Il Tour e il nostro inviato Gianni Mura, l'uomo che ci faceva viaggiare

di GIUSEPPE SMORTO*

Molto comodo: una pagina al giorno era sua. Ed erano racconti di viaggio e bici, di piazze con la giostra, di paesi minuscoli che si vestivano a festa per veder passare il Tour de France, le orchestrine suonavano, i contadini offrivano da bere a tutta la carovana. Gianni Mura era il re dei “suiveur”, unico non francofono a vincere il premio “Blondin”: per ritirarlo non indossò nemmeno la giacca, la foto rimanda una certa allegria. Gianni portava fiori sulla tomba dei poeti, faceva una deviazione per vedere un castello, diceva: “Un buon Tour ha bisogno di un amico che guida e di buoni compagni di viaggio”. Gianni che caricava l’auto di mappe, cartine, cassette e poi cd: non voleva un’auto bella né veloce, ma la chiedeva comoda, per buttare dietro una busta di ciliegie, il giornale locale e quelli italiani quando arrivavano, i pacchi di cartoline da spedire agli amici, i libri, una cassetta di vini, i formaggi. E’ successo che la polizia, o l’organizzazione non ricordo, gli abbia contestato il disordine e le non perfette condizioni dell’auto: quel giorno mostrò il suo lato burbero.


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Visto dalla redazione, era uno spettacolo. Io sono nato dentro una sezione sportiva di fuoriclasse, e per quegli irripetibili colpi di fortuna sono stato caporedattore negli anni più belli: Gianni ritornò al Tour nel ’91, con Repubblica: prima ne aveva fatti sei con la Gazzetta, da inviato ragazzino mandato sulla strada quasi per caso.

Mario Fossati, storico testimone del ciclismo, amico di Coppi, compagno di carte di Bartali, affezionato a una idea di sinistra storica, uomo di libri e di sezioni Pci, decise di chiudere con la Milano-Sanremo vinta quell’anno da Chiappucci. Era stanco, vedeva uno sport trasformato, un Tour dove non correvano più le squadre nazionali ma quelle con il nome dello sponsor. Vedeva nell’infoltimento del calendario la degenerazione e gli affari: per tenere quei ritmi, impossibile restare puliti.


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(Gianni Mura)


Ecco quindi Gianni, emozionato come un bambino, nel suo ritorno al futuro: aveva 46 anni. Le notti magiche erano finite, Repubblica non usciva ancora il lunedì (per la grande frustrazione di Gianni Brera). Da quel 1991 coprì (ma il verbo non rende), raccontò, regalò ventisette edizioni della Grande Boucle. Ne saltò due: una per i Mondiali del ’94 negli Stati Uniti, l’altra nel 2013, per motivi di salute. Posso testimoniare che ne soffrì tantissimo. Negli States, la finale di Pasadena era proprio nei giorni del Tour, il 17 luglio, lui non amava molto l’America, durante quei Mondiali di calcio spese una giornata per andare a trovare in carcere Silvia Baraldini.

Nel 2013 fu fermato dal medico, come si fa con i giocatori, ma non la prese bene. E negli ultimi suoi giorni a Senigallia nel marzo 2020 - nell’ospedale in cui avevano capito, a differenza di una inutilmente rinomata clinica di Milano, che il suo cuore era affaticato – andava alla ricerca di scarpe comode per la Francia: doveva avere dei piedi forti, perché d’estate portava i mocassini senza calze. Aveva sempre caldo, non credo di averlo mai visto con un cappotto, fra l’altro: questo però potrebbe dirlo solo la sua Paola.

Io vorrei ricordare solo l’aria di festa che precedeva il suo Tour, e la cura dei particolari, come dicono oggi gli scienziati del calcio. Scarpe comode allora, giubbetti ma con tante tasche, t-shirt con i maiali, la resa al telefonino ma solo qualche anno dopo, la voglia di riscoprire ogni anno la Francia. Un giorno Baricco scrisse: “Vorrei fare un Tour con lui”. Lui che aveva visto Poulidor versare aceto rosso dentro una vasca d’acqua bollente, che aveva ascoltato Anquetil dire “bisogna saper reggere le ore piccole e il rosso pesante”, che aveva sentito i francesi chiamarci prima “les macaronì” e poi “les Gimondì” cominciò a misurarsi con ciclisti molto più giovani. Secondo i calcoli di Cosimo Cito, seguì in tutto 706 tappe della gara francese, per un totale di oltre 122 mila chilometri. E fanno almeno 800 articoli, ma consideriamo che spesso raddoppiava con le interviste e con le rubriche: una enciclopedia, ma più godereccia. Del resto, diceva, non si va al Tour per dimagrire.


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(Il Col du Tourmalet          foto da pixabay)


Non ho mai avuto bisogno di misurare la sua popolarità: ogni tanto arrivava con lettere scritte a mano, alcune difficili da decifrare: insieme ai complimenti, i lettori gli chiedevano perfino consigli sui ristoranti di Parigi o sui libri da portare in viaggio. Ai tempi di Internet, che lui odiava, considerò molto comodo il tasto reply, gli permetteva di rispondere personalmente e subito agli aficionados, che oggi conservano perle nei loro pc.

Era amato nella carovana anche dai concorrenti, e non vorrei raccontare di nuovo di quando una tv giapponese lo intervistò, perché era rimasto l’ultimo con una macchina da scrivere, e una domanda fu: non crede di dare fastidio agli altri con tutto questo rumore? E lui rispose: sono gli altri che mi danno fastidio con il loro silenzio. Ma la storia sarebbe più lunga, solo che potrebbe scriverla solo lui, e anche per questo ci manca come il primo giorno.

Gianni sul Tour pubblicò un noir, intitolato “Giallo su Giallo”, con molti personaggi veri, primo fra tutti “il” Carletto Pierelli, più amico che autista, grande cultore della mala milanese. Altri, ora possiamo dirlo, stanno nel libro con un altro nome, per via di comportamenti non commendevoli. Per lui il Tour era la scoperta dei girasoli, i luoghi del cuore come il Ventoux maligno e calvo che ammazzò Simpson, gli amati Pirenei, preferiti alle Alpi, e ricordatevi che Tourmalet nel dialetto locale significa brutto passaggio. O posti incredibili come Barcelonnette, ai piedi del Vars, dove cucinano piatti messicani e nella settimana di Ferragosto compaiono i mariachi, effetto di uno scambio commerciale di tessuti a metà dell’Ottocento troppo lungo da raccontare ma dagli effetti buffi, visto che in paese resistono ancora lussuose ville in stile messicano.

E poi, il mangiare e il bere. La mitica Bouillabaisse (zuppa di pesce) e il rifiuto per i crudi, il Cassoulet (carne, fagioli), da prenotare un paio di giorni prima. Per il resto Gianni non prenotava mai. Alessandro Grazioli, che lo ha accompagnato negli ultimi anni, dice che il segreto era far ballare gli occhi, andare per vie laterali, cercare un barbiere o un bistrot, il commissario Maigret era per lui il profeta dello Slow Food. E soprattutto tornare, anno dopo anno, come capita a tutti noi, nei posti in cui era stato bene. Quindi, dalle parti della Francia.

*GIUSEPPE SMORTO (Giornalista, ha iniziato a "Repubblica" oltre quarant'anni fa. È stato caporedattore dello Sport, del "Venerdì", della redazione di Torino, per poi dedicarsi all'online: è stato responsabile e poi direttore di "Repubblica.it". Ha chiuso la sua carriera in redazione come vicedirettore del quotidiano. Ha da poco pubblicato "A Sud del Sud, viaggio dentro la Calabria tra diavoli e resistenti" per Zolfo editore)

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