Il Paradiso di Spoerri, quel giardino magico all'ombra dell'Amiata
di MATILDE PASSA *
Il Veggente stanco, nascosto fra i tronchi, quasi in fuga da quel che è costretto a vedere, vuole forse ripararsi dal mondo chiudendo gli occhi e facendoci vagare con lui in cerca di diversi spazi? E come mai sono quasi giocose quelle 160 oche che corrono, ignare del tremendo Dies irae evocato dai tamburi silenziosi di tre giganteschi mostri di ferro? E cosa legge e cosa cuce la Lettrice sarta, intenta a compiere simultaneamente due azioni inconciliabili?
Nulla è
ciò che dovrebbe essere nel Giardino di Daniel Spoerri, tutto appare
rovesciarsi nel suo contrario, oppure lanciarsi verso spazi interiori ignoti e
inquietanti; ma non è la meraviglia "il fin" di questo poeta della visione.
Piuttosto è il turbamento, è l’Hic Terminus haeret, il nome scelto dalla
Fondazione che alcuni traducono con «Qui aderiscono i confini», oppure «qui si incontrano i territori», un verso dell’Eneide di Virgilio eletto a rimescolare la
percezione della realtà. A svelarcene un’altra. A dirci che non c’è confine tra
bene e male, tra uomo e natura, tra bello e brutto.
(foto Stefania Chinzari)
Nei suoi sedici ettari distesi sul versante occidentale del Monte Amiata, nel Comune di Seggiano, dove i fitti boschi di faggi cedono il passo agli equiseti, agli ulivi, alle querce, ai castagni, dove larghi spazi erbosi si alternano a fitte boscaglie, quello che era il podere “Paradiso” non cessa di arricchirsi di opere create da artisti che condividono il mondo visionario del fondatore. Oltre un centinaio sono le istallazioni create da Spoerri e da più di cinquanta artisti, ma ogni anno si aggiungono nuove opere, tanto che ogniqualvolta ci torno ne scopro di diverse o di mai osservate. Si nascondono tra i rami, i cespugli, appaiono improvvise a sbarrarci il passo, a trasformare una piccola, serena, radura in uno spaesamento. Due mani intrecciate spuntano da un cespuglio, giganti costruiti con vecchi tritacarne si alzano imponenti, la carcassa di un aereo si intravede nel verde, un lungo murales rievoca le Ultime cene di donne diversamente famose: Cleopatra, Ildegarda di Bingen, Maria Antonietta… Opprimenti bunker e seducenti alberi i cui rami sono delicate figure femminili, manichini disarticolati o stagni nei quali annaspano soldati morenti. Ma a volte sfuggono, si perdono nella vegetazione. E quando torno a casa e consulto la guida completa mi accorgo di averne “perse” almeno una ventina.
(foto Stefania Chinzari)
Perché qui è facile perdersi, forse è quasi opportuno, persino voluto, visto che le istruzioni per la visita sono generiche e non ci sono segnali a guidare i nostri passi, come se il “giro” debba essere legato al caso, a quello che si vuole vedere e a quello che, inconsciamente, non vogliamo contemplare. Certo, grandi emozioni ci colgono quando si entra nella “stanza” che riproduce quella dell’hotel Carcassonne dove l’artista viveva e creava a Parigi, l’epoca nella quale le sue opere erano prevalentemente collage di piatti sporchi, avanzi di cibo, quella che aveva battezzato eat art. Il piano inclinato è una chiara citazione dell’analoga stanza della villa di Bomarzo, luogo che ispirò l’artista, ma siamo ben lontani dalle atmosfere giocose della villa manierista, qui alla vertigine si unisce l’angoscia, gli oggetti sembrano caderci addosso, la perdita dell’equilibrio è accentuata dalla mancanza del tetto, gli alberi sopra di noi un luogo nel quale riparare.
(foto Stefania Chinzari)
Il mondo inquieto che abita le opere di Daniel Spoerri, così come il desiderio di fondere natura e creazione umana per giungere a visioni quasi mistiche, possono anche ricondursi a episodi della sua vita, al suo rapporto con il padre, ebreo convertito al cristianesimo e missionario luterano, ucciso in un pogrom nel 1942. Un padre severo e inflessibile, che spalancava un cielo forse privo di misericordia. Il giovane Daniel si rifugia nell’arte. Cittadino del mondo, nato in Romania, vissuto in Germania, Francia, Austria, Svizzera, Italia, oggi, a 92 anni, l’artista che aveva cominciato come danzatore e dichiarava morta l’arte “da cavalletto”, amico di Man Ray e Roland Topor, è tornato in Austria da dove continua a guidare la Fondazione che ogni anno arricchisce il giardino con nuove sorprese.Che non sono limitate a suggestive istallazioni ma scaturiscono anche da ricercate trappole di visione.
(foto Stefania Chinzari)
In alto, sulla collina, si staglia nel cielo un cerchio creato da lunghi fucili, forse baionette, chissà perché chiamano quell’opera L’ombelico del mondo mi chiedo, come se la guerra fosse all’origine di tutte le cose, anche se certamente è una presenza fondante delle pessime relazioni umane. Arrivati in cima, mentre lo sguardo dilaga sull’infinito, scopriamo che non sono fucili ma unicorni a delimitare il cerchio di pietra, quasi uno spazio sacro, un luogo di pace e di contemplazione. Lo stesso che ci accoglie nel Divano d’erba, dove la natura ci prende davvero tra le braccia. Per arrivare al Labirinto di pietra nel vasto prato dove il modello classico italiano si sposa a un disegno precolombiano che rappresenta l’unione della terra e della luna. Non è un labirinto chiuso, con siepi o muri alti, piuttosto è un tracciato dove non ci si può perdere ma forse ritrovare.
(foto Stefania Chinzari)
E mentre osservo la mia amica che lo percorre con calma e serena determinazione tornando e ritornando sui suoi passi, mi siedo su una panchina, assorbita dalla pace del paesaggio, quando noto una signora che da un piccolo osservatorio contempla il labirinto. Ci sono altre persone ai piedi della scala che aspettano di salire. Con il Covid è necessario mantenere le distanze, si sa. Passa il tempo e la signora non si muove; comincio a rimuginare tra me e me: «Ma guarda che cafona, potrebbe lasciare lo spazio anche agli altri». Poi addirittura vedo che ai piedi delle scale c’è il classico nastro bianco e rosso che vieta l’accesso. Peggio, mi infurio.«Adesso vado a protestare con la direzione del Parco, ma ti pare modo?». Il cervello ruzzola dietro le sue rabbie. Insomma, ci ho messo un po’ a capire che, ovviamente, la signora, anzi il signore, come ho poi scoperto, era una statua. Potere disturbante dell’arte quando ci svela aspetti di noi stessi che non vediamo così chiaramente. Nel mio caso quella tendenza a dover rispettare tutte, ma proprio tutte, le regole. Quasi una prigione legalitaria che mi ha inseguito per tutta la vita. Grazie Daniel Spoerri!
*MATILDE PASSA (Sono nata nell’antica Albalonga, madre di Roma, ora Albano Laziale. Ho cominciato giovanissima all’Unità, dove ho attraversato la cronaca, la cultura, mi sono occupata di Beni culturali, musica classica, cinema, religione curando una pagina dedicata al tema. Il successivo approdo è stata l’Accademia di Santa Cecilia, ufficio stampa, tempio di delizie musicali e incontri speciali. Ora ho scelto un buen retiro in Toscana)
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