La Bielorussia dei bambini

di MARCO BRANDO*

«Ciao. Io contento». Vitali, il primo bambino che ci venne incontro a Bobruisk, in Bielorussia, era il “nostro”. Correva l’anno 2004, nel mese di maggio. Lui aveva undici anni; era stato nostro ospite per un solo mese, durante il precedente periodo natalizio. Così le frasi in italiano che aveva imparato (velocissimamente) non avevano fatto in tempo ad assumere una cadenza.

Però, appena gli altri bimbi sentirono che erano arrivati «gli italiani», era stato un fiorire di accenti: ecco una bordata di evidentissime “o” baresi, che spiccavano in domande tipo «Che cosa fate qui?»; poi un diluvio di parole che svelavano l’accento romanesco o sardo, bergamasco o veneto. Più qualche timida domanda in inglese o francese. Comunque era la lingua italiana, con tutte le sue sfumature, ad essere di gran voga in quell’istituto di Bobruisk, città di 220.000 abitanti nella Bielorussia centrale, lungo il fiume Berezina.

Ci trovavamo a più di tremila chilometri da Bitonto (Bari), dove abitavo allora, a due ore d’auto da Minsk, la capitale, e a meno di seicento chilometri da Mosca. E quell’istituto si chiamava (e si chiama tuttora) in russo (anzi, in bielorusso, ci tengono) Internat: uno dei tanti orfanotrofi che in tutta la Bielorussia ospitano bambini e adolescenti – dai neonati fino ai diciottenni – senza una famiglia. Ma per questi ragazzi c’erano (e ci sono ancora) altre famiglie, pronte ad ospitarli durante l’estate e tra dicembre e gennaio: in Italia e in Belgio, in Spagna e in Irlanda, negli Stati Uniti e in Canada, per citare alcuni dei Paesi che li accolgono.

Dal 30 aprile al 7 maggio 2004 - con un’altra dozzina di gruppi familiari di Ruvo di Puglia, Terlizzi e Bitonto – eravamo sbarcati in Bielorussia per andare a vedere come stavano davvero i “nostri” bambini e per consentire alla Caritas diocesana di Ruvo, promotrice dell’iniziativa, di calibrare meglio la destinazione dei fondi raccolti per sostenere gli istituti. Con noi c’erano anche don Giuseppe e alcuni degli altri instancabili animatori dell’iniziativa di accoglienza curata dalla Caritas: Mauro, Michele, Paolo.fonte Euronewsjpg

(foto Euronews)

Per noi il primo impatto risaliva appena a cinque mesi prima: il 17 dicembre 2003 centottanta ragazzini e alcuni loro accompagnatori (maestri e interpreti) erano giunti con un volo charter all’aeroporto di Bari Palese, a bordo di un Tupolev 154 della Belavia; uguale a quello che da Roma avrebbe portato noi a Minsk. In quel periodo ne stavano arrivando oltre trentamila in tutta Italia, da lì e dall’Ucraina, per trascorrere, ospiti di una famiglia, le feste natalizie. Cinquantadue di quei centottanta bambini e bambine erano stati accompagnati a Ruvo.

Con le altre famiglie li eravamo andati ad accogliere. In quell'occasione ero stato costretto a cercare con qualche anticipo notizie sulla semisconosciuta (per me) Bielorussia: «Confina a nord- ovest con la Lituania e la Lettonia, a est con la Russia, a sud con l’Ucraina e ad ovest con la Polonia. Già repubblica federata nell’ambito dell’Urss, è conosciuta anche come Russia Bianca. La capitale è Minsk. Il territorio è in prevalenza pianeggiante; ha una popolazione di 10.500.000 abitanti». A Vitebesk, una delle città maggiori, nacque il grande pittore Marc Chagall. E Chagall era probabilmente l’unico bielorusso di cui avevo sentito parlare (sebbene non sapessi che era originario di lì, poi trasferito a Parigi), prima di conoscere Vitali e la sua storia.

Una storia comune a quella di tanti altri bambini, suoi connazionali. Lo scoppio della centrale di Cernobyl nel 1986, in Ucraina, portò gran parte della ricaduta radioattiva soprattutto al di là del vicino confine, sulla Bielorussia, sebbene – ironia della sorte – questa non ospitasse all’epoca (e non ospiti oggi) neppure una centrale atomica. Le particelle radioattive hanno inquinato irrimediabilmente un quinto del territorio nazionale, dichiarato inabitabile. Molti bielorussi si sono ammalati. E i bimbi sono ancora i più vulnerabili.Chornobyl_radiation_mapjpg
(Contaminazione a Chernobyl      fonte: CIA Handbook of IES 1996 ripresa da wikipedia user Sting)

Come se non bastasse la Bielorussia, divenuta indipendente dopo il crollo dell’Urss, era precipitata in una gravissima crisi economica, che aveva contribuito a incrementare, tra l’altro, il dramma sociale dell’alcolismo. Così nel Paese esistono tuttora molti Internat, in altre parole orfanotrofi, dove sono ospitati soprattutto “orfani” di persone vive. In quel periodo erano oltre trentamila le famiglie private della patria potestà. Solo a Minsk gli orfanotrofi nel 2004 erano dieci, con trecento o quattrocento bambini per istituto.

Occorreva disintossicare quei ragazzini da cibi, aria, acqua contaminati. Ricerche scientifiche dimostrano che il soggiorno anche per brevi periodi in zone salubri contrasta molto l’intossicazione radioattiva. Così, già da alcuni anni prima della nostra visita, migliaia di bambini bielorussi – per lo più provenienti dagli Internat ma anche da famiglie – potevano trovare l’affetto dei “papà” e delle “mamme” che all’estero, anche se soltanto per qualche settimana o qualche mese, si prendevano cura di loro. Talvolta l’accoglienza era sfociata nella scelta dell’adozione: solo a Ruvo già undici bambini erano stati adottati entro il 2004, sebbene il percorso per gli aspiranti genitori non fosse facile.

Fatto sta che dal 17 dicembre 2003 fino al 19 gennaio 2004 il piccolo Vitali - sbarcato in Puglia camminando dentro vecchie scarpe troppo grandi per lui - aveva riempito la nostra vita con i suoi undici anni, le sue rare parole, il suo sorriso leggero, la sua voglia di imparare, il suo desiderio di affetto. Dopo il ritorno in Bielorussia, c’erano state tante telefonate con lui e gli altri bambini che avevamo conosciuto, tutti ospiti della stessa classe scolastica. Finché noi, come altri “genitori”, avevamo sentito il bisogno di vedere da vicino dove viveva e come viveva.

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Il giorno dopo l’arrivo a Minsk – grande città monumentale, divisa da grandi strade ad otto corsie in stile sovietico – ogni famiglia si era sparpagliata per il Paese, in compagnia di altrettanti interpreti, perché i bimbi stavano varie città. Attraversammo una Bielorussia povera ma molto dignitosa, sembrava l’Italia degli anni Cinquanta. C’era stato, tra noi italiani, chi aveva trovato istituti, come quello che ospitava Vitali a Bobruisk, gestiti con efficienza; anche l’altro istituto della città, la Casa del Fanciullo, destinata ai bimbi dai tre ai sette anni, appariva accogliente. Alcune famiglie avevano invece incontrato istituti fatiscenti, senza acqua calda, con i letti sfondati e servizi igienici inadeguati.

C’erano (e ci sono, come è noto) tanti problemi in questo Paese, rimasto da quasi trent’anni fuori dalle rotte dell’Unione europea e anche da quelle della grande Russia, da cui dipende molto. Va però riconosciuto che la Bielorussia non ha abbandonato, come accade in altre aree del pianeta, i propri figli più sfortunati per la strada, nonostante le difficoltà economiche. Di certo, veniva naturale amarli tutti, quei bimbi. E loro senza dubbio ci davano più di quello che noi potevamo offrire loro. Difficile dimenticare tutte le domande che ci facevamo anche senza parlare, soltanto guardandoci negli occhi.

Tuttora non riesco a dimenticare Yuri, un bimbo di quattro o cinque anni, che era ospite nella Casa del Fanciullo di Bobruisk. Appena mi aveva visto entrare, aveva detto agli altri piccoli compagni, in russo: « Eto moj papa», «Questo è il mio papà». Poi mi aveva preso per mano. Quando, assieme agli altri, Yuri ci ha salutati attraverso i vetri appannati delle finestre, sforzandosi di stare in punta di piedi per raggiungere il davanzale, è stato arduo non piangere. Anzi, non è stato proprio possibile.

Spero che Yuri abbia avuto fortuna. Vitali, nel frattempo, si è costruito una famiglia. Oggi ha 27 anni, una moglie e tre figli, fa l’operaio. Ci eravamo persi, dopo che era tornato altre tre volte, fino al 2005. Poi nel 2011 ci siamo ritrovati grazie al web. Nel 2013 siamo andati a trovarli in Bielorussia; nell’estate del 2014 è venuto per un paio di settimane in Italia con sua moglie e la prima bimba. Lo sento ancora, quando posso gli dò una mano e anche un po’ di consigli “da grande”. In caso di emergenza, si becca pure qualche bonario cazziatone. Però ogni volta - ancora adesso, dopo 17 anni - mi chiama “papà”.

*MARCO BRANDO (Genova 1958, acquario ascendente Gemelli. A Milano da un bel po’, nonni ligurvenetocampani, giornalista dal 1982 - con nostalgia per i quasi 17 anni a l’Unità -, scrittore di saggi dal 2006, padre di Pietro dal 2016, inadatto ai rapporti gerarchici a meno che il capo non sia lui)  

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