Il Tour con la radiolina, Nencini lo spavaldo e le cronache di Gino Sala

di GIORGIO OLDRINI*

Per me il Tour all’inizio era una radiolina che mi portavo appresso sui sentieri delle vacanze in montagna, in Val Brembana quando ero un ragazzetto. All’ora della radiocronaca dalla Francia accendevo la mia “transistor” ovunque mi trovassi per seguire le voci dei radiocronisti che raccontavano quel che succedeva sulle strade della corsa gialla. Mi aveva impressionato la descrizione di un giorno in cui “fa così caldo che l’asfalto si scioglie sotto le ruote dei corridori”.


Il mio idolo era Gastone Nencini, un toscanaccio pazzo che in discesa veniva giù a velocità folle. Avevo visto in un bar l’arrivo della tappa del Giro che dal Terminillo scendeva senza requie a Rieti. Naturalmente allora non c’erano telecamere mobili, elicotteri da ripresa, moto che si inserivano tra i corridori. Solo una fissa all’arrivo e la cronaca era affidata alla voce di Adriano De Zan che rimase senza parole quando in fondo al viale dell’arrivo apparvero Nencini e Guido Carlesi, un altro discesista pazzo, che avevano superato persino le moto che di solito precedevano la corsa e che non avevano potuto reggere il ritmo dei due in bicicletta.

Ma il Tour che ho seguito allora con la mia radiolina attaccata all’orecchio era quello del 1960, quando Nencini portò la sua maglia gialla fino a Parigi. In una discesa il povero francese Roger Riviere, che in quel momento era ancora secondo, per tenere le ruote di Gastone finì in una scarpata e si ferì gravemente. Seguii con apprensione il racconto di quel volo drammatico e con ammirazione la decisione finale di Nencini di portare a Riviere, ancora malconcio, i fiori della vittoria a Parigi. Un Tour tutto italiano quello, perché secondo era arrivato Graziano Battistini, gregario di lusso di Gastone, e le montagne erano state il regno di Imerio Massignan, scalatore puro che non sfigurava nemmeno contro il mitico Charly Gaul.

Poi dopo anni il Tour, anzi il ciclismo, per me era stato Gino Sala, il giornalista dell’Unità che era un maestro. Prima per me era il verbo come lettore, poi, quando sono andato a lavorare alla cronaca di Milano del giornale fondato da Gramsci, stavo nell’ufficio a fianco a quello di Sala, ero diventato un giovane collega di “Ginetto”. Piccolo e magro, una eterna sigaretta all’angolo della bocca, su e giù per le scale fino al bar a bere litri di caffè, Sala coltivava con attenzione ed ironia la sua fama di menagramo. Come spesso capita, da appassionato di ciclismo, snobbava il calcio. Ma i “genovesi” che all’Unità di Milano erano tanti e tutti tifosi della Sampdoria, in occasione dei derby col Genoa andavano in processione da Ginetto e gli facevano qualche regalo perché usasse i suoi poteri a favore dei blucerchiati. O almeno contro i rivali. Lui sogghignava “Avete paura eh? Perché un ligure regali qualcosa vuol dire che di paura ne avete”. 

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(Gastone Nencini    di Harry Pot - Nationaal Archief)


Il massimo della sua fama lo aveva raggiunto un pomeriggio quando tutti noi eravamo nel salone della redazione sportiva, l’unica, a parte l’ufficio del direttore, che avesse il privilegio di avere un televisore. C’era una importante partita di calcio, ma Ginetto stava scrivendo un pezzo di ciclismo e fingeva di essere contrariato. L’arbitro fischiò un rigore e tutti ci avvicinammo alla tv ansiosi: “Tranquilli, tanto tira sul palo” sentenziò lui. E lo guardammo con ammirazione e timore quando effettivamente la palla finì sul “legno”.

Sala conosceva tutti i ciclisti, uno per uno, e aveva una predilezione speciale per i gregari, quelli che faticano per i grandi capitani e nessuno se li fila. Raccontava sull’Unità le loro storie, di ciclisti, ma prima ancora di ragazzi e di uomini, delle loro famiglie, dei paesi da cui provenivano e spesso della miseria che cercavano di lasciare dietro quella bicicletta da corsa che poteva essere il loro riscatto.  

Le sue partenze per il Tour erano un rito. L’autista dell’auto del giornale prima era Russo, un omone con baffi da Gengis Khan che aveva guidato anche i camion che la notte portavano l’Unità in varie regioni. Poi il compito passò ad Enzo Quotino, che Sala apprezzava molto perché era l’organizzazione fatta uomo. Guidava con dolcezza, al punto che Ginetto scriveva i suoi pezzi con la macchina Olivetti mentre l’altro conduceva la vettura dell’Unità su e giù per montagne e valli. Così all’arrivo Sala era il primo a dettare al giornale il suo pezzo. Ma Quotino faceva molto altro. Appiccicava l’altimetria della tappa sul vetro a fianco di Ginetto, che così sapeva sempre dove si trovava in quel momento e quale salita o discesa stesse arrivando, gli organizzava ogni cosa, risolveva i mille problemi che in quei giri e in quell’epoca erano all’ordine del giorno.

Naturalmente non c’erano computer e telefonini e tutto era affidato alla creatività. Qualche tempo prima della partenza del Tour, non appena se ne conosceva il percorso, Ginetto scendeva in archivio dove una compagna archivista con la passione della pittura a mano disegnava su fogli speciali per il giornale e per Sala tutta la corsa e le tappe, una per una. Un lavoro al limite dell’arte. Con qualche imprevisto, come quando Ginetto le aveva portato a disegnare il percorso del Tour e anche quello “de L’ Avenir”, la corsa gialla riservata ai giovani. E la compagna, bravissima con matite e pennelli, meno col francese, gli mostrò orgogliosa la sua pregevole opera su due fogli. Sul primo il titolo: “Il tracciato del Tour”. Sul secondo “Il Tour dell’anno prossimo”. Pare che a Ginetto in quella occasione sia caduta dalle labbra la proverbiale sigaretta.



*GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)

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