Gorla, 20 ottobre 1944: "Così quel giorno mi salvai dalla strage dei bambini".

di ALESSANDRA GIORDANO

Il 20 ottobre 1944 splende un sole bellissimo e incosciente sopra Milano. Un sole che rende nitidi i bersagli. Quel giorno tutta la città sarà martoriata dai bombardamenti, e si conteranno più di 600 vittime, ma la strage più straziante avviene nella zona di Gorla, dove alle 11.29 una bomba colpisce la scuola elementare “Francesco Crispi”, fermando la vita di 184 bambini, delle loro insegnanti e del personale in servizio quella tragica mattina.

Si tratta di una missione degli alleati, nello specifico della XV Air Force, che quel giorno avrebbe operato su diversi obiettivi in Europa. A Milano era previsto l’attacco dei Group 484°, 451° e 461° rispettivamente sulle fabbriche Alfa Romeo, Breda e Isotta Fraschini. Una serie di guasti tecnici ed errori umani del 451° Bomb Group, inizialmente in rotta verso la Breda, è la causa di quello sganciamento sulla scuola, che colpisce  bambini, maestre e bidelli mentre percorrono le scale che portano al rifugio sotterraneo.


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(La scuola elementare di Gorla dopo le bombe. Foto di anonimo da L'illustrazione italiana del 29 ottobre 1944)


Sarà lo stesso colonnello Stefonowich, a capo del 49° Wing da cui dipendeva il 451°, a dichiarare la missione un fallimento “per scarsa capacità di giudizio e scadente lavoro di squadra”. (*)

Il piccolo allarme suona alle 11.14 e, solo dieci minuti dopo, il grande. Da lì alle prime bombe solo 5 minuti, un tempo estremamente e inspiegabilmente breve. I bombardieri del 451° sono partiti da Foggia all’alba, al comando del colonnello James B. Knapp. A seguito dei problemi tecnici e degli errori di manovra, i 36 aerei, considerata fallita la missione, tornano sulla rotta per l’aeroporto di Castelluccio dei Sauri, ma devono liberarsi delle bombe ormai già innescate. 35 di loro lo faranno sulla via del ritorno sopra le campagne e il mare, ma Knapp le sgancia sul centro abitato.


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(Il monumento ai piccoli martiri)


La scuola di Gorla è distrutta, e con quella centinaia di famiglie. I bambini sopravvissuti, comprensibilmente dato il peso emotivo, riportano ricordi a volte dissonanti tra loro e gravati dagli esiti di un’esperienza che tocca anche i giorni subito successivi: alcuni vivono un senso di colpa per essere sopravvissuti, altri il pensiero di essersi salvati perché hanno bigiato; la perdita di tutti gli amici coetanei, la partecipazione a funerali quotidiani, la terribile paura ad ogni nuovo allarme segnano i loro giorni.

Nel corso di questi 77 anni molti hanno raccontato. Mai Marisa Valla, oggi 87enne, ancora residente a Milano ma lontano da Gorla. L’avevano cercata subito, i giornalisti, ma il padre aveva protetto la bambina. Poi, nessuna parola per tutto questo tempo. Marisa sente ancora vivo il ricordo di quel 20 ottobre lontano. E oggi ha il desiderio di parlare. Abbiamo raccolto la sua testimonianza e ricostruito la storia di lei bambina in quelle ore.

(*) La citazione e le informazioni tecniche sono tratte dal capitolo “Gorla” del libro “Bombe sulla città” di Achille Rastelli, Mursia 2000



IL RACCONTO


“Via, via! Andatevene! Ma non lo capite che è solo una bambina? Lasciatela in pace, lei non può parlare, non deve parlare, deve solo tornare a giocare, come fate a non capirlo?”

Lodovico è un omone grande, imponente. Piglio autoritario, ma uomo buono. Era stato in Africa, ma si era fatto togliere tutti i denti per poter rimpatriare. E aveva sposato Anella, una donnina minuta che della guerra avrebbe voluto potersi disinteressare, se solo fosse stato possibile non averla attorno e in testa, ogni giorno. A lei interessavano i vestiti belli e le cose delicate, la casa pulita e la tranquillità della vita in famiglia.

Lodovico non perdeva facilmente la pazienza, ma quel pomeriggio, davanti al gruppo di giornalisti e curiosi corsi davanti alla sua casa, la sua voce si era fatta grido e quasi insulto, lui così educato sempre. La sua bambina, la piccola Marisa, andava protetta. Quello che le era appena accaduto, e quel che avrebbe dovuto sopportare nei giorni a venire, erano già abbastanza per lasciare un segno per sempre.

Il 20 ottobre 1944, intorno alle undici e un quarto, Anella è a casa, suo marito nell’orto, e Marisa a scuola. Marisa ha dieci anni, frequenta la quinta elementare. È abituata agli allarmi aerei, ma quando suona quello “piccolo” lei è esonerata dall’andare nel rifugio sotterraneo con i compagni e la maestra: la terrorizza l’idea che quei grossi tubi pieni d’acqua che corrono lungo le pareti dello scantinato possano esplodere e farla morire annegata. Una paura ingiustificata ma impossibile da superare. Dunque ha ottenuto autorizzazione affinché la mamma, sentito lo stesso avviso, vada a prenderla e la porti con sé a casa, lì vicino, dove si ripareranno insieme all’arrivo dell’allarme “grande”.

Ma la madre, quel giorno, non sente alcun allarme.


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Gli aerei passano. Da uno di questi cade improvviso l’orrore su quella scuola. Marisa corre per le scale, dove accompagnati dalla maestra Giovanna (Giovanna Luzi Magnolfi) tutti i bambini scendono per raggiungere il rifugio. Marisa quel rifugio non lo vuole vedere: i grossi tubi le fanno paura; nota il portone aperto dell’edificio, restituisce in fretta alla maestra la borsa che le era stata affidata e fugge, sola, da lì. Subito all’esterno c’è Gaetano (Gaetano Farina), l’amico che abita sotto casa sua, anche lui di quinta. Marisa gli grida “Vieni con me!” Ma Gaetano rifiuta: vuole aspettare il fratellino, Mario. È piccolo, fa la prima, ha solo 6 anni.

La bambina corre via. Dietro di sé la scuola è crollata. La bomba è caduta nel vano scale. Tutti i bambini, tutti i suoi compagni di classe, non hanno potuto raggiungere il rifugio. La loro vita si è fermata là.

Marisa ancora non lo sa, continua a correre verso casa, ma una bomba piomba là nel prato e lei per lo spostamento d’aria cade a terra. Mentre un signore in divisa (un pompiere? un soldato?) l’aiuta a sollevarsi, sua madre sta correndo verso la scuola, ché troppi suoni di guerra l’avevano raggiunta a casa, e la sua bambina ha paura dei tubi dell’acqua, deve andare da lei. Vede il marito in strada, che torna dai campi. Una bomba è caduta anche là, lui si è salvato. “Va’ dalla puteina!”– la bambina nel dialetto emiliano, sua terra d’origine – “che io non mi son fatto niente!”. Anella lo ascolta, corre. Ha anche lei appena schivato un’altra bomba, rimasta inesplosa, ma la sua casa ora ha una parete in meno. Bombe, bombe. Incontra una signora che l’avvisa: Marisa sta venendo a casa! È uscita! Ma non le crede, non si può essere certi, Io vado a scuola, voglio vedere, dice la madre nell’affanno della paura. Anella raggiunge la scuola, o meglio quel che ne resta. Macerie, lamenti, la borsa della maestra. La signora incontrata poco prima la raggiunge e finalmente la convince: Vai a casa, ti dico, che l’ho vista io la tua bambina correre fuori dalla scuola!”.



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Una corsa indietro, verso casa, il terrore negli occhi per quello che ha visto, la speranza unica cosa che le dà ancora un po’ di fiato. E la vede. “Non fosse andata davanti a scuola avrebbe potuto solo immaginare – dice oggi Marisa -  Ma è andata. Ha visto”. Non suo marito, che ha solo saputo, ma ancora non può immaginare quanto orrore.

Un padre, una madre, una figlia. E tre bombe delle centinaia di quel maledetto giorno. Per loro, per fortuna, tre bombe schivate.  Nel silenzio di chi ancora non si rende conto di essere vivo, lo sguardo dei tre quella sera sale alla casa senza parete, e agli artificieri al lavoro, prima di tornare sui propri passi per strada, verso la mensa dei bisognosi e dei bombardati.

I giorni seguenti non sono giorni di fanciullezza per Marisa, e qualcosa ancora segnerà per sempre la sua vita.

Iniziano i funerali. Lei è la sola ad essersi salvata, nella classe. Ogni giorno più d’uno, per onorare le piccole salme di tutti i suoi amici. A uno di questi però – proprio al funerale della sua più grande amica – Marisa non potrà andare: nella follia cui può portare l’evento più terribile, la morte di un figlio, la madre di quella bambina vieta a Marisa di partecipare. Marisa è ai suoi occhi colpevole di non aver portato con sé, nella fuga, l'amichetta. Da quel giorno Marisa non riceverà più il saluto di quella donna, che gira lo sguardo altrove nell’incontrarla sulla via. Mai più. Ancora oggi, dice, è questo il ricordo che le fa più male.




Marisa porterà per tutta la vita quelle lacrime ghiacciate, nate un giorno davanti alla porta di una chiesa che le sarà vietato valicare. Orrore nell’orrore.

Dei quattro bambini del suo palazzo, ne rimane uno. Un’influenza provvidenziale. Una bimba va dicendo “Mi sono salvata” e Marisa è infastidita: “Non è vero, era assente. Io, mi sono salvata. Lei non c’era”. Pensieri dove si mescolano ingenuità dell’età e storte verità.

Dopo il 20 ottobre Marisa inizia a dormire con mamma e papà. Quando passa sopra i tetti Pippo (così la popolazione del Nord Italia aveva soprannominato l’aereo delle incursioni notturne) lei si tappa le orecchie e pensa che ora non saranno solo i tubi dell’acqua a farle tanta paura.

Ma della guerra in casa non si parla.

Poi la vita, piano, ritorna. Quando tagliano gli alberi del Viale Monza lei ha il permesso di andare con gli amici a raccogliere i rametti, per il fuoco di casa. Quando i vicini escono in macchina, la Balilla, suonano il clacson e Marisa scende per fare venti metri trasportata sul predellino. Arriva all’angolo della strada e scende. Lei è felice per aver fatto un giro in automobile.  L’auto che la famiglia ha potuto acquistare perché proprietaria di uno stabilimento di arti artificiali. Le vendite vanno bene, in quegli anni.  Marisa ha la bicicletta, i caloriferi in casa, seppur accesi solo per le grandi occasioni, e la domenica il papà compra i pasticcini: non è da tutti, è fortunata. Però, da un momento all’altro, può suonare un allarme.

A Milano, nel ’44, c’era ancora la scighera, una nebbia fitta che non faceva vedere il palazzo di fronte. Ma il 20 ottobre 1944 il cielo era limpido, il sole splendeva. Splendeva anche il tetto della scuola di Marisa, splendeva troppo e fu oscurato per sempre.

 

*ALESSANDRA GIORDANO (E' nata nel 1965 a Milano, all’ora di pranzo. Giornalista e addetto stampa in ambito editoriale, culturale e artistico. Ha pubblicato la raccolta di racconti “Cadorna non è una fermata. Momenti Metropolitani” - Viennepierre Edizioni, 2009, il diario autobiografico “L’asino sulla mia strada” - Edizioni del Gattaccio, 2016 e la raccolta di tweet in eBook “Momenti Metropolitani” -BaccarinBoox Editore, 2013.  Ama gli animali. Ha fondato e dirige la prima rivista dedicata esclusivamente all’asino: Asiniùs.it Altro su www.alessandragiordano.com: come sempre, parole e ragli)

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