Kirchberg, il segreto di Wittgenstein e la stangata culinaria

di FABRIZIO FUNTÒ*

Accadde un’estate a Kirchberg, sul finire degli anni ‘90.

Kirchberg è il paesino della Bassa Austria dove Ludwig Wittgenstein, importantissimo filosofo austriaco del ‘900, stomacato dalle estenuanti diatribe coi poco perspicaci filosofi inglesi, si rifugiò per sparire dal mondo e dedicarsi all’insegnamento nelle scuole elementari. E forse per fare ordine mentale in santa pace, senza il vociare pressante dei college d’oltre Manica.

Ma procediamo con ordine, per raccontare l’intreccio di fatti che mi portò a insediarmi laggiù, a Kirchberg, a 1111 chilometri da Roma — e che penso, alla fine, vi sorprenderà non poco. In quel periodo per il mondo filosofico ero diventato un reietto, un empio, un paria — dal nulla che ero solo pochi mesi prima. Ero stato messo all’indice dal consesso internazionale dei filosofi perché avevo osato pubblicare (per Laterza) ciò che mai nessuno dovrebbe pubblicare — e che, nel cuore della perfida Albione, a Cambridge, era gelosamente conservato come un segreto oscuro e innominabile. cartello_benvenutojpg

Solo pochi eletti lo conoscevano, e lo avevano appreso  dopo aver pronunciato solenne giuramento di non farne parola con alcuno. Una sorta di massoneria filosofica, in cui credo gli inglesi sguazzino. Più nella massoneria che nella filosofia. Si trattava dei cosiddetti “Diari segreti” di Ludwig Wittgenstein.

Pepe Laterza mi aveva sostenuto e alla fine, dopo mille verifiche, mandato in stampa beccandosi peraltro una denuncia dai curatori di Cambridge per violazione del copyright. Ma siccome Pepe fesso non è, aveva calcolato che erano passati esattamente 70 anni e 7 mesi dalla scrittura del testo originale. Quindi erano decaduti i diritti, con buona pace degli autonominati curatori del lascito testamentario di Wittgenstein e dei loro agguerriti avvocati. E degli eredi, che semmai ne avrebbero avuto più diritto di tutti.  Comunque sia, quella pubblicazione mi aveva attirato le ire funeste di tutti gli estimatori di Wittgenstein, tranne uno. Ma io ero in vantaggio su di loro. E decisi di sfruttarlo, il vantaggio.

A Kirchberg.

Già, perché i professori che mi detestavano si riunivano ogni anno proprio a Kirchberg. Affluivano da ogni continente in quattro o cinquecento, per partecipare ad un rinomato Simposio Wittgenstein. Presentando ciascuno dotti studi esegetici del suo pensiero, ma sempre sul filo delle interpretazioni anglosassoni, le stesse che avevano indotto Wittgenstein a rifugiarsi lì. Una nemesi storica per lui, inseguito e braccato post-mortem nel suo rifugio segreto.

Come avrete capito, me l’ero presa a male anche io, rimasto solo contro tutti quegli esimi studiosi inferociti nei miei confronti. Inferociti anche in Italia, tranne uno.

Ero in vantaggio perché, a differenza loro, io nel frattempo avevo eletto Kirchberg a mia seconda patria. Avevo affittato un antico casolare con annesso frutteto e perfino la montagna, che si ergeva alle sue spalle, faceva parte della proprietà. Una montagna del paradiso, ricca di acque purissime che zampillavano fuori dal terreno appena si affondava un bastone. E ricca, ricchissima di funghi, prelibati e buonissimi, dai finferli ai porcini. Il casolare si riempiva del loro odore conturbante, inebriante. Per giorni cuocevamo in tutti i modi i frutti di quella terra. Zuppe, in padella, trifolati, una meraviglia di sapori. 

Kirchberg_am_Wechsel_Dominikanerinnen-Kloster_Sede della Fondazone Wittgensteinjpg(La sede della Fondazione Wittgenstein       foto di Fabrizio Funtò)

Kirchberg am Wechsel, questo il suo nome completo, è un ridente paesino — di quelli che esistono solo nelle fiabe, lindi, puliti e solari —incastonato in una valle dei bassi monti che precedono, venendo dall’Italia, il pianoro viennese. Più o meno a una sessantina di chilometri di distanza dalla capitale austriaca. Sull’autostrada A2, provenendo da Graz, basta uscire ad “Aspang Zöbern” e prendere poi la discesa a sinistra: in quindici minuti ci arrivate. Da Vienna, invece, c’è l’uscita che passa da Neunkirchen (Nove Chiese), il capoluogo della contrada.


                                                                           *  *  *


A metà degli anni ’80 avevo ricevuto una borsa di studio dall’Istituto di Cultura Austriaco di Roma. A quel tempo insegnavo “Logica e linguaggi di programmazione” al Liceo Parificato S. Paolo, uno sperimentale gestito dai Paolini. In laboratorio avevamo un paio di Olivetti M24, allora magnifici, con tutto l’armamentario a corredo di stampanti e plotter: non mancava niente. Per dire come, silenziosamente, la Congregazione multimediale ecclesiastica fosse anni luce avanti ai comuni mortali, e ai casermoni statali con professori in disarmo. 

Dunque, presi un mese sabbatico da scuola.  Nella mia tesi di laurea avevo sostenuto una interpretazione di Wittgenstein completamente diversa dal comune. Leggevo le sue pagine, mi facevo una idea, seguivo il filo dei suoi ragionamenti — poi consultavo i testi critici e teorici e ci trovavo tutt’altro. Ma proprio un abisso di differenza interpretativa. Per me, quei libri di critici, tutti più o meno di formazione anglosassone, erano solo fiumi di insensatezze. Però scritti da professori di filosofia super-esperti e super quotati, onniscienti e naturalmente allineati e coperti al diktat di Cambridge. Certo: professori di filosofia, non filosofi come comunemente si crede scambiando l’oggetto per il soggetto.

Avevo perciò questa spina nel fianco: andare a scoprire se avessi ragione oppure no. Partii quindi alla volta di Vienna. Passai qualche tempo all’università, ma senza combinare molto. Sapevo che Wittgenstein, ad un certo punto della sua vita, era rientrato in patria ed era scomparso — alla Majorana — in un paesino montano, dedicandosi all’insegnamento per i bambini.   

Non so perché — intuizione? presagio?  — ma ero quasi magneticamente attirato, quasi ossessionato dal desiderio di visitare quel luogo. Lì doveva esserci un punto di accumulazione di energie, un fuoco sacro, un “omphalos”. Così mi ero detto. E allo scadere del quindicesimo giorno di cincischiamenti a Vienna, decisi di mollare tutto e di partire alla volta del paesino immaginario.

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(L'Hotel Linde                                        foto di Fabrizio Funtò)

Kirchberg è costruito tutto su un incrocio a T, con le case ed i negozi distribuiti sui due lati della strada. Sulla via principale mi imbattei subito in un albergo millenario, il Linde, esternamente di color muschio chiaro. Decisi di alloggiare lì, ovviamente. Ma la proprietaria mi aveva piazzato nell’unica stanza che dava proprio sopra le cucine. La prima notte non riuscii a dormire. Gli effluvi di brodo, di ribollita di porco, gli afrori grassi e i pesanti odori che salivano da sotto mi soffocavano. E la rete del letto cigolava ad ogni movimento. Il giorno successivo decisi di fare fagotto e andai a cercare un altro albergo. Entrai casualmente all’Hotel Post, per chiedere le condizioni di soggiorno. 

Era marzo, bassa stagione, niente turisti, si poteva trattare sul prezzo. E lì incontrai quello che sarebbe diventato il mio migliore amico, (Jo)hannes Handler. Hannes mi offrì subito la sua migliore stanza, la 33. Un paradiso. Pulita, chiara, un sottotetto dal quale, aprendo le finestre, si sentiva lo scrosciare delle acque del ruscello che lambiva il giardino, proprio sotto il ponte di fronte all’albergo, dove si creava una piccola cascatella gioiosa.

Un presepe. Quando tornai al Linde per comunicare alla vecchia che traslocavo, ci rimase molto male. Prese un mazzo gigantesco di chiavi — ne pendevano a decine —e una dopo l’altra mi aprì tutte le stanze del suo vuotissimo albergo: suite e contro-suite deserte, una più grande dell’altra. Mi pregò di rimanere e di scegliere la camera che gradissi di più. Senza sovrapprezzo.

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(L' hotel Post                      cartolina)

Ma oramai la frittata era fatta: quando rompi un cristallo, non lo riaggiusti più. Hannes, i suoi straordinari genitori, l’hotel Post sempre affollato di gente a tutte le ore, il teatro dietro che fungeva anche da ritrovo per le assemblee della comunità locale, il ruscello ed il giardino: quello era il vero cuore del paese. E la stanza 33 il caldo e luminoso nido che mi aspettava.

Quello stesso pomeriggio Hannes mi fece conoscere, smuovendolo dal vicino villaggio di Trattenbach, il Presidente della Fondazione Wittgenstein. Che è poi quella che organizza ogni anno, d’estate, il Simposio Wittgenstein.

Caspita! — pensai — proprio in bocca al lupo!

E invece no. Il Presidente della Fondazione, Adolf Hubner, era in realtà un “tipo” assai strano. Fraternizzammo all’istante, come un amore a prima vista: una simpatia reciproca fulminante. E saremmo rimasti amici da lì in poi, fino alla sua precoce dipartita. A Trattenbach, tanto per farvi capire, gestiva il locale allevamento di trote, che pullulano felici anche nei vicini ruscelli da cartolina. Ma che non si potevano pescare, (verboten!), perché secondo un vecchio diritto medievale tutto ciò che nuota e vive nei fiumi appartiene alla chiesa locale. La quale concede una patente di pesca solo a coloro i cui terreni sono lambiti dalle acque dei ruscelli, e solo nel tratto di loro pertinenza. Adolf era un fisico teorico, ma anche un eccellente allevatore ittico. E presiedeva la Fondazione. 

Fu lui a passarmi i Diari Segreti di Wittgenstein. Che, insieme a Martin Heidegger, è probabilmente il massimo pensatore degli ultimi due secoli di filosofia. Come tenerli “segreti”?

Ricordo che me ne stavo asserragliato col “malloppo” nella stanza 33 dell’Hotel Post, e traducevo alacremente. Riconoscevo la mano di Wittgenstein, il suo pensiero, le sue ossessioni: era tutto materiale originale. E un po’ scabroso. Ma vitale e importantissimo come testimonianza diretta. E come profondità di questioni affrontate.

Una volta rientrato a Roma, mentre proseguivo nella traduzione, avevo pensato improvvidamente di portare le sudate pagine su cui stavo lavorando al mio vecchio professore di tesi e grande studioso di Wittgenstein, Tullio De Mauro. A gruppi di una ventina di fogli, gli fornivo l’anteprima. Lui riceveva, mi osservava un po’ imbronciato e un po’ stupito, e non diceva nulla. Accettava quelle carte, e ciò che andavo facendo, probabilmente a malincuore. O ne era sconcertato, perché le conosceva già (sebbene il diario fosse stato scritto in codice per impedirne la lettura di straforo), e magari aveva già previsto l’impatto negativo che avrebbero avuto. Conosceva i suoi polli…

Non so come, ma si disse che le mie carte erano arrivate fino a un noto studioso del pensiero di Wittgenstein, che ne comprese immediatamente l’importanza ed il valore. Poco dopo mi arrivò una vocina all’orecchio, secondo la quale sembrava che il professore fosse intenzionato a pubblicare i Diari di Wittgenstein su Nuovi Argomenti. La stessa vocina mi sussurrò anche che stava mettendo su un pool di traduttori per sbrigarsi. Non ho mai saputo se quel “venticello” fosse veritiero o no. Comunque, per premunirmi e conficcare una bandiera nel terreno editoriale, andai a proporre uno scoop a Ferdinando Adornato, “Nando” per gli amici. All’epoca Nando era caporedattore delle pagine culturali dell’Espresso: gli offrii un’anteprima mondiale dei Diari, una decina di pagine di note del filosofo, selezionate e scelte con cura. 

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(Il libro dello scandalo)

Spiegai ovviamente a Nando il mio problema con l’ accademico concorrente, vero o presunto che fosse. Lui, da bravo giornalista, non ci pensò due volte: si tuffò sull’esclusiva e mi chiese di fare una intervista al Presidente della Fondazione, tanto per avere una voce autorevole che confermasse l’autenticità degli inediti.  E ci mettemmo entrambi al lavoro.

Poiché andavo e venivo in continuazione da Kirchberg, sempre appoggiandomi all’Hotel Post, stanza 33 ormai riservata quasi esclusivamente a me —Hannes mi propose, quasi mi impose di affittare il casolare di sua nonna a Molz, un villaggio a due o tre chilometri da Kirchberg. Così mi insediai. E diventai cittadino adottivo.


                                                                    *  *  *


Tutte le estati, o durante le pause natalizie, il casolare di Molz si riempiva di italiani. Già, perché al piano superiore c’era uno stanzone enorme, caldo e confortevole, parquet a terra, grandi finestroni luminosi. Così i miei amici, e gli amici degli amici, trovavano sempre una scusa per venirmi a trovare quando ero lì, per godere di quel luogo incantato, lasciandosi cullare dal dolce ritmo della vita di Kirchberg.  Molti di loro proseguivano sulla stradina di casa e arrivavano su sulle montagne dello Schneeberg, a Molzegg, dove c’è un rifugio alpino notevole. Un anno abbiamo passato il capodanno lì, alla austriaca, con un quartetto di ottoni, danze, guancia di porco con kren (rafano, da non mangiare mai da solo), e tanto, tantissimo fumo. Gli austriaci fumano come ciminiere.

Oppure raggiungendo Sankt Corona, ad un tiro di schioppo, sull’altro versante della montagna. Perché? Ma perché lì c’è lo slittino estivo, un’esperienza unica. Una seggiovia ti porta in cima alla montagna, e poi ridiscendi con una sorta di bob con i freni, che scorre veloce e silenzioso su una pista in tutta sicurezza. Si attraversano boschi e spianate, per poi tuffarsi a capofitto in discese che accelerano il veicolo, per chilometri in discesa. Mettevo mio figlio in mezzo alle gambe, davanti a me, e partivamo a razzo. E quando eravamo quasi giunti alla fine, mi ripeteva “Papà, ‘a fai l’altra?”. Prosciugavo il portafogli così.

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(La pista di slittino estivo            foto di Fabrizio Funtò)

Ma ogni tanto i miei ospiti, da bravi italiani, provocavano casini inenarrabili. Come quella volta che un gruppo di amici napoletani arrivò fornito di canne da pesca nascoste, e si disperse per ruscelli facendo man bassa di trote. Li avevo informati dell’editto medievale, del divieto di pesca. Ma gli italiani, si sa, odiano qualunque divieto. Per i napoletani, poi, si trattò di una sfida. Quando rientrarono, nello spiazzo del casolare contai 72 trote in attesa di finire nell’inevitabile brace. 

Ovviamente il fatto non passò inosservato. Il giorno dopo Hannes mi informò discretamente che aveva bloccato sul nascere una rappresaglia della polizia locale, informata giustamente dai miei nuovi compaesani. Promisi solennemente di bruciare tutte le canne da pesca e di legare al letto i miei ospiti, e ce la cavammo con una semplice ramanzina che subii dal comandante locale, in dialetto stretto. Forse mi ingiuriò, ma non capii assolutamente nulla: ripetevo “jawohl” ogni volta che Hannes mi faceva un cenno con il capo, e fini lì.

Ah, dimenticavo: l’articolo poi uscì su l’Espresso. Ebbe un risalto clamoroso. I telegiornali di mezzo mondo arrivarono ad intervistarci. Nando Adornato, insieme al sottoscritto, finì su giornali e televisioni. Ne era molto soddisfatto. Non immaginava l’epilogo. Anche la televisione austriaca venne ad intervistarci. Sembrava la più interessata, con servizi e dossier di accompagnamento. Naturalmente andarono anche ad intervistare Hubner, che faceva il vago sull’origine delle segrete carte per non inimicarsi i Curatori di Cambridge, ma sostanzialmente confermava tutto. Servizi televisivi che rimbalzarono nelle casette di Kirchberg all’ora di cena. Ciò mi valse una certa notorietà, accompagnata da una sorta di cittadinanza onoraria: tutta pubblicità per la zona.

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(Lo scoop dell'Espresso)

Mi avevano adottato, e perfino mi proteggevano, soprattutto dai professori di filosofia che avevano saputo del mio insediamento costà, ed erano curiosi di scoprire come ero fatto. I Kirchbergeriani mi presero sotto l’ala, e non mancavano di spalancare un sorriso di saluto quando mi incontravano per strada. Anche se ospitavo pescatori di frodo: chiusero un occhio.

La notizia scoop giunse subito anche alle orecchie dei tanti filosofi distribuiti sul pianeta, molti dei quali ci rimasero — come dicevo — malissimo. Alcuni perché ne conoscevano già il contenuto. Gli altri perché mai avrebbero immaginato. Secondo loro, la memoria di Wittgenstein andava protetta dal maledetto ed empio “italianisch”. Tutti, tranne uno.

Poco dopo la pubblicazione su L’Espresso, e correndo nella traduzione per non farmi superare sul filo di lana, pubblicai i “Diari Segreti”. In italiano, in originale. L’unico libro di un filosofo — e che filosofo! —uscito prima in traduzione e poi nella lingua originale. Con i copyright gestiti dalla Laterza. Tradotto credo in oltre cento lingue. 

Seguirono articoli di fuoco, recensioni negative e a volte ingiuriose contro di me. “Non si spia un filosofo dal buco della serratura” era uno dei titoli, e neanche il più cattivo. Per via di alcune confessioni di Wittgenstein a se stesso. Ma pochissime note, non vi aspettate un porno. C’era ben altro, che bruciava loro sulla pelle. Ed era quello che non volevano che uscisse.

Bernard Henri Levy, Derrida, eminenti filosofi europei, tantissimi italiani (uno no), mi fecero letteralmente a pezzi. Avessi avuto mire di docenza universitaria, me le sarei dovute rimangiare in un istante. Ma insegnavo semiotica e linguaggi di computer in un liceo, di lì a poco sarei passato nell’industria privata per creare i primi CD-ROM e in seguito alcune fra le prime applicazioni di Realtà Virtuale che mi sono valse un paio di premi internazionali. Mi dimenticai della filosofia accademica, non di Wittgenstein che continuai a usare e che ora saprei come inserire nei computer in una maniera rivoluzionaria. Ma non divaghiamo. Ritorniamo al nostro racconto.

Anche io, nel mio piccolo, sparavo le mie bordate. Da riviste filosofiche che mi chiedevano articoli, o dalle pagine di Paese Sera, dove il caporedattore cultura Fausto Gianì mi ospitò amorevolmente concedendomi un intero paginone. Lì riprendevo e rispondevo a tutte le critiche impietose che mi erano piovute addosso. Fra l’altro, varrà la pena di notare che i Diari Segreti ebbero una corposa Introduzione del professore Aldo Gargani. Forse più importante delle stesse note di Wittgenstein, oso dire. Il professore sembrava molto colpito dal testo originale, mi fece mille complimenti per la traduzione accurata e puntigliosa, ma credo che il contenuto del testo del filosofo lo coinvolse personalmente, profondamente, anche drammaticamente. Intitolò il suo scritto: “Il coraggio di essere”. E fu un secondo colpo, per il mondo filosofico. Due testi da capogiro in un unico libro. Oggi peraltro introvabile, in italiano. E io che ero a cavallo di quella bomba…

paeseseraJPG(La difesa su Paese Sera)

La stessa vocina che mi aveva avvisato dell’accademico concorrente mi spifferò in seguito di una furiosa lite avvenuta alla direzione dell’Espresso, con l’arcigno professore nel ruolo dell’inquisitore e Nando Adornato in quello dell’eretico che grazie al mio scoop gli aveva fatto fallire i piani editoriali. Chissà cosa accadde veramente. Stando all’uccellino, Nando si beccò una lavata di testa epocale dal direttore del settimanale.  Di lì a poco — come è noto a tutti —Adornato lasciò l’Espresso, si diede alla politica, si candidò in Alleanza Democratica e venne eletto deputato della repubblica. Poi fu rieletto nella Casa delle Libertà. Divenne liberale. O liberista. O neo-liberista. O non so più cosa. Non ci siamo mai più sentiti da allora.

E ora, che siete edotti dell’antefatto e del clima che mi circondava, passiamo finalmente a raccontare la stangata culinaria. Ma senza questo prologo non ne avreste compreso ed apprezzato il significato.


                                                                           *  *  *   


Ripartiamo con la storia.

Come accade spesso a Kirchberg — e nei paesi turistici limitrofi — i ristoranti talvolta indicono una sorta di “settimana culinaria tematica”: per attirare i clienti, sottraendoli ai concorrenti. Soprattutto d’estate, quando c’è molta gente. La “settimana della cucina indiana”, la “settimana della cucina argentina” (con tanto di bistecche di struzzo, per fare un esempio), la “settimana della cucina ungherese”, affogata nei gulasch. Se passate di là, ve lo consiglio.

Quell’estate Hannes era indeciso. Il Simposio era appena iniziato, c’erano una marea di partecipanti e lui voleva fare di tutto per attirarli nel suo locale, prendendoli per la gola. L’Hotel-bar-ristorante-macelleria Post doveva attrarre più avventori possibile, rimpinguando le casse.

Nel giardino del Post, di fianco al ruscello che sentivo dalla mia camera, proposi al mio amico dubbioso di indire una bella “settimana della cucina italiana”. In fondo, il Belpaese aveva ancora la cucina migliore del mondo: ogni nostra regione, quasi ogni comune, nel corso dei secoli ha scatenato la propria creatività sui fornelli. 

Poche nazioni al mondo possono vantare la varietà, la ricchezza, l’estrosità e la qualità del cibo delle nostre terre. E del vino.

Hannes ne fu subito contento, il suo volto si illuminò. La mascella quadrata abbozzò un sorriso sincero. Che gli si spense subito dopo.  Infatti, ripensandoci, non conosceva nessun cuoco professionale italiano che potesse reggere tutta la settimana tematica. Cucinare per quattro o cinquecento persone alla volta non è uno scherzo. Al sorriso subentrò una smorfia di amarezza.Gli sarebbe piaciuto molto, ma purtroppo era impossibile!

“Lo faccio io!”, azzardai. “Ho una ventina di ospiti a casa, vengono da varie regioni italiane: ci mettiamo noi in cucina da te, e se il tuo cuoco osserva e impara le nostre ricette, è fatta: noi reggiamo la prima serata, e poi il resto lo fate voi, copiandoci”.

Sembrava sensato. Anche per Hannes. Il sorriso tornò ad addolcire la mandibola teutonica, anche se lui rimaneva riluttante a chiedere a me, e ai miei ospiti, quello sforzo improbo.

 Ma tanto feci, tanto dissi, tanto brigai — e poi giunsero anche le mie amiche italiane, alla chetichella, incuriosite dalle nostre discussioni, parteggiando all’unisono per la mia proposta — che alla fine Hannes cedette. Facemmo un piano sulla carta, per capire bene come procedere. Orchestrammo insieme anche una “sorpresa”, su mia richiesta. In poco tempo il piano era pronto. I tempi, l’organizzazione, i costi, le procedure. Non provate a far muovere un tedesco chiedendogli di improvvisare, non è da tutti.veduta_aerea_kirchbergjpg(Veduta aerea di Kirchberg)

Lui andò subito nel retrobottega a prendere una lavagna pubblicitaria di quelle a “v” rovesciata, e scrisse col gesso il suo proclama: “Ab Mittwoch: Woche der italienischen Küche”. Da mercoledì, settimana della cucina italiana.

Il dado era tratto. L’idea di partecipare al Simposio, ma sotto le mentite spoglie di cuoco, mi solleticava parecchio. Mai avrei immaginato il finale pirotecnico che ne sarebbe scaturito.

Organizzammo la sorpresa: invece di cucinare in albergo, ci spostammo tutti nel casale di Molz, dove giunsero delle cucine da campo. Non chiedetemi dove le prese Hannes, ma arrivarono.

 Immaginate il casale trasformato in uno stabilimento alimentare in fermento. Hannes ci portava dal ristorante derrate alimentari in quantità industriale, ettolitri di passata di pomodoro e di odori, carne tritata, a fette e a bocconi, patate, verdure, facendo avanti e indietro in continuazione. Dappertutto c’erano pentoloni in ebollizione,di ragù alla bolognese (a venti o trenta litri alla volta), di brasato, di patate o verdura. Donne italiche intente a tirare la sfoglia per le tagliatelle su enormi tavoli infarinati, con le crinoline gentilmente concesse dalla madre di Hannes. Bambini che aiutavano a farcire le torte di frutta e canditi (che ogni tanto, però, diminuivano misteriosamente di numero).

Io mi concentrai sui saltimbocca alla romana. Il cuoco di Hannes, Albert, girava come una trottola fra i vari reparti, prendendo appunti. Ma non ce la faceva a stare dietro a tutto. Annotava alacremente, soprattutto i tempi di cottura. Assaggiava, dava consigli che però nessuno ascoltava, per via della lingua… E poi, vuoi dire a una cuoca italiana come si prepara la specialità del suo paese?

Insomma, fervevano i preparativi, per quasi due giorni interi.

E fervevano soprattutto le prenotazioni, fioccavano.Trattenbach_Wittgensteinschule dove insegnava Wittgensteinjpg(La scuola in cui insegnò Wittgenstein       foto di Fabrizio Funtò)

L’Hotel Post — e Hannes, che lì era considerato al pari di un contino locale — che indicono nientemeno che la settimana della cucina italiana? Un richiamo irrinunciabile. Da organizzatore quadrato e preciso, Hannes fu costretto addirittura a suddividere i commensali in due turni, per quante prenotazioni aveva ricevuto. Obbligandoci ad un surplus di cotture. In pratica,tutto il paese e tutti i filosofici ospiti si erano prenotati. Una marea di palati in fervida attesa.

Si prenotarono perfino gli altri ristoratori di Kirchberg, credo per scopiazzare le ricette. Tanto, visto che Hannes aveva fatto l’en-plein, sarebbero rimasti nella loro bottega desolatamente vuota.Tanto valeva partecipare.

Hannes era assolutamente entusiasta, gli brillavano gli occhi. Mi confessò che una cosa del genere non era mai successa prima a memoria d’uomo da quelle parti. E nemmeno negli altri paesini sparpagliati fra le valli e le convalli del Semmering, il distretto a cui Kirchberg appartiene.Un evento da ricordare negli anni. E tutti volevano dire: “C’ero anch’io”.

 Nel frattempo, io cominciavo già a pregustare la mia rivincita.Mi avevano massacrato sui giornali? Avrei reso letteralmente pan per focaccia.

Mentre infarinavo, indoravo e preparavo le scaloppine — e le guarnivo di formaggio e prosciutto, infilzandole con gli stuzzicadenti — organizzavo mentalmente la scena teatrale della mia comparsa, immaginavo le battute che avrei detto, le loro probabili risposte, e come controbattere. Simulavo, arguivo e pregustavo.

Mamma e papà Handler, i genitori di Hannes, erano sotto pressione. Man mano che si avvicinava l’ora di cena, l’attesissima inaugurazione, frotte di filosofi di professione sciamavano nei dintorni dell’Hotel Post, gettando occhiate di sguincio nella cucina — assolutamente e disperatamente vuota. Stazionavano lì, fingendo discussioni elevate ed eteree, in realtà attentissimi alle reciproche mosse. Perché quando qualcuno degli avventori si alzava da un tavolo, loro si fiondavano ad occuparne il posto, conquistandosi la prima linea: ordinavano di tutto pur di rimanere inchiodati lì e non perdere il turno per la serata.


                                                                        *  *  *  

L’ansia cresceva.

Noi eravamo in ritardo sulla tabella di marcia impartitaci da Hannes. Una pentola caduta, una torta nuovamente sparita, le patate lasciate a se stesse che rimbalzavano nel tegame oramai asciutto… Insomma, eravamo una truppa gioiosa e indisciplinata.

Verso le sei di pomeriggio del giorno fatale, venne organizzato il trasloco delle pietanze semipronte da Molz nelle cucine del Post. Furgoni anonimi che entravano inosservati dal cortile posteriore dell’hotel, scaricavano velocemente e poi ritornavano a Molz per il carico successivo. Un’ora dopo eravamo tutti in cucina, pronti per iniziare, con i camici d’ordinanza e i vassoi. Nella penombra della cucina ancora silenziosa, la madre di Hannes arrivò con un classico cappello da cuoco, incoronandomi re della sua cucina per un giorno. Naturalmente accolsi tanto onore in ginocchio, come è d’obbligo. E accendemmo le luci.wittgensteinjpg(Ludwig Wittgenstein)

Un coro di stupore esplose nel giardino. Come per miracolo, la cucina si era riempita di luce, di persone al lavoro, di pentole di acqua bollente, di pianali di legno coperti da una sterminata distesa di fettuccine, di cabaret pieni di contorni. E di una marea di cuoche italiche, capitanate dal sottoscritto capocuoco, e dal direttore d’orchestra, Hannes.

La gente si accalcava alle finestre per vedere. Chi si alzava, perdeva il posto. Mancavano solo le torte. Di questo vi racconterò dopo, se faccio in tempo.

Un grande tavolo vuoto troneggiava in giardino, unico in quel marasma, con i cartellini di prenotazione in bella vista. Nessuno osava sedersi lì. I simposiani passavano, lanciavano una occhiata di invidia e andavano inutilmente a cercare una sedia vuota, per poi fuoriuscire dal giardino e ricominciare il tour.

Alle otto in tavola, con leggero ritardo. Dentro il ristorante — e fuori in giardino, a ranghi completi.  

Hannes aveva provveduto nel pomeriggio a fare rifornimento di vino italiano, Chianti e Merlot soprattutto. Noi, in cucina, dovevamo ultimare la cottura dei secondi, mentre la pasta si scottava appena nell’acqua bollente, veniva riversata nei piatti e, in catena di montaggio, riceveva un mestolo di ragù. Ed in più un tocco di creatività: ciascun piatto veniva abbellito a modo suo, dall’ultima della catena. A quel punto Hannes ci diede il segnale, e via a servire i tavoli.

Anche le amiche italiane ogni tanto abbandonavano i fornelli e andavano a rinforzare le “Serviererin”, le cameriere locali, in numero inadeguato. Dalla cucina sentivo il gran vociare degli avventori, le loro grida di gioia, il frastuono delle stoviglie e dei brindisi. Vedevo le ragazze italiane discutere ai tavoli (in non so quale lingua) coi filosofi intenti a inforcare le fettuccine, annaffiate sempre con abbondante vino rosso.

Rapidamente la tensione salì, il cibo era ottimo, il vino eccellente, l’ambiente unico. Mai Simposio fu più culinario, e credo che fosse un bene. Non era una cena, era un’esperienza, una scoperta, un’avventura. Tutti chiedevano il bis, ma c’era da salvare il cibo per il secondo turno. Hannes opponeva un netto rifiuto.

E venne il grande momento, il piatto clou della serata. I saltimbocca alla romana, che la madre di Hannes, una signora magra e dai lineamenti aggraziati e gentili, con un caschetto di capelli color platino, aveva assaggiato in anteprima.

Quando tutti ebbero terminato di mangiare il primo, Hannes si mise al centro della sala chiedendo ed ottenendo il silenzio più completo. Agli astanti incuriositi spiegò che sarebbe arrivato un piatto da grande cucina di origini antico romane. E che Giulio Cesare in persona lo aveva elaborato. Mise ancora un po’ di enfasi nel racconto, e alla fine un applauso scrosciante accolse la sua comunicazioni.

Partirono i piatti dalla cucina, i secondi. Sebbene avessimo preparato anche altra carne di rinforzo, uno spezzatino, un brasato al barolo, tutti volevano i saltimbocca così magnificati. Li e-si-ge-va-no. Passammo gli altri secondi al turno successivo. Partirono anche i contorni, le verdure, i broccoli, le patate al forno.

Nel locale scese nuovamente il silenzio. Si sentivano solo le cicale frinire. I filosofi, per una volta, tacquero. Ammutoliti dal piacere. Intenti a lavorare di ganasce.

Io intanto mi preparavo. La gente stava andando in sollucchero e non capiva come mai Hannes rifiutasse di servire il bis o il ter.

 Naturalmente, i primi ad essere serviti erano quelli del tavolo grande coi cartellini, che ospitava il “board” del Simposio. I più eminenti e quotati filosofi e professori di filosofia, millimetricamente disposti intorno alla tovaglia per affinità elettive, in maniera che niente, e soprattutto vecchie scorie teoriche, turbasse l’evento.

Caddero in deliquio gastronomico.

Intanto il secondo turno premeva, visto il ritardo iniziale e le uscite teatrali di Hannes. Il tavolo del board era stato privilegiato. Avevo visto qualche bis arrivarci.

Chi non vedevo invece era la componente maschile dei miei ospiti. Spariti. Le donne, i ragazzi e i bambini erano in cucina o nella piccola stanza da pranzo riservata al personale. Gli uomini, uccel di bosco. Tentai di ricordare dove diavolo avevo nascosto le canne da pesca, sopraggiungendomi il sospetto che avrete tutti immaginato.

Poi il corso degli eventi mi travolse, e non ci pensai più.stangata_culinaria_polaroidpng

(I cuochi di Kirchberg        foto di Fabrizio Funtò)

Dal tavolo del board, infatti, era arrivata la richiesta di far uscire il cuoco dalle cucine, per meritarsi il caloroso applauso che tutti gli volevano tributare. Tutti i pensieri, i preparativi, le battute che mi ero preparato andarono a farsi benedire, lasciandomi in uno stato di confusione mentale, condito con una certa stanchezza fisica e desiderio di pace sociale. Mi era passata. La voglia di rivincita era scemata insieme alle ultime forze rimaste. Fare il cuoco non era decisamente per me.

Iniziai a questionare con la madre di Hannes, che mi spingeva ad uscire. Ma durò poco. L’applauso ritmato che proveniva dal salone, e soprattutto dal giardino e dal tavolo del board, mi davano poche chance di opposizione.

Non sapevo che fare. Allungai il braccio destro, e mi lasciai condurre fuori davanti al board, dove i miei arcigni accusatori e denigratori sedevano estasiati dalla cena luculliana. Anche loro nei fumi del Chianti.

Dopo il primo applauso convinto, il presidente della Fondazione,  Adolf, si alzò dal tavolo e venne ad abbracciarmi calorosamente. Gli altri si chiesero subito come mai Hubner conoscesse un cuoco italiano. Serpeggiò un mormorio fra di loro, gli sguardi diventarono punti interrogativi che si conficcavano sul mio volto. Chi era costui?

Levandomi con delicatezza il cappello da cuoco, Adolf fece sorridendo le presentazioni, e al popolo spremi-meningi accorso a conoscere l’Artefice massimo dei saltimbocca, disse gioioso a squarcia gola: “E questo è Fabrizio Funtò!” Chiusi gli occhi. Mi sentivo come un Gesù davanti al Sinedrio, altro che Simposio!

Aspettai immobile l’inevitabile sentenza. A quel punto si alzò a fatica e con gravità il Presidente del Simposio, e barcollando leggermente venne a mettersi di fronte a me, col suo volto a pochi centimetri dal mio. Sentivo il suo alito pesante di merlot. Rimase un attimo a rimirarmi, come un alieno, e poi mi diede un forte abbraccio, stringendomi con una forza insospettabile. E rivolgendosi al pubblico, proclamò: “Qui siamo a tavola, non si litiga! Ci sarà tempo per continuare le nostre discussioni: domani! Sono certo che gli altri membri del board (e qui fece un largo gesto con la mano, per mostrarli) acconsentiranno ad un fuori-programma: il nostro cuoco, dopo averci cucinati a dovere, verrà a raccontare in assise il suo punto di vista su Wittgenstein”.

Poi, rivolto a me, sussurrò: “E se qualcuno ti darà ancora fastidio, ci penso io!”

Ora toccava a me rispondere. Vuoto. Buio pesto. Ma offerta di pace notevole.

Sospetto che Hubner, al corrente di tutto, lo avesse lavorato a dovere dietro le quinte.

Intanto le “Serviererin” stavano distribuendo sui tavoli le bottiglie di bianco frizzante, in preparazione del dolce.

E a quel punto mi venne il lampo di genio. Mi balenò l’idea finale.

Assunsi anche io una posa grave, mi levai la parannanza del cuoco, e dissi, scandendo lentamente le parole: “Grazie, Presidente. Ma volevo scusarmi con tutti voi. Volevo chiedervi, devo chiedervi perdono. Ho commesso un errore inemendabile…” — che in tedesco, la lingua in cui ovviamente stavo parlando, suona molto bene. Poi presi una lunga pausa. Molto lunga.

Scommisi che molti di loro pregustavano una mia capitolazione filosofica, un mio rientro nei ranghi. Ripresi a parlare, questa volta molto velocemente.

“Ci mancano le torte!”. Boato di risa.

“Erano affidate ai ragazzi, ma sono sparite. Io una certa idea ce l’avrei, ma sono troppo stanco per sostenerla davanti a cotanto consesso. Ne sono sopravvissute solo un paio, perché le avevo riservate per il board! Vi toccheranno le solite Paltschinken, offerte dai coniugi Handler…”

Musiche, applausi, risate, uscita di scena, e sipario.

 

*   *   *

 

Rimango in debito con voi di un nome: chi era l’unico professore di filosofia che non mi aveva dato addosso in tutta questa vicenda, anzi che aveva scritto sul Corriere della Sera una recensione entusiasta e definitiva, che mise fine alla diatriba: Lucio Colletti.

Vennero poi giovani interpreti e nuovi ricercatori, che partendo dagli spunti contenuti nelle mie bordate difensive sottoposero i testi di Wittgenstein ad una nuova interpretazione. Lo so, perché mi ringraziarono di aver rotto il muro di silenzio e di aver aperto loro la strada. Oggi sono professori universitari anche loro, ma non mi sembrano dei tromboni.

Dalla cattedra di De Mauro mi arrivarono anche dei ragazzi, che mi mandavano per degli stage nella società di realtà virtuale che dirigevo. Con uno di loro abbiamo lavorato sulla numerazione del Tractatus, attraverso un sistema autore di ipertesti, e l’abbiamo risolta: il tutto è diventato la sua tesi di dottorato.

È la nuova generazione che avanza. E ho cercato di fare di tutto per aiutarli. Se ci sono riuscito, anche solo in parte, lo diranno le generazioni future.

Ma ci ho provato. Me li sono cucinati a dovere.

Ah, dimenticavo un’altra cosa: non partecipai al Simposio il giorno dopo. Niente fuori-programma. Non vi ho mai partecipato.

Sono e resto orgogliosamente alieno. Credo al genere umano. Ma non ne sono ancora sicuro.


*FABRIZIO FUNTO` (Lecce, 1957. Filosofo pentito, docente mancato, è stato mandato subito a fare il guru della Realtà Virtuale e dell’Innovazione Tecnologica oltreoceano. Ci ha preso gusto. Ogni tanto tossisce qualche storia inattuale)


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