra guida a spiegarci questo dettaglio, sulla via del ritorno: il monaco l’aveva taciuto, forse per non farci pesare la sua grande disponibilità. 

Visitiamo altri monasteri più piccoli, ma con librerie di preghiere e decorazioni elaboratissime. Ciascuno ha la sua peculiare statua o il suo specifico riferimento religioso, di cui Tenzing ci illustra ogni minimo dettaglio, mai nascondendo – ma neppure ostentando – il fervore della sua fede. 

In più di una occasione nei monasteri troviamo gruppetti di monaci indaffarati intorno a supporti di legno o di pietra simili a tavolini, che recano incisi complicatissimi disegni geometrici. Li stanno colorando, utilizzando sabbia variopinta finissima, al posto dei pastelli o dei pennarelli. Si tratta dei celebri mandala. La sabbia va depositata sul disegno con grande attenzione e mano ferma per non “sbavare”, dal momento che è quasi impossibile correggere gli errori. Questi veri e proprio capolavori, che richiedono lunghissimi tempi di esecuzione e una pazienza infinita, vengono poi intenzionalmente distrutti, per educare gli uomini alla provvisorietà della vita materiale. A non attaccarsi alle cose terrene. 125341524_4579640912106133_3562428104044444167_njpg

(foto di Annamaria Passaro)

Il quarto e ultimo giorno, prima del tramonto, ci avventuriamo sulla collina che domina Leh, dietro il palazzo reale. Ormai abbiamo recuperato fiato e gambe, e possiamo affrontare la china (che si rivela molto più faticosa del previsto, ci arrampichiamo su un terreno friabile e polveroso, praticamente privo di sentieri). Sulla cima troviamo un piccolo monastero semiabbandonato, quasi un rudere circondato da festoni di bandierine colorate sventolanti. Dalla cima dell’edificio si gode un panorama vastissimo, reso ancor più bello dalle ultime luci del giorno e dal silenzio. E’ il nostro saluto alla città: l’indomani partiremo per un viaggio in macchina di due giorni che ci porterà a Kargil e Srinagar.


*ANNAMARIA PASSARO (nata a Milano nel 1955 da famiglia napoletana. Laureata in Filosofia, illustratrice. "Onirico ironica" è la definizione che amo e che mi diede l' amatissimo agente Marcelo Ravoni (Quipos) ) 


clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per rilanciare i nostri racconti su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram