Islanda boreale, dove le città profumano / 1
di MANUELA CASSARA' e GIOVANNI VIVIANI*
Islanda. Decisamente. Da non mancare. Il problema, piuttosto, è: quando?
Per chi non si vuole perdere l’Aurora Boreale, allora bisogna optare per tardo autunno o l’inverno. Nel qual caso l’itinerario si fa ridotto, quasi stanziale. Ma si è ricompensati dallo spettacolo pirotecnico. Se invece si è tagliati per i trekking e il Camel Trophy, se si amano gli spazi remoti, i guadi pericolosi, i panorami incontaminati, allora bisogna andare in estate. Ma in estate, se si segue l’itinerario canonico, ci si ritrova a fare la coda davanti ad ogni cascata, canyon, ingresso termale etc. etc., con photo bombing garantito da un turista distratto e invasivo. Rimane perciò la primavera, in medio stat virtus. E noi a fine maggio siamo andati. Perché se ci si attiene al girotondo perimetrale, si può andare quasi dappertutto, rinunciando al centro selvaggio, che comunque lo vuoi/puoi fare solo se: è piena estate e i guadi sono fattibili e le sterrate sono aperte, se hai meno di quaranta anni, se hai, a mio avviso, una componente masochista perché la comodità è da scordarsela, o se sei un atleta di triathlon.
Non il nostro caso, due coppie in età, in buona salute, con una propensione maturata negli anni per il comfort. Ciononostante abbiamo macinato 3000 km in quindici giorni. Come si vedrà nemmeno maggio è una garanzia, del clima islandese altro elemento da prendere in considerazione, specie i meteoropatici, è la variabilità. Guardaroba di conseguenza. A cipolla.
Poi c’è il discorso del quanto. L’ Islanda non te la regalano. E’ cara. Molto cara in estate, comunque cara nelle altre stagioni. Anche se si volesse dormire in ostelli, dormitori, nel sacco a pelo, con cibo fai da te, è cara. Per chi volesse la propria camera, se poi fosse così esoso da volere il bagno personale, allora meglio prepararsi a spendere sopra le tre cifre per notte. E’ caro anche affittare la macchina. La 4x4, se ci si attiene alla ring road, non è indispensabile, ma preferibile. Care sono tutte le necessarie assicurazioni a copertura di: tempeste di sabbia che portano via la vernice, folate di vento che possono scardinare gli sportelli, buche che scassano il semiasse, sassi e brecciolini che bucano i copertoni e spaccano i parabrezza. Ogni incontro con una macchina che procede in senso opposto ha il pathos di una sfida all’Ok Corral. Spero di non aver dimenticato niente.
Una volta accettato il fatto che il soggiorno costerà come una Spa a cinque stelle, si è pronti a partire. E si verrà ricompensati - turisti permettendo - da una natura incontaminata, lunare, spettrale, emozionante, unica.
Avviso per i fotografi, avendone uno in famiglia parlo per esperienza. Le foto più spettacolari si possono fare solo con il drone! Lo avete? Allora porterete a casa delle inquadrature mozzafiato. Avete la macchina al collo? Mettete in conto delle frustrazioni. Il clima, la luce, che però a mio avviso, anche quando è plumbea , è comunque magica e specialmente… l’acqua. Che è tanta, quotidiana. E le macchine fotografiche non la amano. Meglio fornirsi di qualche protezione adeguata. Noi ne eravamo sprovvisti e questo è stato fonte di ambascia ed ha anche limitato alcuni scatti.
Quello che segue è il racconto delle tappe obbligate, delle più eclatanti, che abbiamo fatto in senso antiorario, macinando una buona dose di chilometri quotidiani. Quindi questi appunti di viaggio, perché tali sono, non hanno altra pretesa se non quella d’includere, voi lettori di buona volontà, nella nostra esperienza e di dare qualche dritta curiosa.(Reykjavik foto di Giovanni Viviani)
Partiamo da Reykjavik e il primo impatto.
Esistono comodi voli diretti. Noi non l’abbiamo preso. E mi fermo qui.
Christian, il nostro primo islandese, è un tassista simpatico e logorroico: guida distratto dalla sua stessa voce e dal suo entusiasmo. Quaranta chilometri per raggiungere Reykjavík centro. Niente di che, così ci facciamo piacevolmente distrarre dai racconti della sua infanzia e di un’Islanda rurale, forse dimenticata da dio ma non dagli Americani, già presenti con le loro basi.
Un’America più che mai vicina oggi; non c’è islandese, giovane o vecchio che sia, uomo o donna che sia, che non parli perfettamente l’inglese. Comprensibile, dato che i programmi tv sono per la maggior parte statunitensi. Ma quando il nostro Christian era un bimbetto, a occhio deve essere nostro coetaneo, quindi parliamo degli anni ‘60, l’Islanda era povera. Molto povera. Si viveva di pesca e di poco altro. C’era chi stava meglio, ma erano pochi. Tra cui suo nonno, il primo nel quartiere a comprare una costosa lavatrice, che metteva al servizio di tutto il condominio. L’oggetto misterioso doveva avere il fascino di un'astronave per Christian e i suoi compagnucci, affascinati da quell’oblò di panni che giravano, ipnotici. Altro che Play Station. C’era poi chi stava peggio, ed erano soprattutto le donne, alle quali toccava, per fare il bucato, recarsi in una delle tante pozze di acqua fumante che sgorgavano in città. Una di quelle oggi è diventa la principale piscina termale - comunale - di Reykjavík.
Tre giorni nella capitale. Il dado delle prenotazioni era tratto ed ero preda dei sensi di colpa di ogni travel agent fai da te, specie se responsabile degli amici a seguito. Invece, durata perfetta. Ci svegliamo col sole, un buon auspicio. Qui non è che lo si veda spesso, anche se già a maggio fa buio solo a mezzanotte, alle quattro del mattino poi c’è luce. Si dorme grazie alle tende oscuranti che incontreremo ovunque. Funzionano. Forse il clima è soporifero.
(Il Geysir foto di Giovanni Viviani)
Di buonora, dopo una copiosa colazione, passeggiata fronte mare, sferzati dal vento. Robetta da principianti, ci dicono i locali: queste folate sono solo un appetizer. Passiamo davanti alla casa che ospitò lo storico summit tra Reagan e Gorbachev. Una costruzione armoniosa, isolata. Ci si arriva, oscillando per le folate, scansando file di ciclisti impavidi, seminudi e colorati, proseguendo fino all'Auditorium Harpa, una costruzione di vetro ad alveare, spettacolare, ancora di più una volta entrati. Da lì una navetta, gratuita, porta fino al Perlan, con la sua cupola che domina la città ed un look out a 360° sui nuovi orizzonti di questa Reykjavík ingrandita, arricchita, rinnovata. Picnic con panini sottratti al breakfast, per risparmiare, perché ogni pasto è un salasso. La sera prima, dimenticandoci del budget, che comunque non sarà mantenuto, assieme alle altre intenzioni di austerity, ci siamo concessi una zuppetta d'aragosta, che qui è meno chic di quello che si possa pensare, visto che la si trova ovunque, anche se non te la regalano. Come il salmone, come i gamberetti. Come il merluzzo e l’agnello. Tempo due giorni e capiamo che i secondi, ovunque, costano come da noi in un ristorante stellato. O ci si nutre di fast food, di pizza ed hamburger, oppure, anche nei fast food, uno spezzatino non viene via con meno di €35. Nei ristoranti, € 50.
Ottima la birra che come un bicchiere di vino costa intorno ai €10, ma le dosi sono generose. Noi ci affezioniamo alla Viking vuoi per il nome evocativo vuoi perché profumata e ambrata. A proposito di profumi, la città profuma. Un profumo che mi ricorda quello delle candele di pino mugo, un sentore di bosco, di conifere, inebriante, solo che sono solo io a sentirlo. No, per la verità, anche Gianni. Quindi è vero che Dio li fa e poi li accoppia. Il che vale anche per i nostri amici; sospetto che soffrano ambedue di adenoidi.
(Kerid foto di Giovanni Viviani)
Girovaghiamo fino a sfinirci per due giorni, a piedi, senza meta precisa, l’ultimo lo dedichiamo alla cultura. Il National Museum ha solo due piani, non è quel che si dice monumentale. Al primo, manufatti dell'età del ferro, da cui si evince che furono i barbuti vichinghi i primi coloni, cadendo secondo me dalla padella (danese o norvegese che fosse) alla brace (islandese) perché, in quanto a clima, la situazione non era certo migliore. Anzi. Con una differenza. L'isola ribolliva. Immagino che le sorgenti fumanti saranno venute utili fin da subito. La scoperta dell'acqua calda!
Erano gente tosta e bellicosa, questi primi Islandesi di stirpe Vichinga. Morire in battaglia era considerato un bel traguardo. Un guerriero era seppellito con tutti gli onori, con armi, bagagli e pure cavalli, così andava diritto al Valhalla accolto da Odino, dove l’eroe avrebbe ammazzato il tempo per l’eternità giocando col martellone di Thor. Sì, lui, quello degli Avenger. Se poi moriva in casa, i Vichinghi non si facevano guardare dietro; al caro estinto veniva offerto un pirotecnico funerale in mare, su una barca in fiamme veleggiante verso i lidi celesti. Che era pur sempre un modo generoso di accompagnarlo, visto quanto le barche, da queste parti, fossero indispensabili, alla pesca e quindi alla sopravvivenza. E se invece eri donna? Peccato. Come donna sparivi nel nulla. Niente tombe, figuriamoci funerali celebrativi, il che la dice lunga su quanto fossero tenute in considerazione.
Dall'età del ferro al Medioevo si arriva al Cristianesimo con i suoi riti e orpelli. Persino qui le chiese erano ricche e scolpite, i paramenti ricamati, i tappeti e gli arazzi elaborati, i mobili dipinti e intagliati, i manufatti dorati. C’è poco da fare, la Chiesa i soldi li trova. Sempre. E, pare, pure ovunque.
(La cascata di Seljalandsfoss foto di Giovanni Viviani)
Per ecclesiastici e soldati, la vita era
confortevole. Case accoglienti, vestiti e passatempi eleganti, accessori
ricercati. Le cose andavano meno bene per tutti gli
altri, per i contadini, per i pescatori, che vivevano ammassati in anguste
costruzioni di legno, interrate sopra, sotto e sui tre lati e costituite da
un’unica stanza di una ventina di metri quadri dove si mangiava, si dormiva,
si cucinava e, va da sè, si procreava.
Cosa curiosa: le donne, tutte, signore o
contadine, portavano i capelli lunghissimi e sciolti, fino alla vita. Una
criniera, secondo me, con funzioni antifreddo. Se no non si spiega. Pensa a
farti uno shampoo, in quelle condizioni, con quel freddo. Anche se
avevano pur sempre l’acqua calda.
Dopo aver fatto tappa al Geysir, che ha fatto del suo meglio per farsi notare, con uno spruzzo non eclatante ma dignitoso, dopo un pernottamento in zona e diverse ore di macchina, dopo una nottata nella Guesthouse di Arnaldur, a Laugaras, con camere carine ma a misura di gnomo con il solo cestino della merenda come bagaglio, il nostro ospite si è riscattato con questa dritta fuori programma, che riportiamo per consigliarla: la caldera di Kerid, con il suo lago proprio turchese, ci ha emozionato per gli insoliti e spettacolari colori. Il percorso si fa in bilico sul sentierino di brecciolino, senza ringhiere né barriere, sballottati dall'immancabile vento. Sconsigliato a chi soffre di vertigini. Ma ne vale la pena.
Dopo Kerid, via verso la cascata di Seljalandsfoss, quella che gli si gira dietro. Ed è speciale. Ovunque, comunque, acqua, sempre acqua, fortissimamente acqua! Lo scroscio. a secchiate, è condito dalle solite forti folate, e si scatena non appena apriamo la portiera. Il fotografo è sempre più depresso. Nebbia, nuvole, vapori acquei e gocce mettono a repentaglio la sua Canon. Ormai gira con sacchetti di plastica, quelli della biancheria sporca forniti dagli alberghi, cercando di proteggerla. Non è un bel vedere. Il National Geographic non approverebbe. Seljalandsfoss però è sublime. Il muschio colore smeraldo, la spuma dell'acqua con bagliori di diamante, il suolo nero di lava. Tutto ad alta definizione. Sì, sì, questa Seljalandsfoss mi piace, anche se rientro in macchina più fradicia che dopo una doccia. E dire che sono equipaggiata: maglione, piumino 100gr, guscio antivento, pantaloni tecnici e sopra tutto un mantellone color ramarro, comprato da Decathlon, che mi fa sembrare una maxi zolla erbosa, semovente. Anche questo non un bel vedere.
(Nella zona di Vik Y Myrdal, il "Chinese take away" foto di Giovanni Viviani)
In serata arrivo a Vik Y Myrdal, un paesino quasi inesistente, tappa obbligata
del Golden Circle. Christian, il nostro primo nonché unico tassista, l’aveva
definita un po’ cinicamente Chinese Take Away. Non che esista un qualsiasi
takeway in quel di Vik. A malapena c'è un bar/stazione di rifornimento
dall’aria spartana, dove faremo una misera colazione, per non sottostare al
ricatto di € 23 per un breakfast all'Icelandic Hotel, sul quale stendo un
pietoso velo. No. Il Chinese Take Away si riferisce alla spiaggia di
Reynisdrangar, quella degli imponenti faraglioni, del mare ruggente, delle onde
possenti, quella che, senza sforzo, tecnica o talento, garantisce la
spettacolare inquadratura che ci farà fare bella figura, tornati a casa.
Questa scenografica lavica spiaggetta però ha un problema: delle onde carogna
che, improvvise, possono trascinarti a miglior vita, mentre tu, turista
distratto dalla messa a fuoco, dai le spalle al mare malandrino. Il cartello
c'è, pure corredato da un esplicito disegnino, ma pare sia ignorato dagli
orientali, spesso incapacitati a leggere il nostro alfabeto. Con la
dovuta cautela, è uno spettacolo imperdibile.
(1 - continua)
*GIOVANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast, ha documentato con i suoi
still life i prodotti di molte griffe del Made in
Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha
anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di
Repubblica. La
sua passione più recente sono le foto di viaggio)
*MANUELA
CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda,
scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le
sue impressioni e ricordi agli amici e sui social.
Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità
anche sul resto)
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