Il Carnevale torinese, e le dolci bugie di zia Isolina

di ANDREA ALOI*

(foto d'apertura:  Piazza Vittorio affollata per Carnevale, anni Cinquanta © Archivio Storico della Città di Torino)


A Torino, al quinto piano di piazza Cesare Augusto, nei preistorici Carnevali de mi vida, la zia Isolina friggeva le “bugie”, che erano sfoglia dolce a racchiudere la marmellata (ciliegie, albicocche), una sorta di raviolone cosparso di zucchero dopo la cottura. Comfort food bello caldo, ideale per la nordica metropoli che a febbraio dava il meglio quanto a nevischi, nebbie disperate di smog ovattato, freddo siberiano degno di un capitolo di “Arcipelago Gulag”. Unica avvertenza: la pasta del raviolone si freddava facilmente, al contrario del ripieno che restava incandescente per un bel po’, di qui ustioni per i voraci fantozziani. 

Ma il clou della piccola ripresa festaiola dopo Natale non stava nelle dolci bugie, era un altro: piazza Vittorio, con le sue giostre o, familiarmente dette, baracconi. Dai sette anni ai dodici, più o meno, ovvero dal ’57 al ’63, ne ho fruito avidamente, disperatamente. E l’attesa astinente di quei giorni deragliati dai binari della città-fabbrica e del casa-scuola-casa lucidava il desiderio. I baracconi di piazza Vittorio (nome completo piazza Vittorio Veneto, a celebrare la vittoria sugli austro-ungarici nella prima guerra mondiale, in origine una piazza d’armi) venivano e andavano, mica come le Varesine a Milano, memorabile luna park stanziale ora macinato dalla nuova città dei grattacieli.


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(Torino, il Carnevale a piazza Vittorio     foto da Pinterest di Anna Maria Gambetta)

Piazza Vittorio in giostra era un’occasione rara, cambiava d’abito una volta all’anno per ritornare in fretta al suo lavoro da grande quinta subalpina di 31 mila metri quadri, tra la direttissima di via Po con piazza Castello, il grande fiume col ponte Vittorio Emanuele I e la chiesa della Gran Madre (di Dio, Mater Dei). Per raccontare pure lei una bugia, trasformarsi. Fare rumori che non erano lo sferragliare del tram ma dell’ottovolante. Un luogo dove - capita in ogni Carnevale che si rispetti e non serve riandare all’Alberto Sordi nelle scene finali del ballo nei “Vitelloni” felliniani - l’effimero e il travestirsi e il “divertirsi” sono qualche volta fragile paravento della tristezza più desolata. E Torino è città magica dello spleen, non c’è ruota panoramica che tenga.





Ragionandoci, era ben curioso che la militare piazza Vittorio potesse diventare un luogo dato al pubblico spasso. A ogni modo di quella storia, in qualità di bambino in servizio permanente ed effettivo, sapevo niente. Corredata da ottovolante, tirassegni, pesche miracolose, autoscontri, micronavicelle spaziali che andavano in tondo per esplorazioni cosmiche ben sopra i tre metri d’altezza, era seduttiva in modo saliente per giovinastri in branco e spesso di margine, conducenti vite a zigzag, non raramente pronti a menar le mani. Cosa è cambiato? Nulla. Fossero adolescenti ben nati o figli di emigrati, vedevano nel Carnevale e nel luogo in cui si concentrava, il momento magico per una confusa battuta di caccia alle sorvegliate coetanee dell’epoca, nella speranza di incrociarne una miracolosamente disposta alla pomiciata corsara nel tunnel dei fantasmi. 

Non inferiore la magnetica attrazione della piazza su legioni di bambini ancora capaci di ebete stupore davanti all’odoroso zucchero filato, le luci multicolori nel prematuro buio d’inverno, le musiche da fiera, il flusso ininterrotto, sconnesso di gente, le voci fesse vagamente pederastiche degli imbonitori alla cassa dell'autoscontro, lo sferragliare dell’ottovolante in salita (freddo metallico nei rigori del pomeriggio avanzato, odore di grafite), la sua caduta verticale. Un che di elettrico nell’aria, di meccanica elementare, residui da prima industrializzazione. Oggi i modi per strapazzare sensi e stomaci si sono evoluti nella complessità non nei principi (scendere, salire, roteare, urtare, sbalordire), e il senso delle giostre è sempre quello, stordirsi un po’, rimbalzare tra paura addomesticata sul marchingegno e felice ritorno a terra dopo la piccola peripezia.


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(Foto da Pinterest di Paolo Colombo)

Nell'immenso quadrilatero scorreva una vena malinconica e avida da periferia di qualcosa come nelle foto in bianco e nero di Doisneau. Eppure scoppiavano gioie quando sparando col fucile a tappo i più piccoli abbattevano certi waferetti detti mignin e bottigliette colorate che oggi verrebbero sequestrate dai Nas con immediata fucilazione dei ricettatori-giostrai. Naturalmente i wafer d’incertissima origine e le bottigliette (giallo canarino carico e rosso porporino, per una festa della chimica alimentare border line) risultando vinti venivano consumati in loco leccandosi i baffi sotto l'occhio compiaciuto dei genitori. Se si era in vena di prelibatezze vere e non di troiai, meglio puntare il banco-furgone illuminato a festa che sfoggiava l’insegna della Sebaste di Gallo d’Alba, sinonimo per i piemontardi di torrone con nocciole, ai tempi nell’unica versione possibile, candido e duro come marmo, retrogusto di miele. Lo stesso mattone oblungo bardato d’ostia che nei fine pranzi di Natale e Capodanno veniva scalpellato dagli uomini di casa, tra schegge e lesioni della tovaglia.

C'erano anche le famose gabbie basculanti, aggeggioni su cui maschi ormai puberi, generalmente a coppie, disperdevano ormoni spingendo furiosi, piegando le ginocchia e oscillando avanti e indietro finchè la gabbia, assicurata all'asse con un braccio simile alle vecchie trivelle texane per l'estrazione del petrolio, raggiungeva, in capo a discrete sudate, la sommità, lo zenit rispetto al nadir di partenza a livello del suolo, e precipitava, dopo un istante di esitazione equilibristica, a completare il giro in senso orario o antiorario. Un orgasmo rotatorio. La giostra delle gabbie basculanti era preclusa alle ragazze con gonna, cioé a tutte le ragazze, perché negli anni Cinquanta-primi anni Sessanta le donne non portavano i pantaloni. La vista di cosce e mutande, inderogabile a gabbia in precipizio, avrebbe provocato tumulti, ressa, l'intervento della Celere e di almeno un paio di esorcisti.

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(Foto da Me Piemont)

Stavo a guardare i gabbioni a bocca semiaperta, non in età per la basculata. E senza poter sfoggiare il mio cinturone con pistola Colt perché imperava un gelo da ritirata del Don e avevo il cappotto, così il cinturone non era abbastanza lungo da circumnavigarlo. Tenevo l'armamentario sotto il paltò spigato oscenamente corto ma mi distinguevo ugualmente con la stella dorata da sceriffo appuntata sul bavero invece smisurato, un assurdo risultato d'insieme inevitabile essendo quello pseudo-pastrano appartenuto al frate mio maggiore di quattro anni, cui era servito da giaccone. L'insieme stella-cappottello sarebbe stato al limite passabile non avessi calcato sopra al berretto a spicchi con visierina e copriorecchie di lanetta l'orrido cappello da sceriffo in cartonazzo marrone bordato oro provvisto sul davanti di un altro fregio a cinque punte. Ne risultavo, con quel copricapo ulteriore a cupola alta incavata nel mezzo e perdipiù poggiato sul berretto, un piccolo coglione geneticamente imbarazzato, travisato (male) da impotente tutore della legge nelle terre di Lucignolo.

Mario, il mio fratello più contiguo per età fungeva sovente da accompagnatore ufficiale in piazza Vittorio e un pomeriggio di sabato mi iniziò all’autoscontro. C’era ressa da giornata allora solo semifestiva, discreto il passeggio di fatine con cono caudato in testa, principesse, zorri, immancabili sceriffi, qualche volto con mascherina o coperto da maschere facciali (Topolino, Biancaneve) con due piccoli fori per gli occhi da cui non si vedeva un’acca e basta così, era ancora un’epoca di relativa penuria consumistica. 


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(Foto da La Stampa)


Non fu una buona idea far salire senza precise raccomandazioni su una di quelle vasche da bagno scivolanti corredate da salvabordi in gomma nera un pischellino di sette anni, ignaro e stordito come un indigeno dell’Amazzonia davanti a una orchestra sinfonica. E quel paletto dietro il vettore, poi, che prendeva elettricità dalla griglia soprastante la pista, tra fruscii e fulminetti. Estasi. Impaziente di cominciare alla guida dell’automobilina la scorreria su pista, dimentico per un secondo del suo magnifico istinto di protezione, Mario infilò il gettone nell'apposita fessura e via. Tempo dieci secondi e una coppia di ragazzini ci prese di mira per lo scontro di prammatica, impatto frontale, il peggiore, perfetto per una botta secca di mento in avanti sul “cruscotto”. Seguì dolore assurdo e nessuna lacrima, mi limitai a piangere dentro dissimulando frustrazione e vergogna. Prima lezione: tenersi stretti a qualcosa, a qualcuno anche quando ci si diverte.

I miei avevano frequentato piazza Vittorio nel primo dopoguerra (i baracconi erano stati allestiti lì per la prima volta nel ’46, l’ultima sarà 40 anni dopo), lo so perché su un album di casa c'era la foto di papà che sparava col fucile a piombini riservato agli adulti e faceva centro, con accanto mia mamma che, tutta assorta, si teneva coi denti il labbro superiore. Carnevale. Mangiavo le bugie fritte da zia Isolina, mi piaceva lanciare le stelle filanti, alcuni predestinati riuscivano a srotolarle col soffio, mi piaceva l'odore dei coriandoli e forse mi piace ancora nonostante una lontana domenica mattina di fine febbraio. La piazza era quasi deserta, i baracconi in disarmo o chiusi e girava solo una giostra di quelle all'antica, coi cavalli che ridevano a froge dilatate e facevano su e giù con un palo in mezzo per reggersi. Mi teneva la mano uno zio in visita in città e consideravo con una punticina di malumore quell’aria di smobilitazione. Un attimo appena. Quando la giostra si fermò, puntai il cavallo che più mi piaceva e ci montai su.

 

*ANDREA ALOI (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro) 

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