Imparando a guardare
Per chi come me vive un rapporto complicato con gli istanti di realtà registrati in immagini statiche, con quel rapido dono e miracolo dell’arcano influenzarsi tra luce e materia, l’esistenza di un archivio fotografico unico al mondo per la sua storia e il suo contenuto prende le forme più larghe, addirittura confuse, e stenta a farsi mettere a fuoco appunto a causa di questa mia mancanza. Mancanza non tanto di una sensibilità quanto piuttosto di un’educazione, mi dico: di un’abitudine e attitudine a quell’azione del ‘guardare’ che, come osservava il narratore, critico, poeta, disegnatore e sceneggiatore John Berger, non coincide semplicemente con il ‘vedere’, il percepire con gli occhi senza deciderlo, attraverso i puri sensi, e significa invece soffermare lo sguardo su qualcosa o qualcuno con un’intenzione, un orientamento, una durata, una qualità, in un atto cognitivo e intellettuale.
A certa
mala cultura contribuiscono forse l’uso che si fa oggi delle foto e la facilità
con cui si scattano, da cui la moltitudine di archivi personali sparsi tra i
social: per quanto in misure e con stili e fini diversi, ciascuno di noi
raccoglie in quei luoghi-nonluoghi riproduzioni di immagini di diverso tipo che
ci rappresentino, ci appartengano, ci piacciano, ci raccontino, e le rende
pubbliche decontestualizzandole, il più delle volte, o strumentalizzandole alla
costruzione di una propria identità virtuale (e virtuosa). O forse è qualcosa
che viene prima, qualcosa d’inattuale e sostanziale, a determinare il mio
straniamento: il fatto che la fotografia in quanto istante sia estratta da
qualunque continuità e solo chi la osserva, nell’incontro fiducioso con lei,
osservatore e osservato sullo stesso piano, vi possa leggere una durata estesa al
di là del momento; che insomma quella a cui essa ci esorta sia, come intorno a
un enigma, un’indagine misteriosa e insieme scrupolosa, immaginativa e al
contempo metodica, aperta più che mai e più che mai attenta.
Così mi capita di ripensare a un film e a un romanzo, uno degli anni sessanta del novecento e l’altro dei primi anni zero. Penso al rullino di foto che in Blow-Up di Michelangelo Antonioni il protagonista Thomas ha scattato al parco e che a un certo punto stampa, appende e analizza con quei continui ingrandimenti che gli permettono di colpo di scoprire a poco a poco un uomo nascosto dietro a un cespuglio, armato di una pistola, e poi un cadavere disteso per terra. Penso alla fotografia che origina la storia e l’intreccio in The Photograph di Penelope Lively: un’immagine statica conservata in soffitta tra altre foto di famiglia che all’improvviso, guardata da un marito vedovo in un tempo diverso, diversi l’intenzione e la durata e il sentimento, porta alla scoperta che in quell’immagine la giovane moglie morta teneva stretta la mano di un uomo vicino, conosciuto, e mette quindi in moto una discesa personale e collettiva nell’enigma di una donna che né il marito vedovo né le altre voci con lui provocate sembrano avere davvero conosciuto.
Nell’immenso archivio della Fondazione Alinari, in buona parte anche digitale, si trovano oggi milioni di fotografie. Sono immagini di persone, luoghi, architetture, paesaggi, opere d’arte; sono album di famiglia oppure raccolte d’autore; sono scatti che nel loro prima e nel loro dopo lasciano leggere e immaginare una storia personale e collettiva, ma anche politica, geografica, di costume; sono oggetti anonimi e senza data e altri che portano su di sé il proprio attimo con estrema esattezza; sono cronache, ritratti, provini, illustrazioni, esperimenti, allestimenti, raccolti fin dagli albori di un’arte e di una tecnica che tanto più di fronte a tale ricchezza appaiono contemporanee eppure antichissime.
Confidando che ci possiamo educare, che io per prima possa andare incontro a una nuova abitudine nel ‘guardare’ non solo le immagini in movimento ma anche quelle più arcane che stanno lì ferme, istanti di qualche realtà catturata in un dove e in un quando sempre in bilico e comunque incerti, vedo di colpo quanta vita e scoperte se ne stiano nascoste lì dentro, le tante storie autentiche e sconosciute che avrebbe da narrarci ogni fotografia nell’incontro con lo sguardo di chi l’ha scattata e con il suo istante fermato nel flusso di altri istanti: a ognuno di noi diversamente, da un certo punto di vista, secondo il nostro singolare destino, ma anche con elementi di obiettività e di studio e ricerca, nello spazio che si apre tra quello che essa ci dice e quello che potrebbe dirci.
Di altra
natura rispetto alle immagini della memoria, giacché non si pongono davanti ai
nostri occhi come il residuo di un’esperienza continua e di un passato vissuto,
mentre cerco di metterle a fuoco le fotografie Alinari mi conducono ancora a John
Berger: alla sua idea che se le persone prendessero
su di sé il passato, se il passato non solo proprio ma anche altrui, di una
città, di un paese, del mondo, diventasse parte del processo attraverso cui
ciascuno indaga la propria storia, allora la distinzione fra un uso pubblico e
uso privato della fotografia sarebbe superato e tutte le foto scattate troverebbero
un contesto vivente fatto di una relazione costante e reciproca tra parole,
dialoghi e altre immagini. Perché il guardare avviene nel tempo, ed è nel tempo
che si spiega. Perché solo ciò che narra può portarci a comprendere. E allora l’opportunità
di esplorare nel tempo un archivio fotografico sfaccettato e immenso ci chiede
di non aver paura dei sentieri poco o per niente battuti, di quegli inevitabili
vacillamenti per nuove strade sulle quali si ha da procedere pronti ad
accogliere significati inattesi, a lasciarsi stupire, ad apprendere
dall’esperienza anche quando questa si presenti lontana, chiusa nel segreto imprevedibile
del caso.
*FEDERICA IACOBELLI (Laureata in lettere
classiche e specializzata in giornalismo e in sceneggiatura, lavora scrivendo e
insegnando all’ISIA U. Le sue opere, specie quelle per i lettori più giovani, nascono
spesso dall’incontro con la memoria di vite vere e il linguaggio di arti
diverse. Tra le sue pubblicazioni i romanzi 'La città è una nave' - collana ‘gli anni in tasca’, Topipittori 2011 - e 'Storia di Carla' - collana ‘i chiodi’, Pendragon 2015; i racconti 'Uno studio tutto per sé' (- ottaJunior 2007, Premio Pippi 2008 - e 'Lev della radura' - rueBallu 2020, illustrato da Pia Valentinis; gli
albi 'Mister P' - con Chiara Carrer,
Topipittori 2009 - e 'Giulietta e Federico' con Puck Koper, Camelozampa 2020. Per
Edizioni Primavera dirige la collana ‘i gabbiani’, letteratura teatrale per
giovani lettori)
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