Il tre settembre e i posti delle fragole

di GIGI SPINA*

Si può viaggiare per oltre un mese e coprire uno spazio di pochi chilometri, come la distanza fra due caselli autostradali. Lo fece Julio Cortázar, con la moglie Carol Dunlop: un viaggio atemporale fra Parigi e Marsiglia senza mai lasciare l’autostrada, gustando la vita inedita delle aree di sosta dove li raggiungevano gli amici a portare loro del cibo.

Si può andare per una decina di anni, quelli dell’adolescenza - la mia - nello stesso posto di villeggiatura, pochi chilometri dalla città dove sono nato, Salerno, per poi cambiare villa e orizzonti estivi. Ma non definitivamente, perché qualche volta ci sono ritornato durante questi ultimi cinquant’anni, finché, quasi seguendo una poetica e romantica composizione ad anello, ormai ci torno ogni anno, il 3 settembre.

Pur essendo nato in una città di mare, ho cominciato a fare i bagni solo a 10 anni, perché pare fossi ‘nervoso’, qualsiasi cosa questo significasse per i medici (e i genitori) di allora. Mi toccarono quindi, per due o tre anni, almeno due settimane con la mia famiglia, padre, madre, sorella, nonno e zia vedova, nel verde del Corpo di Cava, alla pensione Scapolatiello.

Chi ci va oggi (e io ci sono tornato qualche volta) trova un bellissimo Hotel, una struttura moderna, ampia, immersa nel verde, che si affaccia su una piccola valle, con possibilità di passeggiate, a neanche mezz’ora da Salerno e vicinissima alla famosa Badia di Cava, o Abbazia della Santissima Trinità, che conserva pregevoli tesori, codici ecc.

Forse ci andavamo con una macchina presa a nolo, ricordo solo che si arrivava e subito cominciava una piacevole reclusione, quasi con le stesse famiglie ogni anno, quindi primi amori e amici con cui giocare. La figura di rilievo della pensione era lo chef don Alfonso, che mio nonno immortalò di spalle in un quadretto, dentro la veduta più suggestiva con le colline di fronte. Il quadretto è scomparso in uno dei traslochi, ma la foto ne fa fede.

Allo Scapolatiello assaggiai la prima coppa del nonno e presi uno dei miei primi spaventi, per via di una zucca con candela all’interno che i ragazzini del luogo piazzarono davanti al cancello, a tarda sera e che mi ritrovai davanti, all’improvviso, mentre stavo per uscire in strada.

Ma lo Scapolatiello passò presto, perché cominciarono i bagni sui lidi salernitani, accompagnati, per compenso e sempre per via di quel residuo ‘nervoso’, da due o tre settimane ad Acerno, uno dei miei psicotòpi, luoghi dell’anima.

Acerno dista una cinquantina di chilometri da Salerno, ma l’ultimo tratto è tutto curve. Ci si andava in pullman, o con la macchina del padre dell’amico Carlo (sempre lui), che ad Acerno era conosciuto da tutti e aveva un tavolo di tressette intorno al quale si riunivano in molti. Alla quartultima o terzultima mano, si mischiavano già le carte perché si sapeva quali sarebbero state le mosse obbligate.

Le curve per arrivare ad Acerno erano il vero problema; si poteva mangiare poco, adottare tecniche speciali di respirazione, sedersi nei posti davanti, pensare ad altro, tentare di sonnecchiare … nulla da fare. Non serviva neanche notare (ogni volta) che a un certo punto delle curve appariva una collina che prendeva l’aspetto di un capo indiano disteso e addormentato. Niente, il vomito era quasi inevitabile, e al ritorno più che all’andata: salite e discese si alternavano implacabili. Insomma, il primo giorno era segnato da questo scotto da pagare all’inizio della villeggiatura.

Il primo anno prendemmo in affitto un appartamento da una signorina anziana, dall’aspetto e dal cognome indimenticabili. Poi passammo decisamente alla pensione Zi’ Vito, sul corso principale, alloggio e pensione completa, con il vecchio Zi’ Vito, il figlio Pasquale e un cane maestoso che presidiava l’ingresso. Acerno offriva in quegli anni, e almeno fino al terremoto dell’80, una variegata offerta di svaghi: a partire dal circolo sociale Stella, dove a Ferragosto si eleggeva la miss. Un anno fummo assoldati in molti per sostenere la sorella di Carlo. All’inizio del paese c’era il villaggio San Francesco e Santa Croce, con un meraviglioso campo da calcio e un ipotetico campo da tennis. Poi si potevano fare passeggiate nei dintorni, fino a posti incantevoli con corsi d’acqua e rocce, anche a cavallo; oppure salire sulla collina che arrivava circa a 1000 metri (duecento più in alto del paese), attraverso sentieri nei boschi di castagni, con percorsi abbastanza facili, anche se per l’età di uno studente delle medie sembravano escursioni pericolosissime. Tanto che una volta, con due ragazzi più piccoli di me che i genitori mi avevano affidato, arrivammo fino alla radura poco alberata della cima. Lì, al semplice avvistare di uccelli, forse dei piccoli falchi, che volavano in alto a cerchi concentrici, mi prese una paura del diavolo e scendemmo di corsa saltando come stambecchi e ignorando i sentieri.

Ma le passeggiate nel bosco riservavano anche la sorpresa delle prime fragole, quelle piccole e dolci, che poi celebravano il loro trionfo nella ‘fragolata’, il gelato-non-gelato, con fragoline intere e ghiacciate. Oppure si poteva prendere la bici e fare sei chilometri in salita fino al passo Croci di Acerno, dove iniziava la discesa per Montella e la provincia avellinese (lago Laceno compreso). Non era una salita tosta, ma bisognava farcela, soprattutto per rifarla in discesa, spericolatamente, piegandosi nelle curve, fino al paese.

E poi c’era la tribù degli zulù, un’invenzione geniale del professore De Vita, il capo tribù, altro personaggio mitico di Acerno (come il padre di Carlo), che riuniva intorno a sé grandi e piccoli, uomini e donne, per fare passeggiate o giochi vari, purché ogni tanto si dialogasse, rispondendo ai suoi input con rime in -ù. Conservo una foto degli zulù, con il professore che spicca per l’imponente figura e i capelli bianchi, con affianco, sulla sinistra di chi guarda, mio padre con cappellino; riesco ancora a riconoscere qualche fisionomia e ricordare qualche nome. Penso a quanti amori sono nati allora, magari anche fra adulti e non proprio ‘autorizzati’, mentre i ragazzini e le ragazzine ascoltavano la musica o giocavano e facevano prove di innamoramento.

Ad Acerno avevano una villa o almeno un appartamento dignitoso gran parte delle famiglie benestanti di Salerno, per cui ci si ritrovava in un ambiente familiare. Una villeggiatura condivisa e differenziata, dunque, che vedeva però nel cosiddetto Castello dei Sogni, proprietà di un Barone, con una piscina della quale si favoleggiava, il vero discrimine sociale. I ricchi dentro, il ceto medio fuori; poi, certo, c’era anche la colonia montana che ospitava i figli dei dipendenti delle Ferrovie dello Stato, che faceva vita a sé.

In questo intreccio di separazioni, forse solo i più giovani riuscivano a rompere la barriera, nelle grandi occasioni festive, ma con evidenti prezzi psicologici. Tutto questo durò qualche anno, fino quasi alla fine del liceo, quando le vacanze si facevano ancora con tutta la famiglia. Solo l’estate della licenza, se ricordo bene, riuscimmo ad andare per qualche giorno in tre, due maturi e il fratello minore di un maturo, da Zì Vito, in una sola stanza. Ma il ricordo è molto labile, tranne la solita maledizione delle curve che mi provocò addirittura la febbre. La mattina dopo, con una ricchissima colazione, passò tutto e potemmo fare la nostra passeggiata.

Poi, negli anni successivi, qualche gita con gli amici da Salerno, per cominciare ad archiviare ricordi, ormai con una patente in tasca. Il terremoto dell’80 mise fine (per fortuna provvisoria) a questo paradiso di villeggiatura. Il Castello dei Sogni fu seriamente danneggiato, molte case del centro storico riportarono danni ingenti; apparvero i prefabbricati. Ma cambiava anche il mondo della villeggiatura e della vacanza a raggio breve. Molte ville furono vendute, i salernitani cominciarono ben presto a conoscere il mondo oltre confine, chiusero ristoranti, alberghi. Rimaneva la fragolata, l’edicola col nostro amico che da coetaneo invecchiava con noi, le chiese, la piazza con immortali vecchietti, umarell senza cantieri. E rimanevano le curve, ma ormai innocue, anzi fonte di ricordi a gomito, difficili da superare, ma pericolosi se ci rimanevi dentro senza uscirne.

E così, da qualche anno a questa parte, un gruppo di amici delle medie di allora, che con Acerno avevano avuto comunque a che fare, chi con più chi con meno amore, ritorna ad Acerno il 3 settembre, per ricordare il compleanno del padre di Carlo e per rinverdirne il mito con Carlo stesso, noto avvocato e rompiballe, che gli altri cinque, fra cui chi sta scrivendo, scortano nelle strade abbastanza vuote del paese, a ricevere gli omaggi di chi lo riconosce e soprattutto ricorda il padre.

La nuova villeggiatura dura due giorni: all’arrivo, il 3 pomeriggio, dopo la confluenza a Salerno dei villeggianti da Roma e Bologna, ci si insedia al Tartufo, l’unico albergo-ristorante che mantiene alto il vessillo delle estati acernesi (ma pare riaprirà anche il Boschetto, che ricordiamo come particolarmente ricercato, all’inizio del bosco di castagni), poi si va subito a prendere la fragolata, che conserva il sapore dell’epoca, in un bar che qualche volta offre anche la possibilità di giocare a calcio balilla. Si passeggia per un paese a volte insolitamente pieno (dipende dal giorno della settimana in cui cade il 3 settembre), si attende l’ora di cena chiacchierando e ascoltando lamentele o speranze di chi incontriamo. In ogni caso, andiamo a giocare al lotto nella tabaccheria in piazza, con la signora che ci accoglie con un sorriso e si chiede se riusciremo mai a vincere qualcosa. Poi si cena sontuosamente e alle 22 in punto si comincia la tradizionale partita di poker, ricordando un amico che non c’è più. Ci ripromettiamo ogni volta di fare la nottata, ma immancabilmente poco dopo la mezzanotte si va a dormire. Le stanze del Tartufo sono solo per noi e qualche volta, un po’ ingenuamente, ne abbiamo usato la numerazione in sequenza per giocare al lotto!

Il secondo giorno di villeggiatura prevede una ricca colazione, poi il tradizionale dono di Carlo agli amici, un caciocavallo del premiato laboratorio di latticini, a pochi metri dalla chiesa di San Donato, con la consueta contesa se siano meglio le mozzarelle di Aversa o quelle di Battipaglia, e una bottiglia di fragolino, il vero liquore di fragole con fragoline intere, che durerà spesso fino all’anno successivo. Si torna a Salerno (e poi ciascuno nella sua sede) come si tornava dalla vacanza agostana, con un po’ di tristezza e con qualche bel pensiero in più. Le curve si snodano amichevoli, siamo abbastanza invecchiati, anche se non decrepiti.

Il nostro viaggio nella memoria e nel presente aspetta solo di ripetersi anche nel 2020. La villeggiatura del 3 settembre ad Acerno sarà quest’anno un po’ particolare; ma non ci fermeranno!


*GIGI SPINA (Salerno, 1946, è stato professore di Filologia Classica alla università Federico II di Napoli. Pratica jazz e tennis. Gli piace pensare e scrivere, mescolando passato e presente)  


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