La michetta e il sacrificio di Lucrezia

di ROBERTO ORLANDO*

Per michetta di solito si intende un panino soffiato, molto croccante, leggero, che ricorda un fiore. Infatti in alcune regioni del nord viene chiamata rosetta. Tranne a Dolceacqua, dove, oltre ad essere ovviamente dolce, la michetta è anche un manifesto della liberazione della donna, edito nel 1300, mica l'altro ieri. La leggenda è straordinaria come si conviene, per quanto tragica, ma la suggestione che ne scaturisce vale forse addirittura più del sapore semplice e degli ingredienti essenziali del dolce tipico del paese nell'estremo Ponente ligure.

La storia è questa. Il marchese Imperiale Doria aveva messo gli occhi su una bella suddita, una diciannovenne di nome Lucrezia. La quale però era innamorata del giovane Basso. Così innamorata da volerlo sposare in gran segreto per non incorrere nelle conseguenze previste da una legge barbara, per quanto oggi soltanto presunta secondo gli storici del Medioevo. Leggenda e storia tuttavia non hanno legami di parentela stretta. E la leggenda, in questa storia, vuole che in paese vigesse a quel tempo lo jus primae noctis, ossia il diritto del feudatario di turno di giacere con ogni sposa nella prima notte di nozze.

Però Lucrezia di questo marchese Imperiale non ne voleva sapere. E quando lui la fece rapire dai suoi sgherri, durante la festa di matrimonio, e rinchiudere dentro una delle torri del castello Doria, pur di non cedere alla violenza del feudatario la ragazza cercò di buttarsi di sotto. Il marchese, come in ogni favola rispettabile, a quel punto la fece imprigionare nelle segrete e lei si lasciò morire di fame. Il marito di Lucrezia cercò giustizia e la trovò con un finale a sorpresa. Riuscì a introdursi nottetempo nella camera del marchese Doria e minacciandolo con un coltello lo costrinse a firmare l'abrogazione dello jus primae noctis.

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Era il 15 agosto e le donne del paese per festeggiare la fine della tirannica imposizione e rendere omaggio al sacrificio di Lucrezia vollero creare un dolce che ricordasse la tragedia a futura memoria. Ognuna di loro naturalmente diede sembianze diverse al dolce, a proprio gusto. Alla fine fu scelta la forma più provocatoria e forse proprio perché "ammiccava" al sesso femminile venne battezzata "michetta": "Sachì le che che ghe va". Questa è quella che ci vuole, sancì l'autrice: "La chiameremo michetta". E poi tutte in piazza, per ricordare Lucrezia con sfogo liberatorio: "Omi, au a michetta a damu a chi vuremu nui". Ovvero: "Uomini, adesso la michetta la diamo a chi vogliamo noi". La rivoluzione della michetta.

Il dolce in sé, come dicevo, è molto semplice: si tratta di un impasto di farina, latte, uova, lievito di birra, vaniglia o scorza di limone, olio di oliva e naturalmente un quarto di zucchero. In paese si trova ovunque e il 16 agosto ancora adesso si ricorda il sacrificio della bella Lucrezia con la Festa della Michetta: suona la banda e i giovani attraversano in corteo i caruggi "del Borgo e della Tèra". Ma nonostante la benevolenza popolare che dura ormai da sette secoli, Lucrezia non ha mai trovato pace e il suo fantasma si aggira ancora tra le mura di castello Doria. Non sarà certo vero, ma tanto basta per far diventare il borgo la location di una collana di Dampyr, fumetto noir di un certo successo dell'editore Bonelli: Lucrezia, appunto.


*ROBERTO ORLANDO (Nato a Genova in agosto, giornalista professionista dal 1983. Ultimo capocronista del Lavoro. Dopo uno scombinato tour postrisorgimentale che lo conduce in molte redazioni di Repubblica è rientrato tra i moli della Lanterna. Viaggia, fotografa e scrive. Meno di quanto vorrebbe)

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