Galapagos, io e i fringuelli di Darwin

di ANNAMARIA PASSARO*

Partiamo in pullman da Guayaquil, città fluviale dell’Ecuador non lontana dalla costa, per raggiungere Quito (la capitale). Ci attende un giorno intero di viaggio lungo la strada Panamericana, che in quello splendido tratto si arrampica sul versante occidentale della cordillera andina. All’ora di pranzo sostiamo per uno spuntino in una minuscola piazzola aggrappata alla montagna, poco più grande dell’enorme padellone nel quale la cuoca sta rosolando una montagna di pezzettini di carne, di pollo e di verdura, che poi afferra delicatamente con lunghe pinze per disporli nei grandi coni di carta gialla da offrire con grande savoir-faire ai clienti di passaggio. 

quitojpg(Quito      foto di Annamaria Passaro)

L’intero centro storico di Quito è uno dei siti che l’Unesco ha dichiarato Patrimonio dell’Umanità. Ci tratteniamo per un paio di giorni, godendoci i musei, le chiese spagnolesche e la vita quotidiana della città, deliziandoci con la squisita cucina locale. La sera prima della partenza per le Galápagos mi concedo un’ultima zuppa tradizionale (caldo de verde), e vado a dormire. La nostra stanza è ai piani alti di un albergo moderno. Al risveglio scopro che durante la notte c’è stato un terremoto. La gente è uscita in strada, ma io non mi sono accorta di nulla. Potenza dei due bicchierini di Pisco (una sorta di acquavite) sorseggiati la sera prima, dopo il dessert.

 Il servizio aereo per le isole è assicurato da TAME, la compagnia di bandiera gestita dall’Aeronautica Miltare. Al decollo si fanno tutti il segno della croce. Affinché l’aereo possa staccarsi da terra, il capitano deve sfruttare la pista fino all’ultimo metro. Quito si trova infatti a 2850 metri sul livello del mare, e l’aria rarefatta obbliga i piloti a una rincorsa che sembra non avere mai fine. Un decollo che mi ricorda quello del gabbiano di Bianca e Bernie del cartone animato di Walt Disney. L’atterraggio per fortuna sarà più morbido.

 Arriviamo all’aeroporto dell’isola di Baltra (non trovo le foto, accidenti!) e subito ci imbarchiamo su quella che per una settimana sarà la nostra dimora: un battello lungouna ventina di metri, molto carino, con cabine comode e accoglienti. Condivideremo gli spazi comuni con una dozzina di passeggeri e cinque uomini di equipaggio. Dopo aver fatto l’appello, il capitano ci spiega le regole da seguire a bordo. Sul comportamento da tenere a terra verremo invece informati a mano a mano che toccheremo le varie isole: i nostri comportamenti dovranno adattarsi di volta in volta alla grande diversità della flora e della fauna che troveremo in ciascuna località visitata. Gli orari saranno da caserma: sveglia alle 7 per la colazione. Pranzo e cena anch’essi a orari fissi. Ogni sera verremo informati sulle escursioni e sulle visite del giorno successivo. Al termine del “benvenuti a bordo”, notando il colore chiarissimo della pelle di molti passeggeri, il capitano intima: “Por favor, muchissima crema, siempre!” Anche con cielo velato, il sole equatoriale è ustionante.  rabidajpg(Rabida      foto di Annamaria Passaro)

 L’indomani mattina, attraversato un breve tratto di mare, raggiungiamo la sede della stazione di ricerca intitolata a Charles Darwin, sull’isola di Santa Cruz. Lì abbiamo la fortuna di conoscere la tartaruga gigante “George il solitario”, così chiamato perché molto schizzinoso nella scelta di un’eventuale compagna: non ne ha mai accettata alcuna. È l’ultimo esemplare della sua specie. In passato hanno trovato due tartarughe di una sottospecie simile alla sua, con cui ha avuto qualche approccio, purtroppo senza risultati apprezzabili. Raggiungerà l’età di 102 anni, morendo single nel 2012. Dopo questa sosta scientifico-culturale, utile a rinfrescarci le idee sui fringuelli di Darwin e sulla sua teoria dell’evoluzione mediata dalla selezione naturale, partiamo per l’esplorazione vera e propria dell’arcipelago.

 I nomi delle isole e delle varie località sono stati attribuiti in anni e con criteri molto diversi. Ecco alcuni esempi: San Cristóbal dal protettore dei naviganti, Isabela da Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, Pinta da una delle caravelle di Colombo, Marchena da un frate, Ràbida dal convento in cui Colombo lasciò un figlio, Bartolomé da un luogotenente della HMS Beagle (la nave di Darwin), North Seymour da un nobile inglese, Wolf da da un geologo tedesco, Pinzón dai tre fratelli che accompagnarono Colombo nella prima traversata atlantica (due dei quali al comando della Pinta e della Niña) e così via, fino ad arrivare alla piccolissima Darwin. Il grande scienziato inglese visitò le isole tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno del 1835, trattenendosi nell’arcipelago per cinque settimane, durante le quali gli abitanti locali gli fecero osservare alcune piccole differenze rilevabili tra esemplari di una stessa specie (in particolare tartarughe e fringuelli) nati e cresciuti su isole diverse. Sulle prime Darwin non fece troppo caso a questo fatto, ma con il passare degli anni esso divenne lo spunto che lo portò nel corso degli anni a formulare la teoria che porta il suo nome.

Isola rabida mamma e cucciolojpg(Rabida, mamma e cucciolo           foto di Annamaria Passaro)

 Mi sento impreparata di fronte a una tale ­­meraviglia. E potrei anche aggiungere: “Mi sento felice come un fringuello”, sono nel posto giusto! Paesaggi diversissimi da isola a isola, con un’enorme varietà di animali che si possono osservare da vicino, senza che fuggano spaventati.Ecco, forse è questa la parte che più mi affascina: la possibilità di accostarmi a loro (non a tutti, naturalmente), e a volte addirittura di giocare con creature che finora ho visto solo allo zoo, o che dalle nostre parti scappano, alla vista degli umani. Il mio viaggio è costellato di incontri straordinari. Una mattina, arrivando a Ràbida, apro l’oblò della cabina e vedo una balenottera arenata sulla spiaggia. Morta. È stata trascinata lì da una mareggiata, e lì rimarrà finché il tempo e gli animali non la consumeranno.

 La regola fondamentale che vige sulle isole (proclamate Parque Nacional Galápagos nel 1959 – anch’esse sito Unesco – e aperte ai visitatori nel 1969) impone di camminare dietro alla guida, seguendo i percorsi segnati, con la possibilità distendersi al sole e di nuotare solo in alcune spiagge dove l’impatto umano sull’ambiente è minimo (o, quanto meno, così si spera...). Lungo il cammino non è raro incontrare animali feriti o morenti, ma è vietato soccorrerli: la natura deve seguire il suo corso. Se un’iguana rimane schiacciata sotto i vari quintali di peso di un leone marino, ci si dovrà limitare a rammaricarsi per la triste sorte della poveretta, senza intervenire per salvarle la vita.

Mi imbatto in un cucciolo di foca, magrissimo. Attende da giorni che la mamma torni per allattarlo. Ma la mamma non tornerà mai più: probabilmente è stata divorata da un’orca in mare, mentre andava a caccia di pesci per nutrirsi. La povera fochina dovrà rimanere lì ad aspettare da sola e a sperare…ioeilgrnchiojpg(Giocando col granchio)

Paradossalmente, mentre noi cerchiamo di non avvicinarci troppo agli animali per non disturbarli, sono gli animali ad avvicinarsi a noi. I granchi rosso fuoco che popolano gli scogli non pensano neppure lontanamente di darsela a gambe! Mi accomodo vicino a loro mentre sono indaffaratissimi a raccogliere del cibo nelle acque ferme, tra le roccette affioranti. Vicino a me, un grosso granchio è tutto intento a scavarsi la tana nella sabbia umida.

granchiojpg(Foto di Annamaria Passaro)

 Si tuffa in continuazione nella buca, dalla quale riemerge subito dopo trasportando con le chele una manciata di sabbia, che spruzza per aria prima sparire di nuovo nella tana per proseguire l’opera.Lo stuzzico un pochino, calando nella buca l’estremità di un laccio della giacca a vento. Lui lo afferra al volo con le chele, e non lo molla.Cerca di trascinarmi nel suo rifugio, tirando il laccio con tutte le sue forze! Poi capisce che sono troppo grossa per quello spazio angusto (o forse un po’ indigesta – chi lo sa...?) e abbandona la presa.

Leone marino haremjpg(Un leone marino e il suo harem         foto di Annamaria Passaro)

A Ràbida abbiamo il nostro primo contatto con una colonia di foche: le femmine stanno quasi tutte allattando, sdraiate su un fianco sulla spiaggia, e nell’aria si sente un buffissimo rumore di poppate (smciuck! smciuck! smciuck!). Sulla battigia un gigantesco leone marino – il maschio dominante – si sposta da una parte all’altra del suo harem, per impedire ai giovani maschi, potenziali concorrenti, di avvicinarsi alle femmine. Questo “lavoraccio” dura giorni e giorni, nella stagione degli accoppiamenti, durante i quali il maschio dominante non può allontanarsi dalle femmine neanche per un istante neppure per mangiare, se non vuole perdere il suo status a favore di qualche aspirante più giovane. La guida ci spiega che il digiuno e la fatica gli faranno perdere moltissimo peso, prima che finisca la stagione degli amori.

Su un’altra spiaggia incontriamo un maschio dominante particolarmente macho: vuole impedire persino a noi umani di entrare in acqua.

Foche, iguane, pellicani, granchi e uccelli di ogni genere convivono pacificamente sulle isole. Ogni tanto qualche animale finisce schiacciato da un leone marino che si muove con la grazia di un ippopotamo, ma senza che ci sia alcuna cattiveria nel suo comportamento: non è facile controllare i movimenti quando per spostare i 3-4 quintali del proprio peso si può contare solo su quattro pinne, perfette per nuotare ma non certo per reggersi e muoversi agilmente sulla terraferma. A nessun animale di piccola taglia conviene trovarsi sul cammino di un maschio dominante, specialmente quando insegue un giovane concorrente in cerca di una femmina con cui accoppiarsi.San Bartolomjpg(San Bartolomè              foto di Annamaria Passaro) 

La vita dei pellicani è particolarmente difficile: cacciano il pesce tuffandosi in mare a capofitto da grandi altezze, e dopo qualche anno di attività diventano quasi ciechi a causa dei continui, violentissimi impatti della cornea con la superficie dell’acqua. Un gruppo di questi vecchi pellicani viene spesso a cena da noi. Galleggiano placidi a poppa della barca, aspettando l’ora della pulizia del pesce. Gli avanzi vengono distribuiti equamente tra i commensali.Questa è forse l’unica deroga concessa alle leggi del parco, che impongono di non aiutare nessun animale in difficoltà. [Ma i rifiuti organici verrebbero comunque gettati a mare, e a leccarsi i baffi sarebbe qualche altro animale…] 

La navigazione prosegue verso l’isola di Santiago (detta anche San Salvador). È formata da due vulcani sovrapposti, e alterna roccette rossastre a colate di lava nera che sembrano distese di corde attorcigliate, oppure la superficie appena rappresa di una densa cioccolata in tazza, secondo la fantasia di chi le osserva. Qua e là, tra le fessure nella lava,spuntano coraggiosissimi ciuffi di verde erari esemplari di piante succulente. Rock pinnacle san Bartolom non miajpg(Pinnacle rock)

Nel canale che separa Santiago dall’isolotto di Bartolomé nuota di tutto: iguane marine, tartarughe, delfini, squali, due specie di foche e…pinguini. A Bartolomé vive l’unica colonia di pinguini delle Galápagos, appartenenti allo stesso genere (Spheniscus) di altre tre specie: i pinguini sudafricani, quelli argentino-brasiliani (“di Magellano”) e quelli cileno-peruviani (“di Humboldt”). L’isola è nota anche per la Pinnacle Rock, una scheggia di roccia alta 70 metri che sembra un menhir depositato lì per caso dal fratello maggiore di Obelix, che prima o poi tornerà a riprenderselo. Durante la seconda guerra mondiale la US Navy ha promosso Pinnacle Rock a bersaglio per esercitazioni di tiro. Per fortuna sono state sparate solo bombe di sabbia non esplosive, altrimenti il fratello di Obelix non troverebbe più alcun menhir, quando ritornerà.Iguana e leone marinojpg(Iguana e leone marino        foto di Annamaria Passaro)

 Accanto a Pinnacle Rock si trova una delle spiagge più belle che abbia mai visto.Una giovane foca mi si avvicina e infila il muso nella mia maschera appoggiata sull’arenile: ha voglia di giocare. Se cerco di avvicinarmi, lei fa due salti più in là, e mi aspetta con aria di sfida, sempre con la maschera sul muso. È deliziosa. Quando alla fine riesco a recuperare la mia preziosissima e costosissima maschera, mi tuffo a mare. Sott’acqua avvisto in lontananza due siluri che si dirigono a tutta velocità verso di me, quasi volessero colpirmi e affondarmi, avendomi forse scambiato per un sommergibile. Quando penso che l’impatto sia ormai inevitabile, all’ultimo istante li vedo cambiare direzione improvvisamente, scansandomi e sfrecciandomi accanto sui due lati. Sono talmente veloci che sulle prime non riesco neppure ad accorgermi che non sono due ordigni bellici, ma due pinguini: tanto goffi a terra ma altrettanto agili in acqua.Non hanno per nulla paura di me (potrebbero facilmente dileguarsi a nuoto, qualora si sentissero in pericolo), e mi girano attorno in continuazione, incuriositi da questa strana sirena così impacciata (rispetto a loro!) nei suoi movimenti in acqua. 

Proseguendo per isole e isolette ci imbattiamo in ogni sorta di creatura. Iguane terrestri intente a gustare fichi d’India, che addentano interi, dopo averli strappati dalla pianta. Iguane marine che si scaldano al sole sugli scogli, prima di tuffarsi in mare per fare colazione con le alghe che crescono sul fondo. Se non accumulano abbastanza calore prima di entrare in acqua, o se si trattengono in acqua troppo a lungo, rischiano di non avere più energie sufficienti per nuotare verso terra, a fine pasto. L’unica loro arma di difesa, nei confronti di chi si avvicina troppo, è il soffio che emettono dal naso, accompagnato da un lieve spruzzo d’acqua marina che, evaporando, lascia un’incrostazione di sale intorno alle narici.Old pepejpg

   (La tartaruga gigante Old Pepe     foto di Annamaria Passaro)

 Su un’isola particolarmente arida, dove pare non piova quasi mai, un componente del gruppo si apparta per fare pipì, e subito un uccellino gli si posa sul pisello per attingere con il becco a quella bella cascata dissetante.

 Durante le immersioni incontro un’infinità di tartarughe che nuotano placidamente nelle acque cristalline, e perfino un piccolo pescecane che dorme a pancia in giù, adagiato sul fondo del mare. La guida ci invita a tirargli la coda, assicuradoci che lo squaletto (el tiburon) non farà nemmeno una piega.

 Sull’isola di San Cristóbal non possiamo mancare di far visita al vecchio Pepe, un’altra tartaruga gigante, mascotte dei frati del locale convento. Trascorre le sue intense giornate sul prato della chiesa. Anche lui, come George, morirà nel 2012, ormai ingrassato oltre misura per la grande quantità di cibo che i visitatori non mancano mai di offrirgli.

Roca del leone dormiente Samn Cristobaljpg         (Roca del leone dormiente a San Cristobal       foto di Annamaria Passaro)

A Española, a sud di San Cristóbal, incontriamo grandi colonie di uccelli. Assistiamo al corteggiamento tra due albatri in amore, che incrociano i becchi come eleganti spadaccini. Tra i colpi secchi, che ricordano quelli delle nacchere, i due grandi uccelli sono dediti a una sorta di danza rituale. Nel frattempo, sulle nostre teste volano alcune fregate dal gozzo rosso (altro richiamo per l’accoppiamento). Dopo avere scalato una montagna di guano, raggiungiamo una colonia di patas azules(sule dalle zampe azzurre) che nidificano sulle roccette di un dosso, ricoperto anch’esso del nobile elemento. Durante il corteggiamento si pavoneggiano mostrando le zampe: quanto più azzure esse sono, tanto maggiori saranno per loro le chances di accoppiarsi.Anche le sule, come i pellicani,volano alte sulla superficie del mare, adocchiando le possibili prede sulle quali si avventano lanciandosi in acqua da 30-40 metri di altezza e a 100 km orari di velocità. In realtà queste predatrici non puntano direttamente al bersaglio: lo scansano così da superarlo in profondità, per poi catturarlo durante la risalita verso la superficie del mare, dopo aver fatto un rapidissimo dietro-front in acqua. Purtroppo anch’esse, come i pellicani, diventeranno progressivamente cieche, con l’avanzare dell’età.

Pata azulesjpg

(Pata azules               foto di Annamaria Passaro)

 Lascio le isole con un solo, grande rammarico: tra le tante, sorprendenti specie di animali che per molti giorni ho avuto modo di osservare nel loro ambiente naturale, non sono riuscita a individuare neanche un fringuello.

 Uno dei fringuelli che centosessant’anni prima avevano attirato la distratta attenzione di Darwin, ancora ignaro del fatto che lo studio meticoloso di quei piccoli volatili, una volta tornato in patria, gli avrebbe svelato i segreti dell’evoluzione e della selezione naturale.


*ANNAMARIA PASSARO (nata a Milano nel 1955 da famiglia napoletana. Laureata in Filosofia, illustratrice. "Onirico ironica" è la definizione che amo e che mi diede l' amatissimo agente Marcelo Ravoni (Quipos) ) 


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