In viaggio con Lojska, una volta l'anno

“Pripravi se, danes gremo na pot”: preparati, oggi si va in viaggio, disse la vecchia Lojska al soldo di cacio che le razzolava intorno sempre a piedi nudi. Era estate, e prepararsi voleva dire infilare un paio di sandaletti. Lojska era piccola e sempre nerovestita, ed era stata bionda prima d’incanutirsi. Aveva occhi piccoli e azzurri sempre inquieti, ogni tanto gravi. La figura era svelta e il passo assai veloce nel muoversi tra l’ampia cucina, la riserva, la cantina, la sala da pranzo. E poi c’era l’orto ricco e generoso accanto al vecchio pozzo in pietra, e il grande cortile con gli oleandri le rose le dalie le petunie le begonie le ortensie, e le fucsie e i gerani, tutti assetati d’acqua, preziosa come l’oro in quella parte dell’altopiano.

Nella stalla ci andava poco, a mungere ci pensava la vecchia Ivanka, oppure Laura, la figlia del fattore. Capitava che andasse dai maiali per dar loro scorze di verdure, avanzi dei pasti. Le galline invece erano cosa sua. Con il suo stridulo pio pio le chiamava a raccolta al calar del sole per rinchiuderle nel pollaio, al riparo da volpi e faine. Il venerdì le guardava per bene una per una per decidere quale sarebbe stata la sventurata per il pranzo della domenica. Quella, decideva in cuor suo. Ma quella, il giorno dopo, non si faceva trovare. Era un gioco che si ripeteva, rinnovando ogni volta stupore e ilarità.

Lojska governava quella casa dal primo dopoguerra, quando aveva preso il posto della sorella, morta di spagnola, al fianco di Josip. All’epoca usava. Josip era tornato dalla Russia nel ’20, dopo esserci andato soldato nel ’14. Era stato fatto prigioniero in Galizia, e poi deportato a Omsk, e poi più a nord, in Siberia. Era passato appena un anno dal suo ritorno quand’era rimasto vedovo. Non aveva neanche quarant’anni e tre figli, così un giorno sposò la cognata Lojska, che nel ’16 si era brillantemente diplomata ad Aidussina alla scuola imperial-regia di arti domestiche, si era trasferita nella casa della sorella durante la prigionia di Josip e non aveva ancora marito. Ebbero altri due figli, mentre la casa ritrovava lentamente sé stessa, dopo esser stata adibita ad ospedale di retrovia durante la guerra di trincea che infuriava a pochi chilometri, verso Gorizia, dove gli italiani tentavano di sfondare. Morivano sulle brande allestite nella sala da pranzo, e le salme venivano affastellate sul campo da bocce. Lojska ricordava bene quelle agonie: “Mormoravano solo due parole: mamma, e acqua”.bridge-2427785_960_720jpg

Toccò quindi a Lojska allestire ogni giorno i due grandi tavoli rotondi in cucina, uno per la famiglia l’altro per i lavoranti. Toccò a lei aver cura di quell’uomo alto e robusto, che sovrintendeva alle mietiture, il fieno, i raccolti, le vendemmie, il bestiame. Governava ma non si sporcava le mani, era pur sempre il padrone, un kulako e un notabile del luogo. Talvolta usciva nel pomeriggio con in mano un paio di forbici o un falcetto, andava in vigna a potare con sapienza, in modo che il fogliame lasciasse passare il sole ma proteggesse il grappolo dalla grandine. Tornava sudato e accaldato, si toglieva la camicia e Lojska con gesto lento e accurato gli passava un asciugamano sulla schiena. Ma soprattutto Josip riceveva. La casa era stata trattoria e stazione di posta assai frequentata. Erano in tanti a conservarne memoria e adesso che si era in tempo di pace ci tornavano, su da Trieste, dai paesi intorno e anche da Lubiana e persino da Zagabria.

Josip officiava a capotavola, raccontava della Siberia e della guerra civile russa, e anche della seconda guerra, quand’ era capitato che avesse le SS nel cortile e i partigiani nell’orto. Parlava in sloveno, in triestino, in tedesco, a seconda di chi si sedeva alla sua tavola. Beveva un bicchiere di malvasia, s’informava del destino degli uni e degli altri. Venivano su anche baritoni e tenori del teatro Verdi per lunghe partite di scopone e tressette sui tavoli di marmo di Aurisina, e poi la sera intonavano un “nessun dorma” che zittiva i grilli e andava su in alto nella notte stellata.

Lojska vegliava su questo mondo, ne assicurava le vettovaglie, la pulizia, l’ordine. Discreta e silente, Lojska era ai comandi. Per questo il marmocchio sussultò quando gli disse di prepararsi, non era mai accaduto. Si zittì e si preparò. Era il giorno di Ferragosto, subito dopo il pranzo. I due s’incamminarono lungo la strada bianca senza parlare, non ne avevano l’abitudine. Lojska non era incline ai gesti d’affetto. Gli disse di stargli vicino, ma non lo prese per mano. Dove andiamo? “Da mia sorella”. E così seppe che Lojska aveva una sorella che abitava da quelle parti. Il bambino trotterellava, il sole picchiava, le cicale si sgolavano. Lojska avanzava silenziosa a testa bassa, un fazzoletto nero a protezione della testa. Lui si guardava intorno, oltre il muretto a secco che disegnava la carreggiata. Cercava i ciclamini, che cominciavano a profumare l’aria delle doline e che piacevano così tanto a sua madre. Ne vide tre vicino ad una pietra e si chinò per raccoglierli. “Fermo”, gli intimò la donna con tono secco come una fucilata, e lui si ritrasse interdetto. Lei prese un pezzo di legno e con quello sollevò la pietra, e da sotto strisciò via senza fretta una grossa vipera. “Vedi? Non devi mai mettere le mani sotto le pietre, mai, capito? Quella ti punge e tu sei morto””. Lui guardava affascinato: il movimento così sinuoso, quel colore mai visto, tra il verde e il marrone, e quella sensazione di pericolo, e il tono perentorio di Lojska.

Ripresero a camminare nel sole, e dopo un po’ arrivarono alla grande casa che sorgeva proprio sulla strada. Lì abitava Maria con il marito invalido. Stava su una sedia a rotelle da molti anni, da quando i fascisti erano venuti dalla città e l’avevano bastonato con particolare ferocia. Parlava poco, più che altro ascoltava le chiacchiere delle due sorelle. Stettero lì un paio d’ore. Maria tirò fuori un vecchio album di fotografie, c’era un sacco di gente immortalata sotto un grande tiglio, loro riconoscevano volti e nomi, lui rise alla vista dei larghi cappelli delle signore d’inizio secolo, e il vecchio sulla sedia a rotelle rise con lui.trieste-2517605_960_720jpg

Dopo un paio d’ore si misero sulla strada del ritorno. Qualcuno urlò. Un urlo rauco e disperato. Lojska si fermò e si mise dietro il bambino, le mani sulle sue spalle. Dopo la curva videro un vecchio accasciato sulla ghiaia, le spalle contro le pietre del muro, le mani a protezione del viso insanguinato. Gli stava davanti un giovane robusto che agitava i pugni e gli urlava contro, e ogni tanto gli assestava un calcio. Si bloccò quando vide Lojska con il bambino. Lojska non disse nulla, solo guardava il giovane negli occhi, fino a che l’altro distolse lo sguardo e abbassò infine le braccia. Lui e Lojska rimasero muti e immobili, mentre il vecchio gemeva. Erano padre e figlio, e Lojska lo sapeva, e loro sapevano che lei sapeva. Non c’era bisogno di parole. Qualche anno dopo, quando il bambino si era fatto adolescente, gli spiegarono che certo che no, che i figli non devono mai alzare le mani sui genitori. Ma i padri, da parte loro, non devono mai insidiare le mogli dei figli.

Furono a casa in tempo utile perché Lojska preparasse la cena per tutti. Il “viaggio” era durato in tutto quattro o cinque ore. Era tutto eccitato: gli si addensavano in testa la vipera e il suo strisciare così languido e arrogante, il volto pieno di sangue del vecchio, la violenza di cui per la prima volta aveva annusato l’odore acre. Una giornata memorabile: “Nonna, quando torniamo da tua sorella?”. Le dava del tu e ne approfittava, conscio del fatto che sua madre le desse invece del voi, pur essendone la figlia. Tra un anno giusto, gli rispose. E così seppe che Lojska usciva di casa soltanto una volta l’anno, il pomeriggio del giorno di Ferragosto. Com’era stato stabilito con sua sorella Maria nel ’21, o forse nel ’22, una volta per tutte. Era il suo viaggio, raro e prezioso.  


*GIANNI MARSILLI (nacque sul Carso, a cavallo tra oriente e occidente, e vive tra Trieste e la Francia, a cavallo delle Alpi. Malgrado la scomodità e l'età venerabile non ha intenzione di scendere. Tale schizofrenia non poteva che portarlo al giornalismo, lavoro che ha svolto a Trieste, Milano, Roma, Parigi, Bruxelles e un po' in giro per il mondo, soprattutto europeo. Al momento pensionato inattivo)


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