La corsa dei moccoli e il Palio dei Giudei, così Roma festeggiava il caos del Carnevale
di ROBERTO ROSCANI*
E' tempo di maschere e sfilate, dolci della tradizione e coriandoli, scherzi e carri allegorici.
Per quanto ridimensionato e intristito dal Covid, anche quest'anno il Carnevale si presenta
con eventi e appuntamenti più o meno storici.
Foglieviaggi ne propone un assaggio con racconti d'autore che ci condurranno dentro
le varie "anime" e i vari luoghi della festa.
Carnevale comincerà formalmente domenica 13 febbraio, vigilia di San Valentino, anche se in molte città è già praticamente in corso. Andrà avanti fino a domenica primo marzo. Le date clou saranno giovedì 24 febbraio, Giovedì Grasso, e il primo marzo, Martedì Grasso. Di mezzo, la domenica di Carnevale.
Il carnevale ambrosiano, invece, prosegue fino al 5 marzo.
***********************
Quando Wolfgang Goethe arrivò a Roma nel suo Grand Tour per l’Italia, aveva ancora negli occhi le immagini dei mostri della villa siciliana di Palagonia e le paurose fiamme del Vesuvio in piena eruzione. E nella città dei papi si imbatté nel Carnevale con la sua confusione, le sfilate, le risse, le violenze mischiate all’allegria e al vino. Il poeta, venuto in Italia proprio nei mesi che precedono la Rivoluzione francese, fu il primo a percepire – con una sensibilità che definiremo romantica – che nella cultura che andava scoprendo, accanto al bello da contemplare, c’era qualche altra cosa non meno affascinante: un elemento inquietante, dinamico, caotico, se non addirittura “brutto”, ma che è nella natura dell’arte. Il grande scrittore tedesco l’aveva riconosciuto non solo nel grande capolavoro del Laocoonte, ma anche in alcune rappresentazioni artistiche e culturali o in particolari e potenti manifestazioni della natura, e infine nella affascinante confusione delle sfilate del Carnevale viste a Roma.
Tra quella folla, nella confusa e incontrollata gioia e nella promiscuità di quelle feste, c’era lo stesso elemento “mostruoso” e “distruttivo” che aveva trovato nell’esplosione di lava e nelle statue di mostri. Goethe rimane colpito insieme affascinato e turbato da quella che definisce la “festa del fuoco”, tutta giocata tra vitalità e distruzione. Il fuoco descritto nel saggio dedicato proprio al “Carnevale romano” era quello dei moccoli ovvero delle candele e torce portate in processione per via del Corso da uomini e donne mascherati che battagliavano, tra grida e spintoni, per spegnere il moccolo dell’altro e portare il proprio ancora acceso fino alla fine del corteo.
(La festa dei moccoletti di Ippolito Caffi 1845-1847 Museo di Roma)
Duemila anni fa i romani proprio in questa stagione dell’anno festeggiavano i loro Saturnali, feste del disordine, della sovversione dei ruoli in cui anche i poveri mangiavano carne e potevano per un giorno far la parte dei ricchi. È curioso come una simile tradizione sia diventata quella che oggi chiamiamo Carnevale. Curioso perché il primo segno scritto del Carnevale è del 1200 (per la penna di un giullare e di un Novelliere, il primo si chiamava Matazzone da Caligano e il secondo, ma quasi due secoli dopo, Giovanni Sercambi). Come se i riti romani si fossero inabissati per qualche secolo fino a ricomparire tutti in una chiave cristiana, appunto come i giorni “grassi” che precedono i quaranta giorni di limitazioni (alimentari ma non solo) in vista della Pasqua. Carnevale, insomma come momento in cui ci si prepara ad abbandonare la carne (come alimento e non solo).
Di Carnevale ognuno ha il suo: sparsi per l’Italia e per il mondo ci sono mille riti e mille modi per festeggiare, anche se la festa ha una forte impronta cattolica. Strana festa non cancellabile perché prepara e allude alla Pasqua, ma insieme troppo poco controllabile. E così dai Dogi ai Papi (fu un papa veneziano, Paolo II, a portarne a Roma la tradizione nel 1467) c’è un susseguirsi di grida e di regole a cui il popolo cerca di sfuggire. A Venezia il Carnevale scomparve con la scomparsa della Repubblica e l’arrivo degli Austriaci, per tornare solo a fine Ottocento. A Roma finì per stemperarsi e perdere il suo carattere gioiosamente eversivo, non senza aver subito, già prima, trasformazioni e slittamenti di senso certamente voluti dalle autorità per mitigarne il valore sociale.
Intanto forse è importante sapere che – almeno a Roma - il Carnevale fu per secoli una grande e popolare festa antisemita, in cui gli ebrei del Ghetto erano costretti a sfilare per strada (insieme ad altre categorie sfortunate come gli zitelloni o i garzoni, ovvero i ragazzini del popolo e i vecchi senza prole) tra le risa, gli insulti e i calci. Si chiamava il Pallio dei Judei. A quanto raccontano i testi d’epoca, all’inizio questo palio non aveva un contenuto immediatamente offensivo: gli ebrei che vi partecipavano correvano come in una gara, poi pian piano arrivarono le botte, gli insulti, il lancio di verdure e di escrementi in un crescendo di violenza. Un anno vi fu anche una corsa di persone deformi che un cronista dell’epoca racconta così: “Fu corso un palio di gobbi ignudi molto ragguardevoli per la varietà delle loro gobbesche schiene”. C’erano ogni anno feriti, morti travolti nelle risse e nelle violenze, schiacciati dalla corsa dei cavalli berberi, che era un’altra delle attrazioni carnevalesche.
(Carnaval de Rome via del Corso,1836)
Curiosamente la corsa degli ebrei fu interrotta nel 1668 da Clemente IX, il quale però pretese un tributo annuo di 300 scudi provocando non poche proteste da parte del “pubblico”. I soldi servivano a finanziare gran parte dei costi del Carnevale. E in aggiunta alla tassa, il Rabbino Capo di Roma si doveva recare presso i Conservatori di Roma e inginocchiarsi di fronte a loro per essere cacciato a calci nel sedere. Lo scherno nei confronti degli ebrei si mutò quindi in “mascherate” o “carri” di romani travestiti da ebrei nei modi più sprezzanti. A organizzare sfilate e carri antisemiti erano soprattutto i pescivendoli (il mercato del pesce avveniva ai margini del ghetto) e si ricorda una sfilata in cui dei romani vestiti da ebrei e persino da rabbini correvano cavalcando muli al contrario e imbracciando simulacri della Torà, o in cui venivano dileggiati i culti ebraici dei funerali. Ci volle l’Ottocento perché il carattere antisemita del Carnevale si perdesse.
Ecco cosa vide Goethe e cosa raccontò nel suo saggio, attento più alla scoperta di una estetica che comprendesse il brutto insieme al bello, la dinamica incontrollata e confusa come contraltare della contemplazione del classico, che non ai contenuti sociali della festa, ovvero quel rovesciamento dell’ordine e delle regole. Eppure aveva colto, con un po’ di spavento, l’irregolarità di ciò che stava avvenendo sotto i suoi occhi e ne aveva in qualche modo compreso il legame con quanto sentiva avvenire a Parigi (dove tentò di far pubblicare il suo saggio in tutta fretta, senza riuscirvi), con i moti che avrebbero cambiato la storia.
Dicevo che il rapporto con la festa cristiana e quella pagana devono avere un qualche misterioso transito. Tra i riti antichi ce n’è uno – davvero poco conosciuto – che somiglia a quelli riemersi dal medioevo in poi: le feste dedicate ad Anna Perenna di cui solo qualche anno fa è stato ritrovato il luogo, ricomparso (succede a Roma) mentre si scavava un parcheggio a piazza Euclide in pieni Parioli. Qui è tornata alla luce una fonte a lei dedicata al centro di un boschetto sacro. Per le feste che celebravano Anna Perenna (che si svolgevano attorno alla metà di marzo identificando i romani in questa divinità con la stagione primaverile della fertilità e l’avvio di un nuovo anno) i romani più poveri lasciavano la città e si raccoglievano qui per festeggiare in modo rumoroso, per ubriacarsi. E anche l’eros aveva un ruolo centrale nelle cerimonie. Anna Perenna, nelle credenze, aveva aiutato le plebi in rivolta ai tempi dei duri conflitti sociali della Roma repubblicana. E le plebi le restarono fedeli a lungo per secoli riprendendosi, in quelle feste, quell’elemento di autonomia e di libertà che si erano conquistati un tempo.
(La corsa dei Barberi autore attivo a Roma 1650-1690 Museo di Roma)
Di tutto questo nel Carnevale di oggi resta ben poco: le maschere, i carri di Viareggio, il passeggio dei bambini tra coriandoli e stelle filanti tendono a somigliare più a una versione non “nera” di Halloween che non alla baraonda rivoltosa di epoche lontane. Smarrito, se non per allusione, quel significato di rivolta e di eccezionalità. E persino il motto consunto del “semel in anno licet insanire” (dove l’accento era più sul semel che non sull’ insanire) appare lontano.
Così quando ci infiliamo nelle nostre un po’ tristi feste in maschera in queste giornate che vanno dalle fine del Festival di Sanremo all’inizio della Quaresima (il primo evento lo abbiamo ben presente, il secondo ci appartiene molto meno) forse non è male sapere che stiamo vivendo l’imitazione di un mito che probabilmente era già l’imitazione di uno più antico.
*ROBERTO ROSCANI (Nato a Roma nel 1952. Dal 1974 all’Unità, dove mi sono occupato molto di Roma, di cultura e poi di politica. Appassionato di storia - la laurea ce l’ho ma talmente tardiva da essere quasi una scusa per i soldi spesi in tasse universitarie - e di architettura, tagliatore di capelli in quattro: occupazione molto in voga nel Pci dei miei anni)
clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per seguirci su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram