I ponti sulla Neva / 1

di ARTURO CIOFFI *

A mezzanotte si alzarono i ponti sulla Neva, come in una sequenza al rallentatore. Erano mossi da ingranaggi nascosti che producevano uno sferragliare sordo e vibrazioni inquietanti che si propagavano sulle pesanti lastre di ghisa che costituivano il fondo stradale.

Passò una lancia della Marina in avanscoperta. Poi, nella scura corrente orlata di ghiaccio per tre quarti dell’alveo, arrivò maestosa una flottiglia di imbarcazioni di ogni forma e dimensione. A Kronstadt avevano salutato il Baltico ed ora puntavano la prua verso il lago Ladoga e poi, chissà, un altro fiume, il lago Onega e ancora su, fino al Mar Bianco ed alla gelida Arkangelovsk.

Che rottura di cazzo questi ponti! Tecnologia dello scorso secolo, anzi dell’altro ancora, roba già festeggiata col Gran Ballo Excelsior e noi qui a bocca aperta a guardare un miracolo che si ripete con monotonia ogni santa notte nelle stagioni del disgelo. A considerare modernissimo il secolare Picasso visto all’Ermitage, e Mahler, e la fisica quantistica, e Freud, che era compagno d’asilo di Francesco Giuseppe! E’ proprio vero, come dice quel giapponese, Yokohama, no, Fukuyama:  la Storia è finita e noi facciamo: “Oooh!”

comunisti a Mosca anni Sessantajpg

(Mosca, anni Settanta           foto di Arturo Cioffi)

Questo era, più o meno, il tenore dei miei pensieri in quella notte di vigilia, di attesa dell’Evento. Quale evento, lo capirete poi. Diedi l’ultimo sorso alla bottiglia di vodka Russkij Standardt e la lanciai sulla crosta di ghiaccio. Non si sentì nemmeno il rumore. Mia moglie disapprovò. Erano in nostra compagnia due impiegati in viaggio di nozze. Nemmeno provarono a finire il loro mezzo litro, una Stolichnaya, credo. Il novello sposo euforico gridò “Alla Corazzata Potemkin!”, lanciando la bottiglia semipiena, come alla cerimonia di un varo, verso un battello che passava sotto l’arcata  più bassa. Per nostra e sua fortuna mancò il bersaglio ed il proiettile si infranse tra i denti di un delfino di ghisa che fungeva da frangiflutti alla base del pilone. Questa volta si ribellò anche la sottomessa agnella in viaggio di nozze.

Le donne credono in un mondo migliore, sono ecologhe, filogenetiche, custodi della vita. Mandano vaglia postali ad Amnesty, Pozzi per l’Africa, Emergency, ti riempiono la veranda di sacchetti per la raccolta differenziata, non colgono stelle alpine, ma topinambùr [1]. Almeno fino a quando si sentono competitive. Poi, con le calze arrotolate al ginocchio, bigodini in testa e liquorino dolce in pugno, si scaccolano il naso indifferenti davanti al duplice crollo in diretta delle Twin Towers, in sovrappiù alzando il bicchierino di Mirto Zedda & Piras come in un blasfemo brindisi talebano.

Questi atti da teppistello, questi pensieri e sovrappensieri erano indegni dell’algida bellezza di San Pietroburgo, poco consoni al nostro profilo professionale, ed infine irrispettosi verso l’Azienda, che con gesto munifico e lungimirante qui ci aveva radunato in Convention, all’ombra dell’Ermitage. Ma era più forte di noi trasgredire.

san Pietroburgojpg

(san Pietroburgo)

Trent’anni prima a terra non avremmo buttato una cicca. Primo: per rispetto. Secondo: per non vedercela raccogliere da qualcuno. Ricordo ancora un ferroviere di Prato ad una sosta dell’interminabile viaggio tra Kiev e Leningrado. Il treno si era fermato in aperta campagna. Il compagno di Prato era sceso, attonito, abbagliato dall’infinita distesa di fiori rosso cardinale. Poi si era inginocchiato e aveva baciato il Socialismo, che calpestava per la prima volta. Dal treno allora era sceso un altro ferroviere, questa volta russo e in servizio. Si era rivolto al collega toscano col tono di voce che hanno i russi nei film, quando sono doppiati. Nessuno dei presenti conosceva la lingua ma tutti capimmo che aveva detto: “Compagno, che cazzo fai?” Nessuno comprese però che la gustosa scenetta si inquadrava già in quel grandioso avvitamento storico che avrebbe portato Leningrado a chiamarsi ancora San Pietroburgo, come nella grande letteratura russa dell’ottocento. Ora non resta che chiamare Roma Vatican City.  Noi non capimmo. Come potremmo capire ora?

Noi, che avevamo visto le notti bianche negli anni ’70. Noi che eravamo saliti sull’incrociatore Aurora alla fonda davanti alla cupola dell’Ammiragliato ed avevamo abbracciato il Veterano che ne era custode e che, ventenne recluta della Flotta del Baltico, aveva sparato le prime cannonate contro il Palazzo d’Inverno. Noi che avevamo visitato la Stazione di Finlandia, dove Lenin aveva recitato la scena madre di Ottobre di Eisenstein. Noi che avevamo ascoltato sull’attenti, davanti alle fosse comuni di centinaia di migliaia di caduti civili e militari dell’Assedio dei 900 Giorni, l’intera sinfonia “Leningrado” di Shostakovic. Noi eravamo delusi.

Delusi dalle limousine stracolme di mafiosi e fichette da sbarco, dei gorilla con kalashnikov davanti ad ogni locale di un certo livello, dai professori d’orchestra che sbarcavano il lunario nei café-bar intonando “Oh my darling Clementine” o qualunque cosa tu chiedessi, anche i jingle della pubblicità. Delusi. Ma il peggio doveva ancora arrivare.


(1 - continua)

leggi la seconda puntata

* ARTURO CIOFFI  (Longevo Consulente Finanziario, nasce nel 1944 sul fronte della Quinta Armata nel Sannio ma mezzo napoletano e poi mezzo veronese nell'era ginnasiale. Mancato professore in lingue morte, approda nella finanza laica della Banca Commerciale. Completa il profilo diventando pure mezzo slavo, attratto dagli eccessi terribili e meravigliosi di quella cultura. Tra nuvole e numeri, scrive per rinfrescare l'ortografia)



[1]  Helianthus Tuberosus, pianta selvatica il cui tubero ha il

  sapore del cuore di carciofo. Un must degli alternativi

  degli anni ’70 poi crollato nei consumi per le orribili

  flatulenze che provocava.



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