LA RECENSIONE - Foto di famiglia e vecchie tessere, il "Nostro Pci" di Rondolino

di ROBERTO ROSCANI*

(immagini dal libro Il Nostro Pci)

Ci sono un paio di immagini di Togliatti nel libro che Fabrizio Rondolino ha voluto dedicare al “Nostro Pci” (plurale, non singolare: per evitare l’accusa che esista un Pci di cui ciascuno che vi sia stato iscritto possa vantare uno suo) che mi hanno colpito molto. Non sono le foto ufficiali, come quella corale sul palco di Mosca dove si festeggia il compleanno di Stalin, in cui Togliatti, il capo del Pci, è accanto a Dimitrov e poco lontano da Mao e Stalin, ma quelle scattate in occasioni molto informali. Una lo raffigura mentre fuma una sigaretta, un po’ appartato e impensierito mentre a due metri Pajetta, Longo e Secchia chiacchierano animatamente nello studio di Guttuso. La seconda invece è quasi paradossale: scattata a Mosca ci sono Longo, Secchia e Togliatti dentro una stanza, e hanno in mano incongruamente degli sci e delle racchette da neve. Qui Togliatti è senza cravatta e indossa una giacca di quattro misure più grande che lo fa assomigliare a una specie di Fantozzi spaesato e impacciato.

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Non credo che Rondolino le abbia scelte a caso. E’ impossibile soprattutto in un libro in cui l’iconografia è così centrale. Perché il volume è costruito attorno a una debordante documentazione di tessere, manifesti, coccarde, ninnoli, inviti a congressi, prime pagine dell’Unità che spaziano dalla prima tessera socialista disegnata da Podrecca (quello che con Galantara fonda “l’Asino”) ai bozzetti che portano l’impronta di Guttuso, a una vera e propria grafica che cambia stile e si adatta ai gusti delle epoche mantenendo un inconfondibile segno che la fa apparire ai nostri occhi raramente “d’autore”, con qualche eccezione per gli anni Sessanta e Settanta.

Questi 100 anni del Pci, dal congresso della scissione e della nascita a Livorno il 21 gennaio del 1921 alla sua uscita di scena almeno nominale avvenuta trent’anni fa, stanno producendo molti libri (ma, verrebbe da notare, nessuna ricerca storica nuova) che usano per raccontarne la storia chiavi diverse. La chiave che Fabrizio Rondolino sceglie per il suo libro è quella degli affetti. Ma si sa, anche gli affetti sono cosa molto politica nel mondo del Pci.

C’è inevitabilmente la vena personale e autobiografica di un arrivo al Pci avvenuto nella Torino ancora molto operaia di allora, in un anno in cui il rapporto tra i giovani e il vecchio partito comunista non era molto buono: il 1977. Questa vena riemerge un po’ in tutta la ricostruzione anche se i motivi che nelle prime pagine hanno portato Fabrizio (sarebbe stupido far finta di non conoscerci: siamo stati colleghi all’Unità, abbiamo spesso discusso, talvolta litigato e intrattenuto rapporti di amicizia) al Pci sembrano via via affievolirsi.

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Cosa lo spinge alla cellula scolastica e alla sezione 25° “Garibaldi”? Il ricordo della cerimonia in cui riceve la sua prima tessera lo racconta così: “Mi sentivo definitivamente arruolato in una comunità che marciava solidale dalla parte giusta della storia, improvvisamente pieno di responsabilità e di impegni da assolvere”. La parola chiave è "comunità". E credo che in questo alla fine consista tra tutte l’anomalia del Partito Comunista Italiano, almeno del partito nuovo che Togliatti mette in campo e che cresce in quella dimensione accogliente e anti-settaria pur mantenendo invece molti elementi di rigidità e di “alterità” rispetto al resto della società, prima ancora che della politica, italiana.


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Il ragazzo Rondolino è il cuore dell’introduzione del libro. Poi via via la lettura si fa più politica, soprattutto attorno alle figure di Togliatti, di Longo (il più dimenticato dei segretari del Pci, quello a cui capita il compito ingrato di traghettare verso il ricambio generazionale ma anche quello che decide di pubblicare il memoriale di Yalta e di dissentire pubblicamente dall’Urss e dall’invasione della Cecoslovacchia) e di Berlinguer, molto amato e piuttosto criticato nelle pagine di questo libro. Le critiche all’ultimo Berlinguer sono in qualche modo simili a quelle che Rondolino muove anche a Occhetto: la scelta della “diversità”, la contrapposizione nei confronti di Craxi, la distanza dalla “modernità” che il segretario del Psi avrebbe incarnato. Allo stesso modo Occhetto – di cui Fabrizio è stato amico e, ricordo, molto tifoso all’epoca della svolta – fallisce perché spinge il nuovo partito non alla ricomposizione della scissione di Livorno ma in una deriva confusa e un po’ velleitaria all’inseguimento dei movimenti (le donne, gli ambientalisti, i diritti civili). Il peccato di Occhetto appare quello di esser tornato a Bordiga e non a Gramsci, di essere un inguaribile “ingraiano” se non altro nella formazione culturale. Così la simpatia nei confronti di Massimo D’Alema, con cui Fabrizio ha lavorato a stretto contatto nello staff del segretario, potrebbe essere letta come una sorta di ritorno a Togliatti. Su questa lettura, politica prima ancora che storiografica, molti non saranno d’accordo. Io sono tra questi.

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Straordinariamente credo che quello che lega tutte le ricostruzioni compiute nel centenario (quelle di chi nel Pci c’è stato davvero) sia proprio nella parola comunità. L'idea che il Pci abbia rappresentato una rete, una casa all’interno della quale ciascuno poteva vivere e trovare elementi di mutuo sostegno ma anche di crescita culturale, sociale e politica. Da qui nascono espressioni che ancora sentiamo usare: il popolo comunista (o magari oggi il popolo della sinistra) che sembrano ricalcate con l’espressione ecclesiale del “popolo di Dio” per indicare la Chiesa nelle sue articolazioni e non solo nelle sue strutture di vertice. 

Quella comunità è certamente esistita ed è stata straordinariamente coltivata. L’enorme articolazione del Pci (la Fgci, l’Udi, il sindacato, l’Anpi, l’Arci, le associazioni dei commercianti, degli artigiani, degli inquilini, quelle dei genitori, dei docenti, le società sportive, i pionieri quando c’erano, e poi il fiorire di quelle associazioni tenute insieme dal suffisso "democratica" che raccoglievano magistrati, medici, psichiatri… e che spesso erano anche il tentativo di andare oltre i confini del Pci) aveva lo scopo di coprire tutti i versanti della vita e della società italiana. Erano insieme l’idea di “un mondo a parte” e anche il tentativo di uscire dai confini rigidi. Erano pure quello che attirava attorno al Pci l’attenzione di intellettuali e ceti medi colti, di gruppi sociali non immediatamente accostabili alla classe operaia, i mitici ceti medi che sono stati lungamente sotto la responsabilità in quei templi del Pci che erano la segreteria e la direzione di Armando Cossutta.

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Del “partito comunità” si può avere una affettuosa nostalgia, non credo però sia un modello a cui si possa tornare. In un presente in cui la complessità è così grande persino nel definire qualcosa che tutti chiamiamo lavoro ma che non sappiamo più bene che cosa sia, in cui solitudine e socialità sono sinonimi e non più contrari, in cui l’irruzione dell’individuo (tema vecchio di quasi quarant’anni) è insieme una conquista e una sconfitta, tornare indietro non è possibile. Bisognerebbe inventare modelli nuovi ma nessuno ha voglia di pensarci.

Infine una annotazione, stavolta tutta legata al libro di Fabrizio. Le centinaia di “oggetti” pubblicati in queste pagine possono esser letti in due modi. Il primo è la ricerca di “memorabilia” da appassionato collezionista, un po’ come quei libri costosissimi che vengono pubblicati dalle grandi rock star (lo hanno fatto Dylan e Springsteen) con le collezioni dei manifesti dei concerti, i biglietti delle tournée, le copertine degli album, le foto dei back stage. Oppure come la ricerca di una iconografia che sappia raccontare anche attraverso immagini e stilemi la storia di un paese o almeno di un pezzo di esso. La risposta è che questo libro è in qualche modo tutte e due.

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Rondolino è certamente un collezionista (gli oggetti sono stati per la grandissima parte raccolti negli anni da lui) e un appassionato della cultura pop, ma anche un lettore curioso delle immagini e dei segni. Nel libro si cita persino la stanza al pian terreno delle Botteghe Oscure che conservava cimeli impolverati e doni dei “partiti fratelli”. E ci sono anche alcuni “pezzi di propaganda” (un incredibile rotocalco sulla vita del segretario pieno di foto che in maniera un po’ blasfema mi ha fatto tornare in mentre quello stampato da Berlusconi) fatti in occasione del sessantesimo compleanno di Togliatti nel 1953.

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"Il nostro PCI. 1921-1991. Un racconto per immagini"  di Fabrizio Rondolino - Rizzoli editore  pagg. 448  euro 21,85


Chissà se Fabrizio sa che in quell’occasione gli operai della Fiat di Torino fecero arrivare a Roma un modello di auto fatto in legno scala 1:1 al quale avevano lavorato per mesi. Era una auto per tutti, sostanzialmente un prototipo della Seicento. Solo che gli operai comunisti relegati nelle officine confino da Valletta erano arrivati prima: l’azienda quell’auto la iniziò a costruire solo tre anni dopo.



*ROBERTO ROSCANI  (Nato a Roma nel 1952. Dal 1974 all’Unità,   dove mi sono occupato molto di Roma, di cultura e poi di politica. Appassionato di storia - la laurea ce l’ho ma talmente tardiva da essere quasi una scusa per i soldi spesi in tasse universitarie - e di architettura, tagliatore di capelli in quattro: occupazione molto in voga nel Pci dei miei anni)

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