Il mosaico di Anversa, diamanti e Art-Nouveau

di GIULIA GIGANTE* 

Anversa, antica città anseatica, ha mille facce. Dinamica, viva e multiforme, è formata da una miriade di tasselli diversi che insieme concorrono a formare il mosaico di un posto che non assomiglia a nessun altro al mondo. Anzitutto, che non ci si azzardi a chiamarla “Anvers” con il toponimo francese che l’italiano ricalca. Qui siamo in zona fiamminga e si parla fiammingo o neerlandese (che poi è la stessa cosa) e, se non si è capaci – vista la difficoltà e gutturalità dell’idioma –, almeno, per favore, in inglese. La città si chiama quindi Antwerpen, un nome che, secondo una leggenda che risale al XV secolo, fa riferimento alla mano (hand) di un gigante locale, tagliata e gettata via (werpen=gettare) nella Schelda dal soldato romano Silvio Brabone. La fosca vicenda è ricordata da una statua che fa bella mostra di sé sul Grote Markt (l’antica piazza del mercato) e viene riproposta in versione edulcorata dalle “manine di Anversa”, specialità locale in cioccolato la cui bontà fa dimenticare l’aspetto macabro delle praline.

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(foto di Giulia Gigante)

Chi ha la ventura di capitare da queste parti nella giornata del sabato e di camminare nel quartiere alle spalle della stazione, che per inciso è uno degli edifici più spettacolari della città e, con la sua cupola in ferro e vetro in puro stile Art Nouveau, è considerata una delle cinque più belle stazioni del mondo, non può non provare un senso di estraniamento. Il sabato, infatti, le strade di quel quartiere (una vera e propria “città nella città”) brulicano di persone che sembrano provenire da un’altra epoca: uomini con lunghi cappotti neri, con i caratteristici copricapi tubolari (gli schtreimel) di pelo (anche in piena estate) e lunghe barbe e donne che sembrano uscite dalle pagine di un libro di storia, con il capo rigorosamente coperto da una parrucca corvina, circondate da frotte di ragazzi e bambini anche loro in nero con lunghi cernecchi ballonzolanti. Sono i membri di una nutrita comunità di ebrei ortodossi (circa 18000), le cui origini risalgono al Medioevo, che vivono una sorta di vita parallela, seguendo regole antiche, frequentando sinagoghe (ce ne sono più di venti) e scuole ebraiche, parlando yiddish e mangiando kosher, e il sabato celebrano lo Shabbat. La loro presenza è strettamente collegata con il taglio e il commercio dei diamanti, che sin dal Cinquecento (epoca in cui Anversa ne deteneva il monopolio) costituiscono una delle prerogative della città. Nel quartiere della stazione sono numerosissime le botteghe - tutte rigorosamente chiuse di sabato - che vendono diamanti di ogni foggia e grandezza.

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(foto di Giulia Gigante)

La Schelda, il fiume lungo il quale è distesa la città, termina in un grande estuario nel mare del Nord ed è proprio lì che è stato costruito il porto, il più grande in Europa dopo quello di Rotterdam. Pur non affacciando direttamente sul mare, Anversa è una città prettamente marittima, intrisa dell’odore salmastro che arriva trasportato dal vento e animata dallo spirito della gente di mare. È una città aperta, in cui il grigio del cielo non riesce a limitare l’orizzonte e in cui forte è il richiamo di altre terre lontane.

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(foto di Giulia Gigante)

Ai margini dell’immenso porto si trova un edificio in mattoni rossi, sede storica della compagnia navale Red Star Line che, con le sue potenti navi, copriva il tragitto Anversa-New York. Ed è proprio lì che cinque anni fa è stato inaugurato il Red Star Line Museum, un innovativo museo dell’emigrazione, che ricostruisce le storie degli uomini, delle donne e dei bambini che, aggrappati alle valigie di cartone, alle ceste e ai bauli carichi di masserizie, si lasciavano alle spalle il vecchio continente per andare incontro a un destino ignoto. Provenivano dalla Russia, dalla Polonia, dalla Germania, dall’Italia, dall’impero austro-ungarico o dalle sue ceneri e li accomunava la speranza mista alla paura. Giungevano ad Anversa già stremati da un viaggio in treno durato giorni, settimane, a volte mesi, spinti dalla fame e dalla miseria, ma anche dal sogno di una vita nuova.

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(foto di Giulia Gigante)

Anversa pullula di musei; quasi tutti si concentrano in un quartiere attiguo a quello del centro storico propriamente detto. Oltre ai musei con collezioni d’arte di tipo classico (magnifico il museo Mayer van den Bergh) e il museo dell’arte della stampa e della tipografia, Plantin-Moretus, riconosciuto patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, ci sono musei per tutti i gusti. Tra i più interessanti il Mas (museo della storia della città), il FoMu (museo della fotografia), il museo del diamante (naturalmente) e il MoMu (museo della moda). Sì, perché Anversa è anche un centro di grande creatività per il design e la moda. I suoi stilisti creano tendenze e sono apprezzati ovunque per la loro originalità

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(foto di Giulia Gigante)

Si potrebbe continuare a lungo a parlare della ricchezza del patrimonio artistico e architettonico di Anversa, ma non è questo l’obiettivo dell’articolo che non intende minimamente sostituirsi a una guida turistica (ce ne sono di ottime), ma piuttosto suggerire spunti per la scoperta di qualcuna delle mille sfaccettature della patria di Rubens. Per concludere voglio quindi parlarvi di una zona formata da tre strade che si intersecano formando uno degli angoli più suggestivi della città, stranamente ignorato da quasi tutti i baedeker e che invece da solo merita un viaggio in queste contrade. Nella parte meridionale del quartiere residenziale di Zurenborg il viale Cogels-Osylei e le limitrofe Transvaalstraat e Waterloostraat sono caratterizzati da una successione di edifici in stile Liberty, risalenti tutti all’inizio del secolo scorso e un tempo residenze della borghesia cittadina.

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(foto di Giulia Gigante)

 Nell’Ottocento qui si estendeva una grande tenuta agricola di proprietà del barone Cogels-Osylei, ma nell’epoca in cui l’Art-Nouveau raggiunse la massima diffusione (tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento), nobili e borghesi si affidarono agli architetti più in voga per farsi costruire qui le loro case. Il Liberty vero e proprio si mescola con elementi art-déco, reminiscenze classiche e gotiche e un po’ di eclettismo e il risultato è di grande fascino: giardini romantici, balconcini in ferro battuto, decorazioni con motivi floreali o del mondo animale, giochi di luci e di colori. Nelle tre strade aleggia un’atmosfera del tutto particolare, eleganza e stravaganza si fondono in un insieme armonico e originale, di grande bellezza. Rari i passanti, nessun turista, se non ci fossero le automobili parcheggiate si potrebbe pensare, per qualche attimo, di vivere  nella Bella Époque.

*GIULIA GIGANTE (nata a Napoli, vive attualmente a Bruxelles, ama andare alla ricerca di nuovi mari, venti e conchiglie, di altri modi di vivere e di pensare, di tracce di passati remoti e recenti. Conosce dieci lingue, ma a tutte preferisce il russo ed è convinta, con Dostoevskij, che “la bellezza salverà il mondo”)

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