I left my heart in Leros, fra pescatori di polpi e torri d'ascolto

testo e foto di LUIGI EPOMICENO* 
(immagine di apertura da pixabay)

I lettori più stagionati ricorderanno che Tony Bennet lasciò il suo cuore a San Francisco.

Io a “SanFran” ci sono stato, ma il cuore me lo sono sempre riportato, per lasciarlo invece in un’isola delle Sporadi meridionali, da noi “italianizzata.”

Erroneamente, siamo usi identificare il colonialismo italiano con la presenza (per non dire conquista) della Somalia, Etiopia, Eritrea e Libia. In realtà inizia qualche anno prima con la spartizione della torta mondiale tra chi, all’epoca, contava di più, Francia, Olanda, Inghilterra, e chi di meno. Al giro di boa del ventesimo secolo, per noi ambire al controllo delle isole delle Sporadi meridionali, per l’occasione rinominate Dodecaneso, era ritenuta una grande conquista.

Il Regno d’Italia comprendeva (alcune) Isole dell’Egeo!

Solo pochi anni dopo scoppiò la prima delle guerre mondiali.

Tra le dodici isole (da cui il nome) del Dodecaneso, alcune sono più note di altre, per motivi diversi. Patmos fu dove San Giovanni ebbe l’ispirazione per la sua Apocalisse. A Rodi si insediarono vari ordini di Templari. A Kos gli Ottomani costruirono una fortezza magnifica, ancora in piedi. A Castelorizo Salvatores si è divertito a fare un film. A Leros gli Italiani hanno lasciato traccia di abilità costruttiva.

Lo spirito del colonialismo nostrano pretendeva di portare civiltà là dove era evidente un’arretratezza relativa. Leros, in pieno periodo fascista, divenne un’importante base della Marina Militare, inizialmente seconda a Rodi, ma poi sede della Marina nell’Egeo. Basta guardare una veduta dall’alto dell’isola per capire il perché.


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(Il grande porto naturale di Leros)

Quando nel 2001 con mia moglie scesi dal vecchio traghetto della GaN Ferries, una nave di almeno 50 anni, una di quelle che nonostante i trenta strati di vernice hanno bolle di ruggine ovunque come il manto di un cane dalmata, notai un vecchietto, forse di una settantina di anni, che camminava lungo la banchina trascinando un filo da pesca. Capii subito che cercava polpi usando la tecnica della zampa di gallina.

Nonostante i progressi della scienza, non si sa perché alla vista di una zampa di gallina i polpi si avvinghiano attorno ad essa come due amanti dopo mesi di lontananza. Eppure lo fanno!

Incuriosito mi fermai per vedere il risultato dei suoi sforzi. Nel secchiello due piccoli polpi, forse di 2-300 grammi ciascuno, già eviscerati e pronti per essere essiccati al sole. (In Grecia si preferisce la gommosità del tentacolo alla brace alla tenerezza del polpo alla Luciana!)

“Benvenuti in Grecia!” mi disse quasi sotto voce, cercando di nascondere dietro di sè il filo da pesca. “Non si può pescare nel porto” continuò a dirci.

“Parlate italiano?” gli chiesi.

“Qui molti parlano italiano.” “Siamo molto grati agli italiani, per quello che hanno fatto. Quando sono andati via è iniziata la rovina.”

Vista l’età del pescatore di frodo (si fa per dire) pensai che stessi parlando con un collaborazionista dell’epoca. Ansiosi di cercare dove alloggiare, salutammo il signore senza nome e partimmo in sella della moto.

Già a pochi metri dalla banchina notai i primi edifici che costeggiavano la zona portuale. Era ancora buio quando arrivammo e non notai invece l’ampiezza della baia in cui la nave aveva attraccato.

Una serie di palazzine in evidente stile italiano neo-rinascimento, tipico dei villini di due o tre piani degli anni ’30. Poco dopo entrammo nella cittadina del porto, Lakkì, ed era come entrare nel centro di Sabaudia, a pochi chilometri da Roma.

Iniziavo a dare un senso alle parole del pescatore di polpi.

Il giorno dopo, e durante le numerose visite fatte all’isola negli anni successivi, nonché quest’estate, sono andato alla ricerca di quella “civiltà” che negli anni gli italiani hanno portato a Leros e di cui non solo il vecchietto incontrato al nostro arrivo ma tanti altri avevano nostalgia.

Da piccolo, mio nonno raccontava di alcuni episodi vissuti durante la Guerra. Parlava di quando era in Grecia, in Africa (suppongo in Libia) e in Francia. Prestava servizio nel Battaglione San Marco della Marina Militare, quelli che poi sono diventati i Marò.

Immagino che il primo giorno del servizio militare (successe anche a me, quando ero a Macomer) l’ufficiale di turno destinasse le reclute in base ai propri mestieri. E così i falegnami e muratori andavano di qua, i barbieri di là e così via. Scaltro come era, mio nonno rispose che era cuoco, nascondendo la sua grande abilità di scalpellino, di cui la Marina non sapeva cosa farsene. Ecco perché i suoi racconti riguardavano la gamella e non le trincee.

Con questo in mente, ogni mia visita a Leros in realtà è stato un fantasioso tentativo di trovare traccia di mio nonno, come se fossi certo del suo transito per l’isola.

Ed è molto probabile che ci sia passato, vista l’importanza che l’isola ebbe non solo nella politica coloniale ma anche durante la Seconda Guerra Mondiale.

La presenza italiana è visibile dalle numerose costruzioni di cui l’isola è tappezzata. Non solo militari ma anche civili.

A causa di un inizio di otite, fummo costretti a recarci presso l’ospedale civile, un magnifico edificio neo-rinascimento con pavimenti in graniglia, soffitti di sei metri, porte vetrate in perfette condizioni di manutenzione (la visita risale a circa 15 anni fa, non posso confermare se oggi si trova nelle stesse condizioni) e di cui i medici, che hanno studiato in Italia, si vantavano.

Nella cittadina di Agia Marina si trova l’edificio della Regia Dogana, che con il suo porticato si differenzia dalle solite palazzine anonime dei porti. Nei dintorni, altri edifici di stampo nostrano si distinguono da quelli di mano ellenica, e si ha la sensazione di passeggiare per qualche vicoletto di Nafplio, nel Peloponneso, costruita sotto l’influenza di Venezia.

La sede del Comune nella piazzetta centrale di Platanos è altra testimonianza della maestria architettonica degli occupanti italici dello scorso secolo. E non dimentichiamo i numerosi villini con giardino sorti sulle dolci colline a ridosso della zona portuale. Già il piccolo edificio in pietra che ospita il Bar, dinanzi all’ingresso del piccolo aeroporto, vi anticipa ciò che qua e là troverete.

La vera chicca però è poco conosciuta e ancor meno accessibile.

Sul Monte Patella si trova uno dei due Muri di Ascolto presenti in tutto il Mediterraneo, costruiti dalla Marina Militare.

Il secondo si trova in Sicilia, a Messina, in località San Placido di Calonerò.

Si tratta di una costruzione con tre semicerchi di 120 gradi, posizionati per captare le onde sonore degli aerei ad elica. Il precursore del radar.

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(Targa commemorativa del Muro di Ascolto di Leros)


Il Monte Patella è posizionato all’imbocco del porto, che a sua volta è tra i più grandi porti naturali del Mediterraneo, da cui si vedono non solo le isole circostanti ma anche la vicina costa della Turchia. Considerando la presenza dei militari italiani, delle navi, delle caserme e degli arsenali, l’isola andava ben protetta e da qui, con il Muro, si poteva vedere e sentire l’arrivo del nemico.

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(Immagini del Muro di Ascolto di Leros. Nella trincea l’addetto ascoltava il rimbalzo delle onde sonore)


Vent’anni dopo il mio primo sbarco sull’isola ho avuto la forza di salire fino in cima al Monte per trovare i resti sia del Muro che degli adiacenti edifici costruiti negli anni del nostro colonialismo. A prima vista sembrano anonime scatole di cemento armato con grandi finestre con inferriate. Del resto una caserma non deve essere bella ma funzionale.

Entrando però si cambia parere, e vedendo le pitture murali che qualche soldato deve aver realizzato in fase di costruzione ci si rende conto che il pensiero dell’epoca era che se bisognava stare in una caserma, a circa 300 metri di altezza sul mare e a 2-3000 km da casa tanto valeva unire il bello al funzionale.

Con questo spirito il nostro colonialismo non poteva essere che effimero.

Lo stato di abbandono degli edifici non ha reso possibile calarsi nella Storia, ammesso che chi non li ha vissuti possa rivivere momenti di guerra. Tuttavia le parti alte delle pareti erano ancora intatte e le pitture sbiadite rimaste risultano come i disegni nelle caverne delle popolazioni preistoriche.

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(Immagini degli ambienti interni degli edifici militari)

 

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NOI TIREREMO DRITTO” Iscrizione all’interno di uno degli edifici militari sul Monte Patella)

 

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(Scorcio di Monte Patella. In alto a destra il Muro di Ascolto)


Alcuni mattoni delle pavimentazioni testimoniano il gusto nella scelta anche dei materiali. Immagino che il mobilio fosse anche esso di grande stile, coloniale. 

Il tempo scorre e sappiamo come sono andati i fatti. Dopo la battaglia aerea con l’aviazione tedesca del ’43 e il dominio di questa sulle forze italiane in loco, il colonialismo dell’Italia venne a terminare. Molti degli edifici costruiti sono stati, e lo sono tutt’ora, abbandonati, non per un voluto rifiuto verso ciò che ha rappresentato distruzione e morte bensì per la mancanza di risorse economiche necessarie. Molti altri riconvertiti.


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(AUGUST 1944 (?) Ingresso di uno dei tunnel che sbocca dove presumibilmente era posizionato un cannoncino anti-aereo)


Leros non è un’attrazione mondana internazionale, ma un santuario di pace dove trascorrere quelle che chiamo vacanze terapeutiche. Tralascio le ovvie considerazioni sulle sue acque.

Gli italiani che arrivano a Leros (e non sono pochi!) non sono gli stessi che la “conquistarono.” La “civiltà” che portano è molto diversa, ma nonostante tutto la genuinità del posto permane come se ci fosse una naturale resistenza al cambiamento.

Sentite questa.

A Lakkì (che oltre ad essere stata costruita ad immagine e somiglianza di Sabaudia è detta anche PortoLago, in onore del Governatore Lago ivi insediatosi dal 1926) vi è una trattoria, divenuta un must da quando è stata costruita una marina in grado di accogliere decine e decine di yacht e natanti di ogni genere.

Leros infatti è molto conosciuta dagli amanti di barche ed è sulla rotta di chi noleggia i tipici 35 piedi per le vacanze.

Non ricordo l’anno esatto, forse il 2006, io e mia moglie eravamo a tavola in questa trattoria, allora meno frequentata di oggi. La specialità era ed è la carne: manzo, agnello, capra, coniglio e maiale. Il giorno prima concordammo che avrebbe fatto, solo per noi, un maialino con le patate al forno, una prelibatezza che richiedeva 6 ore di cottura a fuoco lento. Il maialino era del suo allevamento.

A fine pasto (inutile dirvi com’era il maialino) stavamo scambiando due parole in italiano con il proprietario quando arrivò una donna di mezza età, elegante ed abbronzata: abbronzatura da barca. Voleva prenotare un tavolo per una decina di persone.

“Mi dispiace, non ho posto. E’ tutto pieno,” replicò il gestore.

“Capisco, ma stiamo parlando di un parlamentare italiano che gradirebbe molto venire qui con i suoi ospiti” aggiunse l’ambasciatrice del VIP. “Una persona importante.”

“Anche io capisco, ma non c’è posto.” E riprendemmo il discorso interrotto.

Questa estate ho notato che quella che era una trattoria è diventata un ristorante. Lui era lì e continua a sfornare maialini (e non solo).

I tavoli erano tutti pieni. 

*LUIGI EPOMICENO (Nato nel 1957. Sono mezzo americano e mezzo italiano, pugliese di origine, forse greco di stirpe, romano di adozione, con soste prolungate a Firenze, Milano, Genova, Chicago e Londra e continue a Parigi, Marsiglia, Madrid, New York, Amsterdam, Eindhoven, Dusseldorf, Monaco di Baviera, Praga, Amburgo, Bruxelles e Lisbona. Ho girato tutta la Grecia, l’Albania, la Francia, la Spagna, la Turchia e gli USA e ho messo piede in tanti altri posti che neanche ricordo, da Seul a Iguazù, dal Canada al Marocco passando per le isole Lofoten. Ora sono in un altro mondo. Un mondo nel Mondo. Da quasi un anno e mezzo sono il Direttore Generale del Bioparco di Roma. Prima ho fatto tante altre cose. Alcune divertenti, altre meno)


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