La frontiera difficile fra il Caspio e l'Aral
di EMILIO RADICE
La frontiera difficile è come un presentimento, sai che deve capitare, è nel destino. E uno vi si abbandona come un insetto nella tela del ragno. Poi chissà.
Quella fra l’Uzbekistan e il Kazakistan sulla polverosa strada che da Nukus porta a Bayneu nel suo genere è perfetta. Soprattutto scandisce, in un nulla senza scampo, l’equilibrio dei poteri e il peso specifico di ognuno. E una cosa è chiara: quando ci arrivi già non vali molto, ma se poi fai un solo passo sbagliato non vali proprio affatto.
Uno raggiunge la linea
frontaliera dopo circa quattrocento km di buche, sabbia e vento. Dalla lontana
sponda del Caspio possono arrivare improvvise nubi cariche di pioggia e in
pochi istanti il deserto può diventare melma. Spesse zolle di fango
appiccicoso ti zavorrano le ruote della motocicletta.
(Ponte sul Volga)
A destra scorre il panorama brullo e intossicato dai rifiuti chimici di quello che fu il Mare di Aral. Nell’anarchia assoluta di un percorso appena tracciato sulla crosta della terra ci si trova secondo dopo secondo a dover scegliere dove mettere le ruote, tenendo conto anche delle scelte altrettanto libere prese dai camion russi che scendono dal nord. Talvolta conviene battere una pista parallela in fuoristrada. In un caldo drammatico i fulmini delle istantanee tempeste si scaricano come lacerazioni dei timpani e del cielo, terribili a vedersi. Polvere e vapori serrano la gola. Non ci sono cartelli, non ci sono punti di ristoro, non ci sono nemmeno benzinai.
SCHEDA GOOGLE: UZBEKISTANL’arrivo alla frontiera è una vittoria. Negli specchietti della moto ti vedi stanco, sporco, col sudore che scava canyon sulla pelle del viso impolverata. Ma con l’orgoglio del viaggiatore solitario: “Ce l’ho fatta!”.
Macché, tu non vali niente. Te lo spiega il soldatino kazako, un ventenne, che usando la canna del suo kalashnikov come la bacchetta di un insegnante di scuola dice a te, che hai settanta anni, e a una folla di poveri uomini e povere donne accalcati davanti alla porta degli uffici doganali, che la fila incomincia “prima” del gradino. Cioè non puoi stare con un piede sul gradino. No, lo devi togliere assolutamente.
SCHEDA GOOGLE: KAZAKISTANLui strilla e tutti devono togliere i piedi dal primo gradino del prefabbricato degli uffici, e lo deve fare anche chi potrebbe essergli nonno. La fila inizia da terra, capito? urla in russo. E ci vogliono dieci minuti di brandeggiamento del kalashnikov e di strilli perché tutta questa gente che viene da un lungo viaggio nel deserto si sposti cinquanta centimetri più indietro e liberi il maledetto primo gradino delle scale.
Il soldato ventenne ha così chiarito le cose: lui lì è il detentore del potere. E tu, fra tanti, hai il problema di superarlo, di raggiungere la casamatta degli uffici doganali e di ottenere il visto per passare. Dunque gli sorridi, lo guardi, gli fai un cenno con la mano, gli sorridi ancora, gli offri una sigaretta, lo blandisci. Ti umili, ti fai coniglio, “io italiano, io turista, I’m Emilio….”, ti asservisci.
(Strada di terra verso Athirau)
E a un certo punto, in una improvvisa distribuzione di foglietti bianchi che tutti si affrettano a afferrare, il soldato ti fa un cenno che vuol dire: “Ci penso io”. Il ventenne assume dunque il tuo patrocinio e tu, piegando la testa grato, lo confermi nel suo potere, in cambio del tuo ingresso in una bolla di privilegio. Non sei più uno dei tanti disperati che protendono col braccio teso il loro passaporto, è lui che te lo chiede. E’ fatta.
Ma siccome il potere è capriccioso, per cogliere l’attimo bisogna sempre avere in mano o appesi in un borsello da collo il passaporto, la patente, il “passaporto della moto”, cioè il libretto, e l’assicurazione. Pronti, veloci. Ma potrebbero rendersi necessari anche altri fogli fra i tanti raccolti durante il viaggio, ricevute di albergo, scontrini di cambiavalute, incomprensibili papiri scritti in russo al passaggio di altre frontiere. E nel caso uno cala tutto sul tavolo, come in un gioco a carte, e loro sanno cosa prendere.
E’ indispensabile avere anche una penna che scrive bene, perché quando anche a te viene dato il foglietto bianco lo devi riempire con le indicazioni di dove vieni, di dove vai, di dove sei… fino a dover mettere il nome di tuo padre. Per fortuna oltre al russo qualcosa è scritto anche in inglese. Ma il difficile poi è capire, in un caos generale, quale è lo sportello giusto davanti al quale mettersi in attesa, primo di una sequenza di controllo-sui-controlli che in lenta progressione, timbro dopo timbro, ti fa avanzare verso la libertà.
La svolta arriva quando il
soldato col kalashnikov ti porta per un braccio fuori del bunker, ti infila in
un corridoio transennato e ti dice “Go!” indicando il tuo futuro orizzonte con
la canna del mitra.
(La steppa kazaka)
Ma è pomeriggio avanzato
ormai e, mentre è a nord che devi andare, sulla tua sinistra non hai il sole
calante. C’è qualcosa che non va. Allora
esiti e quello insiste: “Go! Go!”. Col braccio indichi avanti a te e chiedi:
“Kazakhstan? Is this really the direction to go to Kazakhstan?” La canna del
kalashnikov punta verso polveri infinite avanti a te: “Yes, Kazakhstan,
Kazakhstan….”. La lingua inglese ha esaurito le sue possibilità. Allora passi
ai gesti. Indichi con il dito il sole che tramonta a destra, gettando un
braccio avanti, fai capire che di là torni verso l’Uzbekistan da cui sei
venuto, cioè vai verso sud. Invece devi andare a nord, in Kazakhstan, a Bayneu.
“Kazakhestan is there, do you understand?”. E ti sbracci ancora: “There,
there….ok?”.
Il soldato ha come un breve collasso facciale poi qualcosa lo illumina all’istante, gira su se stesso e perentorio ti indica la direzione opposta a prima. “Go! Go! Kazakhestan! Kazakhestan!”. Ok, ha capito. Ora il sole tramonta dalla parte giusta, verso il Caspio. Ciao soldato, “Hallo, hallo….”, e riparto. Volo per tre o quattro chilometri per confermare a me stesso che è andata bene. Poi faccio uno stop tecnico per ripristinare gli assetti del bagaglio, le carte nella custodia impermeabile, il passaporto al posto giusto, il prezioso foglietto bianco timbrato e i soldi nel borsello da caviglia. Tutto ok. Bayneu mi aspetta e poi il piccolo porto di Quriq. Sarà una frontiera da incubo, lo so. Ma domani è un altro giorno.
*EMILIO RADICE (Nato nel 1949 a Roma, a metà strada fra la Napoli paterna e la Livorno di mammà, ha lavorato prima a Paese Sera poi a Repubblica. Motociclista convinto, spesso si perde in lunghi viaggi solitari alla ricerca di tracce filosofiche e reali)
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