Il pellegrinaggio a Mauthausen

di GIORGIO OLDRINI*

Liliana Segre dice spesso che lei è stata deportata in un lager per la colpa di essere nata, ma che ci sono stati molti che sono finiti in un campo di concentramento perché avevano deciso di lottare contro il nazifascismo. Io sono figlio di una città che ha avuto quasi 600 deportati, e quasi 300 morti, tutti perché avevano scioperato contro tedeschi e fascisti o perché avevano deciso di lottare, a volte armi in pugno, per un’Italia libera. Sesto San Giovanni era la città delle grandi fabbriche, la Breda con 24 mila dipendenti, la Falck, 12 mila, la Ercole Marelli, 8 mila, la Magneti Marelli 5 mila, più altre aziende per noi minori, ma che in qualsiasi altra parte sarebbero state grandi.

Nel marzo del 1943 molti sono scesi in sciopero, poi ancora nel novembre, ma è stato nel marzo del 1944 che i grandi scioperi che hanno bloccato l’Italia del Nord sono iniziati proprio qui. E ogni volta operai e operaie, impiegati e tecnici, venivano rastrellati la notte e deportati, spesso dopo giorni di torture. Tra questi mio padre, Abramo, operaio comunista della Breda, che si salvò e io sono nato dopo 9 mesi e qualche giorno dal suo ritorno.

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(Il forno crematorio di Mauthausen)

Solo il coronavirus ha interrotto una tradizione della città, il pellegrinaggio che ogni anno, organizzato dall’Aned e dalla Associazione Ventimilaleghe e fino a tre anni fa con l’appoggio della Amministrazione comunale, facevamo a maggio ai campi, nell’anniversario della liberazione di Mauthausen. Varie corriere con gli ex deportati, fino a quando ci sono stati, i loro figli, i rappresentanti di alcune associazioni e soprattutto ogni volta decine di ragazze e ragazzi delle scuole superiori con i loro insegnanti.

Si partiva il venerdì mattina presto per arrivare a Linz nel tardo pomeriggio. Ma nel viaggio si spiegavano ai ragazzi i motivi di quel pellegrinaggio, si raccontavano le persone che lì erano state deportate e che spesso vi erano morte.

Il sabato mattina la prima tappa era il castello di Harteim, dove già prima della guerra venivano rinchiusi ed assassinati i portatori di handicap fisici o mentali tedeschi ed austriaci. Poi ci sono finiti i prigionieri del Reich, morti probabilmente dopo essere stati sottoposti a esperimenti. Per me è il grumo più assillante. Perché quelli della mia generazione hanno sempre pensato che la violenza fosse bestiale e che la cultura ci avrebbe liberati dalla disumanità. Invece ad Harteim si tocca con mano che coloro che hanno costruito questa orrenda macchina erano persone colte. Certo, tutti sappiamo che i nazisti amavano Wagner e la letteratura. Ma lì i medici diventavano assassini e nei piani superiori è stato realizzato un museo sull’handicap nel quale tra l’altro si leggono i compiti che venivano dati a scuola ai bambini tedeschi di allora: calcolate quanto costa mantenere un incapacitato al giorno. Moltiplicatelo per 365 giorni e scrivete quale è il costo per lo stato in un anno. Se non spendessimo il necessario per mantenere un “una vita non degna” quante scuole potremmo realizzare? Un sistema perfidamente intelligente di costruire il consenso. E una eco, lontana certo, ma inquietante, di quello che si sente oggi quando si discute se è giusto vaccinare un anziano.

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(Il sottocampo di Gusen nel 1945   foto US National Archives and Records Administration)


Per noi la visita ad Harteim ha sempre avuto una emozione in più. Perché lì è morto Renato Cardesi, un operaio della Breda di Sesto che amava suonare il violino. E a pochi chilometri, nella marcia della morte che nelle ultime settimane della guerra spostò migliaia di deportati dai campi ad est ormai raggiunti dall’Armata Rossa a Mauthausen, è stato assassinato Guido Valota, anche lui operaio con la passione del violino. La mattina del sabato nel cortile di Harteim suona Mariela Valota, nipote di Guido e straordinaria violinista. Difficile non piangere pensando che le note di Mariela arrivano a Renato e a suo nonno Guido.

Il pomeriggio di sabato andavamo a Gusen, sottocampo di Mauthausen, conosciuto come “il cimitero degli italiani”. Qui, tra gli altri sono morti 97 sestesi. Noi abbiamo messo in tutti i campi una lapide con i nomi dei nostri concittadini che vi sono stati assassinati. Il poeta cubano Roberto Fernandez Retamar ha scritto “se qualcuno è morto per la mia libertà voglio conoscere il suo nome e il suo cognome”. La lapide con l’elenco dei morti di Sesto San Giovanni a Gusen è più lunga di quelle di intere nazioni. E’ rimasto poco del campo, il forno crematorio salvato dalle associazioni di deportati e un museo, ma tutto attorno sono sorte villette, alcune delle quali con macabro affaccio sul forno.Smoke from the crematorium oven over Hartheim castle 1942 Dokumentationsstelle Hartheimjpg

(Il fumo dal forno crematorio del castello di Harteim)

La domenica mattina è il momento della cerimonia internazionale a Mauthausen. Gli italiani sono spesso la delegazione più numerosa. Ogni delegazione porta sei corone ai monumenti delle varie nazioni, sparse sul grande prato tra la scala della morte e l’entrata al campo. Quel luogo è il metro delle convulsioni della storia di questo dopoguerra. C’è il monumento della Germania Democratica, quello della Cecoslovacchia, quello della Jugoslavia, tutte nazioni che non esistono più. Poi il monumento agli omosessuali, ai rom, ai bambini assassinati in quel luogo.

Si scende la terribile scala della morte che porta alla cava dalla quale i prigionieri dovevano riportare su per centinaia di metri grosse pietre risalendo scalini sconnessi e spesso ghiacciati. Quando qualcuno, stremato, cadeva, trascinava con sé quelli che lo seguivano in un macabro domino.

Alle 10 tutti davanti al proprio monumento, noi ovviamente a quello italiano per le cerimonie nazionali. Lì si vede la nostra particolarità. I monumenti delle altre nazioni sono belli o brutti, ma ordinati, il nostro è un lunghissimo muro su cui varie città, qualche regione, molte famiglie hanno attaccato di propria iniziativa lapidi, foto, ricordi. Così come nel corteo che fino a tre anni fa si snodava per entrare alle 11 nel lager gli italiani erano subito individuabili. Le altre delegazioni nazionali vanno dietro la loro bandiera. Noi, ciascuno segue il gonfalone della sua città, della sua regione, della sua associazione. Quando si arriva alla fine della sfilata si depongono fiori e lo speaker annuncia “La delegazione della Francia, la delegazione della Russia, la delegazione dell’Inghilterra”. Poi arriviamo noi “la delegazione di Firenze, quella di Sesto San Giovanni, quella di Milano, quella di Empoli…”himmler 1941 a mauthausen Bundesarchiv_Bild_192-308_KZ-Mauthausen_Himmlervisitejpg

(Himmler a Mauthausen nel 1941    foto Bundesarchiv) 

Quel corteo colorato, affettuoso, con persone di ogni parte del mondo che ti si stringono accanto è un momento liberatorio, dopo la tensione che si prova a vivere Harteim, Gusen, la scala della morte, il monumento ai bambini assassinati. E’ come un rito collettivo di  purificazione, come trovare nel calore di chi è arrivato fino a lì un momento di fratellanza. Come se lì dove è stato raggiunto uno dei punti più tremendi della disumanità si ritrovassero le ragioni della umanità.

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(I prigionieri trasportano pietre)

Finita la manifestazione il lager si svuota rapidamente. Rimanevamo noi sestesi e pochi altri. Per una visita approfondita con una guida d’eccezione, Peppino Valota, figlio di Guido, e soprattutto un uomo che ha dedicato la sua vita a ricostruire, documentare la deportazione. Con lui si percorre il cammino che hanno fatto centinaia di migliaia di deportati, tra i quali decine di sestesi. “Qui venivano spogliati o spogliate, qui venivano rasati anche nelle parti intime, qui c’erano le docce”. Un momento di una emozione profonda è quando si entra nella camera a gas. Superare quella piccola porta di ferro, entrare in un locale sotto il livello stradale, guardare le finte docce da cui usciva il gas, immaginare che proprio lì dove tu sei fermo sono morte orrendamente tante persone è sconvolgente. Hai l’istinto di uscire subito, di cercare aria. Poi i forni crematori, l’enorme cimitero, un campo sotto il quale nessuno sa bene chi ci sia e di quanti siano le ceneri accatastate.

Il ritorno a Linz avviene nel silenzio e la bellezza dei luoghi, la natura verde, il grande Danubio, i passanti che si muovono naturalmente sembrano del tutto inconciliabili con quello che per anni è avvenuto lì.

Nemmeno quest’anno potremo tornare ai campi. Per me, per molti di noi un dolore profondo, ma anche per decine di ragazze e ragazzi una esperienza negata.


*GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)

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