La recensione - Il calcio e le cose perdute, un segugio alla Proust fra i miti del pallone

di ANDREA ALOI*

(illustrazioni di Michele Targonato)


Ci sono, nel calcio come in ogni fiume del secolare agire umano, una histoire événementielle - la storia dei grandi avvenimenti, dei grandi campioni - e una “nuova storia” che investiga il territorio dei segni, delle sconnessure, del quotidiano e lo fa, certo, con l’aratro classico degli strumenti storici, aggiungendoci però lo sguardo delle scienze sociali, attento alle strutture profonde e insieme ai fenomeni di costume. Un lavoro che scava e sa ri-raccontare, a partire anche da minime scintille. Ecco dunque un primo dato di fatto: nelle nostre italiche lande, di conoscitori-innamorati del calcio massimo e minimo come Nicola Calzaretta non ce n’è tanti. Punto. E subito a leggere.


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Dopo “Alla ricerca del calcio perduto” rieccolo con un altro regalo non meno proustiano, “Le cose perdute del calcio. Un viaggio nel tempo, un gioco della memoria. Per vedere l’effetto che fa” (pubblica NFC edizioni e sono 16,90 euro ben spesi per 214 pagine). Avvocato di larga umanità, goloso di archivi e memorabilia, ottimamente strutturato quanto a conoscenza del Gioco, tatticamente e storicamente, connoisseur sopraffino di maglie e scarpini, tessuti e colori delle divise pallonare, Calzaretta, antico collaboratore del Guerin Sportivo, è una miniera umana di aneddoti, arricchita in mille interviste a primattori e caratteristi del prato segnato da righe bianche, quel luogo sospeso da affanni e urbanesimo che non smette - nonostante plusvalenze farlocche, bilanci rossastri, agenti prepotenti e sceicchi pigliatutto al punto di ammannire un mondiale in Qatar tra novembre e dicembre - di suscitare passione e proiettare un arcobaleno di sogni, tracce lontane, emozioni. Il calcio è un impero (magico) dei sensi.

Per dire. Da bambino hai visto in un piccolo spezzone tv il portiere Lev Jascin, leggenda sovietica degli anni ’60. Sovrumano senso del piazzamento, leve potenti benché non muscolatissime, acrobatico. In completa, definitiva divisa nera. Lev, il Ragno Nero. Lo hai messo nella tua teca, in posizione d’onore, accanto al milanista Fabio Cudicini, un altro mirabile bislungo, custode della porta rossonera nell’europea marcia trionfale del ’69, pure lui in completo nero nerissimo. Poi noti, tanti anni dopo, un 5 di ottobre del 1975, prima giornata di Campionato (anno scolastico e Serie A una volta andavano a braccetto, il torneo se la prendeva comoda, non c’era da assolvere all’obbligo di tornei nazionali, coppe e coppettine dilatate a dismisura per pascere sponsor e tv), noti che Zoff, portiere della Juventus, entra in campo in maglia verde. Sei colpito e misuri in un attimo una distanza, ti fai domande. Nicola Calzaretta ha pronte buone risposte sul perché e sul percome. Sulle nuove divise dei guardiani di porta e sulla rivoluzione datata luglio 1978 quando le illibate maglie degli eroi della domenica iniziarono ad ospitare il logo del fornitore tecnico delle sopraddette: appena dodici centimetri quadrati, a denotare, ancora, un certo pudore.


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Tre anni dopo, nell’estate dell’81, le maglie cambiano per sempre. Altro che un piccolo logo, il capitano della Roma Agostino Di Bartolomei è il protagonista della prima immagine ufficiale di una divisa sponsorizzata, nel caso una scritta “Barilla” a tutto torace. In campo si vedranno una Juve-Ariston, l’Udinese-Zanussi, il Napoli-Snaidero, il Cagliari con Ariostea, che fabbrica piastrelle. Pasta “di marca”, elettrodomestici e tutto quanto comporta un arrembante consumismo ormai di massa. Il calcio, a saperlo radiografare, è una buona scuola di storia sociale. La santa camiseta si vende, i portieri sono multicolori e pure gli scarpini cambiano, abbandonando il nero-cuoio del secondo dopoguerra. Dagli artigiani calzaturieri fini assai che confezionavano austeri e pregiati strumenti del mestiere (Tepa, Atala, Valsport, Ferrari, Angelo Magrini) si passerà, in un crescendo inarrestabile, ai big del corredo sportivo, Adidas e Nike in testa e via coi colori fluo, accesi, con gli scarpini personalizzati e griffati. Un mediano in scarpe rosse: ormai si deglutisce, si abbozza e sospira. Ecco il calcio moderno. Resistono, facendo della sobrietà una bandiera, i marchigiani di “Pantofola d’oro”, scarpini così battezzati negli anni Cinquanta da John Charles, sedotto dalla loro souplesse. Interessa sapere cosa combinò l’allora juventino Zibì Boniek alle sue scarpe prima di entrare nell’85 a disputare, in un Comunale di Torino innevato e ghiacciato, la finale di Supercoppa Europea? Consultate con fiducia “il” Calzaretta. Ci troverete pure qualche buona ipotesi sulla misteriosa scomparsa, negli anni Ottanta, dei calzettoni mozzi senza piede, soppiantati da quelli completi. Perché prima sì e poi non più?


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Dal corredo alla corrida di campo, escono dal tunnel il portiere e i terzini. Come? Oggi si deve dire “esterni di difesa”? D’accordo. Basta col contropiede, trattasi di “ripartenza”. Basta scatto repentino in avanti, meglio “aggressione dello spazio”. Scrive Calzaretta, notarile e - lo so - con un certo sorriso sulle labbra: “Non si avanza più, ci si alza. Si fa la diagonale perché scalare la posizione puzzava di muffa”.

E le maglie numerate dall’1 all’11? Adieu. Con “Le cose perdute del calcio” ve ne farete una ragione e vi scolpirete un’idea precisa della differenza tra Metodo e Sistema, che poi è un cambio di paradigma tattico fondamentale. Il calcio è una cosa seria, perbacco. Nella sapida Spoon River a ciglio asciutto di Nicola, impareremo a gioire di preziosi souvenir. Tipo la marcatura a uomo, sovente soppiantata ai giorni nostri dalla marcatura a zona, foriera, va detto, di imbarcate difensive coi fiocchi, ma tant’è. Dire “marcatura a uomo” è dire calcio all’italiana, dire calcio all’italiana (riveduto, intelligentemente praticato) è dire - tra gli altri - Nereo Rocco. Marzo 1970, il Milan deve affrontare la Juventus ed è a corto di difensori-marcatori, di quelli che a fine partita ti lasciano autografi in color blu-ematoma un po’ ovunque. E che fa il Paron? Butta in campo, debuttante assoluto in A, il neanche ventenne Cesare Cattaneo di Verano Brianza. Seguiranno per il giovinotto polvere e altari, nel libro ricostruiti come sanno fare i veri segugi.


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Per definire la vetusta marcatura a uomo può essere utile, comunque, recarsi in uno dei tanti bar bolognesi che ancora ostendono con orgoglio la foto di Ezio Pascutti, strepitosa ala sinistra e tanto altro del Bologna che "giocava in Paradiso”, scudettato nel ’64. L’immagine consegna ai posteri un match contro l’Inter rivale (e che Inter era quella, padrona del mondo), Pascutti è in volo rasoterra parallelo alla porta (a che distanza? "Sotto misura", vicino insomma) e, come da specialità della casa, sta indirizzando di cabeza il cuoio in fondo al sacco. Vola insieme a lui, praticamente affiancato, solo un pelino arretrato, Tarcisio Burgnich, terzino-roccia nerazzurro. Marcatura a uomo assillante e acrobatica, fedele alla consegna, quella volta inutile ma che cuore, che senso del ruolo.

La partita di football simula e sublima una guerra, con tanto di ripetute invasioni dell’altrui patria da parte delle due contendenti. Tanto che, a sigillare il senso profondo, sportivamente bellico, del match pedatorio, fino al 2016, il primo calcio al pallone veniva dato in avanti: ci siamo, ti attacco in casa tua. Tutto finito, da quella data e segnatamente dal Campionato Europeo coevo: lo spagnolo Fernando Torres, al fischio d’inizio, è tra i primi a passare palla all’indietro. Potrebbe essere uno dei più proverbiali “chissenefrega”, ma in effetti segna una piccola rivoluzione concettuale, nata nelle non sempre fervide menti dei membri dell’Ifab, l’International Football Association Board, vestali inglesi del Game (del resto, il calcio l’hanno inventato loro). Per altri dettagli, per sapere cos’era il mercato autunnale di riparazione, per spigolare tra i più celebrati tabagisti in calzoncini corti (Di Stefano, il tuttofare e tuttobene che Dio ha regalato alla sfera, negli anni Cinquanta pubblicizzava sorridente le Lucky Strike, famose bionde spaccapolmoni, con lo slogan “Es il mi cygarillo irresistible”), per rievocare il recentemente cassato “doppio gol in trasferta”, ora sapete a chi rivolgervi.

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Arricchiscono il libro alcuni deliziosi bocconcini fuori menu, cadeaux per la memoria con protagonisti noti o ben ripescati da Joe Jordan “sorriso Durbans” causa dentatura accidentata a Francesco Rocca, una Kawasaki senza trucco. E una gran bella spinta la danno le multiple, puntuali illustrazioni del triestino Michele Targonato, tra tanti piedi sopraffini, una mano “calda” e complice. Piccolo consiglio: per cogliere il mood del lavoro di Calzaretta andate difilato a leggere il capitolo dedicato alle trasmissioni sportive d’antan, “I riflessi filmati del nostro cuore”. Prova provata che saperne a pacchi e nello stesso tempo godere il calcio con animo puro è possibile anche nel terzo millennio.

 

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“Le cose perdute del calcio" di Nicola Calzaretta       NFC edizioni      euro 16,90     pagine 214


*ANDREA ALOI (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro) 

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