Innamorarsi di Sydney


testo e foto di MANUELA CASSARA'*

Gioco d’anticipo e metto le mani avanti: questo non è un pezzo colto.

Non parla di Storia, anche perché quella Australiana sarebbe poca cosa: 300 anni nemmeno compiuti. Dipende da quando si inizia a contarli. Sempre che uno consideri Storia quella scritta dai bianchi, e non dai legittimi abitanti, gli Aborigeni, perché altrimenti la cosa si farebbe lunga una quarantina di mila anni.

Non è nemmeno un pezzo che ha lo scopo di innalzare lo spirito parlando di Cultura, perché dovrei tornare ancora una volta agli Aborigeni, al loro modo di raccontare la vita, le vie dei canti, i sogni, gli antenati, il territorio attraverso i loro magici dipinti Papunya.  Ci vorrebbe un’antropologa. Non sono un’antropologa. Non sono qualificata. Anche se consiglio, caldamente consiglio, di saperne di più, della loro pittura, della loro cultura, del loro rapporto sacrale con questo Paese che è e stato loro sottratto e che solo oggi, un pochino, gli viene riconosciuto. Solo un breve accenno storico prima di cominciare: una volta scoperto casualmente questo territorio ai confini del mondo, il Regno Unito  ha pensato bene di togliersi dai piedi i tipacci più loschi e mandarli qui,  il più lontano possibile. E' così che gli eredi di quei poco di buono, i Convitti, sono diventati l’Aristocrazia Australiana. Ma sto semplificando.

Perciò questo è un semplice racconto di ricordi e emozioni, perché tanto vale confessarlo subito: sono innamorata di Sydney. E’ la mia città preferita. Al mondo. Dopo Roma, ma solo perché a Roma ci sono nata. Penserete: esagerata! Ho persino fatto un patto col Padreterno, sono atea, ma non si sa mai: se rinasco, ho messo in chiaro, deve essere a Sydney. Fateci un salto – non fate come Djokovic, andateci vaccinati, se così è richiesto,  se no vi rimbalzano. E non guardano in faccia nessuno, cosa buona e giusta . - Poi mi direte.  E’ probabile che ve ne innamorerete.


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(Bondi beach)


La prima volta che ci andai, cui hanno fatto seguito svariate altre nel corso di decenni, ne ho contato otto, se non sbaglio,  fu nel dicembre del 1980. Mi aveva invitato un'amica, ex coinquilina londinese, australiana di nascita, tornata da poco in patria. Per molti giovani australiani, e neozelandesi, andare in Inghilterra era una specie di rito di passaggio, un modo per allargare i propri orizzonti, farsi qualche anno sabbatico, conoscere le radici culturali di quell’Impero politicamente rinnegato ma culturalmente ancora rispettato. La maggior parte, dopo un paio d’anni, tornava, se non più ricco, almeno con qualche idea per costruirsi una vita. Alla mia amica c’erano voluti 15 anni, poi anche lei era tornata.  Se non si fosse innamorata, chissà, forse sarebbe ancora là.

Sydney era già stata addobbata per il Natale: ma quell’enorme albero decorato in Martin Place, quei festoni illuminati lungo le centralissime Pitt e Oxford Street, così  incongrui  sotto un cielo blu cobalto, un sole intenso, una luce limpida e così speciale, non facevano altro che aumentare il mio senso di dislocamento spazio-temporale; tipico, credo, di chi si trova per la prima volta "down under”. Letteralmente “sotto sotto”.  


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(Surf a Bondi)



Nel mio caso “sottosopra” dà meglio l’idea di come mi sentivo, quella prima volta. E non solo per il jet lag. Ero atterrata stravolta, dopo trenta e passa ore di viaggio, 24 solo di volo super affollato in economy quando si volava stipati, più due scali frastornanti e altrettanti cambi di aereo che,  nonostante i miei trent'anni, avevano lasciato il segno. Da giugno di quest’anno la Qantas ha annunciato un volo non stop di 15 ore 45 minuti da Roma a Perth, con possibilità di proseguire per Sydney senza cambio di velivolo. Non male, ma io rimango fedele alla scelta di fare, piuttosto, un mutuo per volare in Business, costi quel che costi. Scagliate pure la vostra pietra egalitaria; rivendico i privilegi dell'età. Almeno questi.  

Ricordo di essermi accasciata, finalmente orizzontale, ancora stordita e disorientata, sul letto di una cameretta spartana, dopo aver bruciato le poche energie rimaste per arrampicarmi su per una scala a pioli, praticamente verticale. Una camera a tutti gli effetti, in una casetta a due piani, larga però solo poco più di due metri. Se aprivi le braccia, toccavi le pareti opposte. Persino io che non sono un gigante. Una costruzione carina, primi Novecento, pensata al risparmio: al piano inferiore un cucinotto basico, un micro soggiorno con caminetto, dal quale si accedeva, con la suddetta scaletta, alle due minuscole stanze al piano superiore. Il che richiedeva una certa agilità e, se avevi valigie, la necessità di entrare in modalità sherpa, portando il bagaglio sulla schiena. Era tutto molto, davvero molto, lillipuziano.



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(Bronte beach)



Il bagno credo di averlo rimosso, ma il WC che si trovava in giardino - un  parolone, perché era un fazzoletto di due metri per quattro, cinque al massimo - era un traballante gabbiotto di assi inchiodate. “Occhio ai ragni - mi aveva avvisato l'amica, che essendoci nata da quelle parti a certe cose non ci faceva più caso - specie il Red Back, che è piccolino e si fa fatica  a vederlo. Ma anche il Funnel Web. Sono velenosi; anzi, mortali. E gli piacciono un sacco i giardini e i luoghi umidi e bui". Quel gabinetto era sia l’uno che l’altro. Il flash di paranoia aracnofobica si rinnovava ogni qualvolta andavo in bagno, pila alla mano.  Andarci di notte non se ne parlava, piuttosto l’enuresi.  Senza contare la scala a pioli. Tempo un paio di giorni e mi ci ero affezionata, a quella casetta delle bambole, in quel di Glebe; quartiere lasciato andare, vicino all'Università, abitato da anziani e studenti, con begli edifici mal ridotti che risalivano alla fine del'700. Il Capitano Cook, nel 1770,  era approdato nella non lontana Botany Bay, perciò definire “storica” la zona mi sembra corretto, per gli standard locali, perché in Australia bastano un centinaio di anni per fare entrare un edificio sotto la protezione della National Heritage List, guardato a vista dai numi tutelari dell’ Heritage Branch.   Che sarebbe quanto di più vicino alla nostra Soprintendenza delle Belle Arti. Qualcosa del genere.

Con gli anni Glebe è diventata irriconoscibile, le malandate costruzioni sulla Glebe Point Road sono state restaurate e colorate, le loro verande rimesse a nuovo ospitano graziose boutique creative, eleganti negozietti di bric a brac,   posticini dove si va per un drink e per cenette fusion.

Sfatiamo subito una maldicenza: in Australia si mangia da dio. Forse quarant’anni fa era un terno al lotto, a meno che non andassi sull’ etnico, indiano, vietnamita, tailandese che fosse,  ma ora posso garantirvelo, Master Chef Australia insegna.

Parte dello charme di Sydney, già allora e più che mai ora, sta proprio in questi  piccoli villaggi nella città; Surry Hills, RedFern, Woollhara, municipalità rivalutate, dislocate entro un raggio di 3,4,  max 5 km dal centro degli affari. Paddington è rimasta la mia favorita: un’incantevole zona residenziale che mi aveva sedotto fin dal primo viaggio, con le sue deliziose villette vittoriane che ora valgono una fortuna, i balconi in ghisa preziosi come merletti, i giardini ben curati, le stradine fiancheggiate da purpurei alberi di Jacaranda, da Flame Tree fiammeggianti, da frangipane profumati, nelle quali mi è sempre piaciuto perdermi, curiosare, girovagare. Non è il mio genere, ma se amate il demi monde è doveroso citare il quartiere a Luci Rosse di King Cross, con fulcro a Darlinghurst Road, simbolo decaduto della vita notturna borderline, posto di backpackers, ostelli a buon mercato e ritrovo della comunità LGBT. Da non confondersi con Darlinghurst il quartiere che, invece è un posticino per bene, dove si va per cenare o fare shopping.



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(Downtown skyline)



Si vive bene a Sydney. In molti vivono bene, a Sydney. Non tutti, ovviamente.

Ma in tanti. E non c’è da stupirsene.  Basta guardare la topografia di questa città che si sviluppa, sinuosa, articolata intorno a fotogeniche baie dai nomi gentili, Darling Point, Elizabeth Bay, Rose Bay, Double Bay, piccoli paradisi affollati da eleganti condomìni borghesi, da villette monofamiliari, molte con la barchetta ormeggiata nell'adiacente porticciolo.
La mia amica, lasciata Glebe, dopo un paio di traslochi, nel 1985 si era trasferita a Bondi. Un nome, una garanzia, come si dice. Aveva scovato una costruzione semi abbandonata, stretta tra due edifici insolitamente a più piani. Età 150 anni circa, oggi 180 e passa,  un’età rispettabile, che la faceva entrare di diritto nell’Heritage List, cosa che,  per la mia amica urbanista e membro lei stessa dell’Heritage Branch,  era stato un super bonus. Cadeva a pezzi, era fatta con blocchi di tufo anneriti, con la tipica tettoia ricurva, bucherellata e arrugginita, che faceva subito "vintage". Aveva un'aria derelitta, ma aveva stile, come la mia amica del resto, una che non si è mai fermata all’apparenza. Una volta ci abitavano operai, oggi, dopo qualche rispettoso ritocco ben assestato, vale milioni. Come si dice in questi casi? location, location, location?

A Bondi Beach ci si può arrivare a piedi; dopo una curva si apre la spettacolare visione di quella baia iconica, battuta dalle onde. Corpi abbronzati, surfisti esaltati, bagnanti tenuti d’occhio da un manipolo di forzuti ragazzoni, le Life Guards, penalizzati dalle loro ridicole cuffiette, allenati per intervenire al primo segnale di pericolo, perché con queste acque, che surfisti di tutto il mondo affrontano con baldanza, non si scherza. Un momento tocchi, un attimo prima te la ridi sbatacchiato dalle onde, quello dopo ti ritrovi afferrato da una corrente che ti trascina verso l’Antartide. 35 salvataggi al giorno, solo a Bondi.

Vuoi farti qualche bracciata più sicura? c'è l'Iceberg, una piscina olimpionica alimentata dalle onde, per nuotatori impegnati. Si chiama Iceberg non a caso. Acqua direi frescotta, che gli amatori del genere definiscono “rinvigorente”. Ah, certo, ci sono anche gli squali, da queste parti. Può capitare di sentir gridare SHARKKKK alla maniera di Jaws, il film di Spielberg, ma è raro;  pare che preferiscano anse più calme, come quella a  Nielsen Park, giust' appunto detta  Shark Beach, che perciò viene protetta con una rete anti-squalo per permettere alle famigliole con prole una gioiosa giornata tra bagno e pic nic.



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(Australia day)




Ricordo la mia ingenua domanda: " Scusa, ma fino a dove arrivano, ‘sti squali?"  "Hai presente il telo da mare?" aveva risposto, rassicurante, quella zuzzurellona della mia amica. Dopo un bagnetto ci sta un bel pranzetto, un croccante fish and chips fronte mare, o magari, per stare sul leggero, una dozzina di piccole, gustose, Sydney Rock Oyster accompagnate da uno Chardonnay gelato della Hunters Valley,  oppure un malt-shake gelato, gustati in uno dei tanti locali che affollano la passeggiata. Niente di raffinato, ma accoglienti, rilassanti. In quanto alle spiagge ogni giorno si partiva in spedizione, con il proposito di uno stop per fare colazione in un posticino con vista, cappello sempre in testa e protezione minimo 50, perché da queste parti il sole viene preso seriamente, ragazzini nudi a scorrazzare non se ne vedono, e se vuoi fare la Bronza di Riace lo fai sulla tua pelle, nel vero senso della parola.  Coogee, Waverly, Bronte, Clovelly, c’era solo l’imbarazzo della scelta, piccole anse in dotazione ai quartieri omonimi, alcune più a misura di famiglia, altre più giovaniliste. Tutte spettacolari. Tutte rigorosamente non attrezzate.

E dire che, quella prima volta, Sydney, non mi era piaciuta per niente. Il centro con le basse costruzioni a due piani, retaggio di vestigia coloniali inizio ‘900 sovrastate da grattacieli anni’70, ammassati a distanza ravvicinata, mi era sembrato un' accozzaglia disordinata, casuale, sgraziata. All’ombra di verande poco curate c’erano solo negozi con paccottiglie di poco prezzo; ristoranti fast food puzzolenti di grasso bruciato, con menù tutti simili e cibo scadente. E pub, innumerevoli pub che qui chiamano hotel, antri oscuri maleodoranti di birra, frequentati da businessman ridicoli nei loro calzoncini al ginocchio, con i calzettoni che lasciavano scoperte le magre rotule esangui; accanto a loro, a gruppetti, corpulenti manovali dal viso rubizzo, in canottiera e qualche triste avventore solitario davanti all’ennesimo boccale di Foster o XXXX. Donne non ne ricordo. Ricordo solo lo squallore. 

Mi chiedo se oggi, ad una prima visita, questa impressione rimanga. Perché downtown è comunque la parte più brutta di Sydney. Nonostante i miglioramenti, iniziati già prima del re-vamping delle Olimpiadi, nel 2000:  ”Sydney Two Thousand” cantava John Williams, famoso menestrello chitarrista indigeno, e altrettanto ripetevano con orgoglio i locali, con quel loro accento nasale che sembra terminare con un punto interrogativo e che, se non ci fai l’orecchio, non sembra nemmeno inglese. Downtown è diventata tutta un’altra cosa, migliorata solo perché si è arricchita,  invasa dalle grandi catene che la omologano ad ogni altra metropoli, con skyscrapers dalle forme futuribili che hanno cambiato, totalmente, la skyline.



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(Darlinghurst)





Ma anche allora bastava non farsi scoraggiare, passare Center Point rinominata  Sydney Tower Eye - una landmark che non ti faceva  mai perdere la bussola - proseguire  diritti fino a Circular Quay, e lì,  dove partivano i traghetti che solcavano quella baia spettacolare, t’innamoravi. Come facevi a non innamorarti davanti a quello spettacolo unico?

Sulla destra le vele svettanti dell’Opera House, sulla sinistra l’imponente arcata dell’ Harbour Bridge… era fatta, ti dimenticavi quello che ti eri lasciata alle  spalle. A pochi minuti di traghetto, dall’altro lato della baia, si riuscivano a scorgere il felliniano faccione dell’entrata al Luna Par, lo zoo di Taronga, che - per quanto non approvi - offre una vista spettacolare sulla città, e poi i quartieri per bene di Cremorne e Mosman, la spiaggia bon ton di Balmoral.

Undici dollari, 20 minuti con il vento in poppa e si arriva a Manly, una spianata di sabbia ombreggiata dai secolari pini di Norfolk, dove nel 1964 si tenne il primo campionato di Surf, perché anche qui, come a Bondi, le onde non mancano.

C’é un rito, che la mia amica mi fa ripetere ogni volta per finire in bellezza e che mi sembra pertinente: prima di partire, un saluto alle Heads e dalle Heads, quattro imponenti formazioni rocciose che marcano l’ingresso al porto  di Sydney e fanno da guardia, giganti rocciosi, alla città. 

Ogni volta lascio spaziare lo sguardo sull’orizzonte, faccio profondi respiri per inalare il mare, e mi concentro sulla magia di quella luce incantata, ineguagliabile, che mi porterò nel cuore.  E che mi farà tornare. Le heads sono la mia Fontana di Trevi.



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(Harbour Bridge)




PICCOLE COSE DA FARE, ALCUNE DA NON MANCARE

 

Le Vestigia Vittoriane

Una visitina che, se vi piace il genere, può essere anche guidata, al Queen Victoria Building in George Street, emulo della londinese Burlington Arcade, nato come Mercato Municipale, con le dimensioni, si vantava, di una Cattedrale. 200 negozi di marchi quasi tutti australiani di qualità, a prezzi non proprio a buon mercato.

La Government House residenza del governatore del Nuovo Galles del Sud, dichiarata patrimonio dell'umanità, con adiacenti i Royal Botanical Gardens.

  

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(Nielsen Park)



Le Trappole Per Turisti


Nei paraggi di Circular Quay c’è il decantato The Rocks, che ti vendono come l’ insediamento dei primi galeotti nel 1788. Posto rifatto, parecchio artefatto, turistico a tutti gli effetti, ma se si vuole portare a casa po’ di Australiana, tra didjeridoo, boomerang e kangaroo, koala e canguri di pelouche, finti dipinti aborigeni, coffe mugs, t-shirts e shopping bags, l’abbondanza, se non la scelta, non manca. Per i più impegnati, può essere un’idea fare un salto al the Rocks Discovery Museum. Un’infarinata poco impegnativa sul come e quando è nata la città.

Darling Point  è stato inaugurato all’inizio degli anni’90, una mega shopping mall in stile californiano, col tempo ampliata da adiacenti proprietà immobiliari, vendute a prezzi esorbitanti; un luogo senz’anima, come tutte le cose nuove o finto vecchie, che però fa la sua inspiegabile figura con i turisti. Tanto vale confessare che la novità aveva attratto anche me, a suo tempo.

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(Shark beach)


La Cultura Aussie-Style


Davanti a The Rocks, il Museo di Arte Contemporanea è forse il mio preferito; dopo una visitina all’esposizione del momento, mi faccio sempre tentare dal loro MCA Store, che di cose carine da portare a casa ne ha tante e molto  meno scontate. Uscendo lato porto, c’è un ristorantino niente male, per un boccone guardando il mare e il via vai dei natanti.

Non mi faccio mai mancare nemmeno l’Art Gallery of New South Wales, un edificio neo classico, emulo del Pantheon e il Partenone. Al piano terra, la collezione di Arte Aborigena vi sorprenderà, vi affascinerà, vi commuoverà.  E se trovate, lungo il vostro cammino esplorativo, una anche piccola Art Gallery privata, magari in Oxford Street, in quel di Paddington, non siate timidi, entrate anche solo per guardare, o per comprare un piccolo pezzo di autentica anima australiana.

The Sydney Living Museums si potrebbe definire un museo diffuso,  con il patrocinio dell’Hystoric Houses Trust of NSW; un gruppo di dodici edifici, eleganti esempi dell’ architettura coloniale, tra cui alcune case private, che include the Mint (la Zecca),  le Hyde Park Barracks e  il Justice and Police Museum. Non è necessario vederle tutte, ma io adoro le case coloniali.


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(Il negozio del MCA) 


I Grandi Classici


Quando a Sydney fai quello che fanno i sydneysiders,  e cioè prenotare uno spettacolo all’Opera House, icona della città,  non importa cosa, varrà la pena comunque, e nell’intervallo mai farsi mancare un drink sulla terrazza, cullati dalla brezza.  

Per i più giovani, e solo per chi non soffre di vertigini, per chi ha le gambe buone e il cuore saldo, l’idea balzana è quella di farsi imbragare per uno SkyWalk  sull’Harbour Bridge. Si cammina in fila indiana sulla cresta del ponte. Non so, forse a trent’anni.


Un po’ di respiro


Il Centennial Park è un luogo del cuore, è il ricordo di lontani ed elaborati picnic, di lunghe e rilassate chiacchierate con gli amici. Un piccolo break per prendere fiato, via dalla pazza folla, anche solo con un sandwich in  solitaria su una panchina. Ma anche, per spezzare la giornata senza andare troppo fuori rotta, qualche idea alternativa, nel caso vi trovaste in zona: il centralissimo Hyde Park, il  pittoresco Trumper Park a Paddington, a memoria della leggenda del Cricket, Victor Trumper; il McKell Park a Darling Point, piccolo e nascosto, per rinfrancarvi lo spirito se siete stanchi di tanto cemento. Non ultimo il Bronte Park, a metà strada,  se vi trovate a fare la spettacolare camminata  lungo la costa tra Bondi e Coogee. Refreshment garantiti, il che non guasta. Quanto sopra è tutto molto anglosassone.

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(The Rocks)


Ricordini Mai Più Senza


Vegimite, estratto di lievito, la versione aussie del Vegimite inglese. A chi piace spalmato su un toast imburrato. Qui ci crescono le creature.

Kangaroo Jerky, carne di canguro essicata. Poteva andare peggio ed essere di coccodrillo.

Luca’s Papaw Ointment, cura tutto, dicono. Dalle punture d’insetto alle bruciature alle labbra screpolate. A base di papaia. Funziona.

Hugg’s Boots, i capi cerati simil Barbour marchiati  Drizabone,  gli stivaletti Bluntstone, marchi diventati famosi anche da noi. Se avete spazio in valigia qui costano meno. Altrimenti, senza andare troppo lontano, li troviamo anche sotto casa nostra,  ormai.


*MANUELA CASSARA’  (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto)


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