Il viadotto Morandi, un dogma che dedichiamo a San Giorgio

di LAURA GNOCCHI*

Ieri ho versato una lacrimuccia, non la prima, sul ponte Morandi. Anzi sul ponte San Giorgio, come si chiamerà d’ora in poi in barba alla Genova laica.

 Ogni volta che ci passavamo, ed essendo io nata e cresciuta a Santa Margherita Ligure capitava spesso, mio padre diceva: “Oh, figeou, questa è un’opera eccezionale, il primo ponte in calcestruzzo armato d’Europa”. Detto che mio padre era un ingegnere civile laureato proprio con una tesi sui ponti, questa storia del calcestruzzo armato io l’accettavo come un dogma. Non ricordo di avergli mai chiesto cosa significasse e perché fosse così degno di nota.

Cinquant’anni e vari ingegneri scomparsi dopo (il progettista Riccardo Morandi, mio padre…) ho capito che è stato proprio quel dogma a creare un sacco di problemi. Certo le colpe sono sempre degli uomini che non controllano, ma il calcestruzzo armato con il tempo si deteriora. Così quando due anni fa mi ha telefonato mia sorella dicendo: “È crollato il ponte di papà”, ho cominciato a scoprire un sacco di cose. Che si chiamava ponte Morandi, che addirittura i genovesi sempre attenti a non esagerare con lo “sciato”, l’esibizionismo, lo chiamavano il “ponte di Brooklyn”. Sarà. Per noi era e sarà sempre il viadotto della Valpocevera, Forse la Riviera, vicina a Genova ma molto diversa, è troppo lontana da Brooklyn perché gli echi di quel nome arrivassero fin lì.bridge-morandi-3658884_1920 1jpg

(Il ponte Morandi     foto mattiarainieri0 da Pixabay)

Ora si chiamerà San Giorgio. A me risultava che il patrono della città fosse San Giovanni. Così è ma, scopro, San Giorgio è importante perché apparve ai genovesi in una cruciale battaglia contro gli infedeli ai tempi delle Crociate.

Sarà, per la seconda volta. Il ponte nuovo è bello e mi dà una gran fiducia che lo abbia progettato Renzo Piano.  Non perché sia, anche se non guasta, uno dei più grandi architetti del mondo. Ma perché ha una faccia da genovese. Secca, un po’ lunga, capelli un po’ radi, occhiali. Come quella di Alessandro Natta, di Don Andrea Gallo e, mi spingo persino a dire, di Sandro Pertini. Anche mio padre aveva una faccia così, genovese.

Per questo oggi vedendo il Viadotto della Valpocevera, pardon il ponte San Giorgio, ho versato una lacrimuccia.


*LAURA GNOCCHI  (58 anni, giornalista in tanti giornali tra cui Repubblica, dove ho diretto il Venerdì. Ora lavoro in tv con Gad L erner. Una cosa di cui sono orgogliosa: l’idea di intervistare tutti i Partigiani ancora viventi. Lo stiamo facendo, e con l'Anpi abbiamo raccolto i loro racconti in un libro, "Noi partigiani". Una cosa di cui mi vergogno: aver avuto un fidanzato genoano)


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