Due cuori, una proboscide e una capanna a Amboseli

di ANDREA VIANELLO

Quando ancora c’erano le macchine fotografiche, quelle ingombranti, belle, le classiche reflex, con i loro splendidi obiettivi e i loro zoom, con i loro rullini avvolgibili, insomma nell’era del Pleistocene, prima che bastassero i telefonini a fermare i nostri ricordi, ho avuto la ventura di compiere meravigliosi safari in Africa.      

Per fare le foto, ma anche grazie alle foto. Mio padre era infatti un commerciante proprio di articoli fotografici e nella scia degli spendaccioni anni ’80 le case fabbricanti, soprattutto giapponesi, invitavano i loro clienti in viaggi incentivi durante la stagione invernale. Mio padre lavorava sodo, io invece studiavo ancora all’università e potevo permettermi una settimana di pausa;  quindi tra noi due il fortunato viaggiatore che poteva usufruire di premi ero più facilmente io, davvero un imbucato in una congrega di negozianti lombardi, grossisti fiorentini e ottici siciliani che mi parlavano dei ricarichi della Kodak e delle politiche di vendita della Canon mentre io assentivo pensoso ma in realtà senza capirci un tubo.

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Grazie a quei viaggi di gruppo, al momento della laurea avevo già girato mezzo mondo. E avevo conosciuto, e amato terribilmente, l’Africa. In modo superficiale e frettoloso, naturalmente, come si confaceva a quelle carovane di turisti mordi e fuggi (avrei approfondito alcuni di quei luoghi emozionanti più avanti, ritornandoci con altro spirito e tempi diversi), ma in una scoperta, comunque, mirabolante di paesaggi, popoli e sensazioni indimenticabili. Senegal, Costa d’Avorio, Sudafrica, Zimbabwe, soprattutto il Kenya, meta di moda tra le spiagge di Mombasa e i parchi naturali da attraversare con le jeep alla ricerca dei Big Five: leone, elefante, rinoceronte, bufalo e leopardo, i cinque animali da avvistare e fotografare perché un Safari sia veramente riuscito (io li beccai tutti e cinque solo diversi anni dopo, in Tanzania, quando i rullini erano già andati in pensione e i viaggi premio da figlio di papà erano un bella nostalgia).                                          

 Il primo safari della mia vita, nel 1982, si era svolto in Kenya appunto, nell’enorme parco nazionale Tsavo, il più vicino alla parte urbana, sebbene così vasto da essere denominato su due zone, Tsavo Est e Tsavo Ovest, divise dalla ferrovia per l’Uganda e dalla strada che congiunge Nairobi e Mombasa. Un parco splendido, pieno di animali, solo un terzo in realtà aperto ai turisti, ma con la sensazione, sbagliata, di troppa accessibilità, visto che lo puoi raggiungere in auto dalla costa; non abbastanza isolato al mondo civile, insomma un incredibile viaggio dell’Africa profonda ma con troppi pali della luce all’orizzonte.                                      

Mi era piaciuto, ma non mi era bastato.                                                                

 Perché il turista principiante da safari si trasforma all’improvviso in un Dottor Livingstone dei poveri, un impavido esploratore dalla bussola impazzita, un Indiana Jones alla ricerca della valle incantata, un Hemingway vagamente alticcio che invece di sparare con il suo fucile Winchester non vede l’ora di sparare al ritorno le diapositive agli amici annoiati: un idiota, fondamentalmente. Vuole andare più lontano, sperando di arrivare in un posto mai visto da essere umano, dove gli animali selvaggi e feroci sono ancora più selvaggi e feroci e il grande cacciatore bianco scruta l’orizzonte bruciato dal tramonto per scorgere la sagoma imperiosa di un leone e sussurrare al ranger con occhi di ghiaccio: “Eccolo! Simba…”.

Quindi -  nonostante fossi solo uno studente di Lettere della Balduina con gli occhiali spessi, viziato figlio di un commerciante di Polaroid - non vedevo l’ora di fare un nuovo safari,  stavolta in una zona più remota, ancora di più al centro del cuore di tenebra dell’Africa, lontano da tutto, lontano da tutti.

L’occasione arrivò presto, nel 1984. Un altro viaggio in Kenya, un altro soggiorno al mare di Watamu, un altro safari fotografico ma non nell’abituale Tsavo, che ormai guardavo come il cortile di casa, bensì  nell’Amboseli, che già nel nome aveva un suono misterioso, soprattutto collegato alla città solo grazie a piccoli aerei che attraversano le distese sconfinate della savana. Nessun palo della luce, stavolta, solo ruggiti nella notte.

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 Ero eccitato. Non importa se eravamo una carovana improbabile di venditori di macchinette con i bermuda alla Fantozzi, mi sentivo pronto all’esperienza totale di immersione della natura selvaggia.  Il Parco Amboseli è una meraviglia di quello che tanti anni dopo avremmo chiamato biodiversità, in uno scenario dove incombe il profilo maestoso del Kilimangiaro, che a casa mia finora era soprattutto una strofa fortunata dello zio più famoso della famiglia. Dopo l’aereo, e un atterraggio particolarmente accidentato, delle jeep ci portarono in una prima escursione nella savana, tra giraffe e zebre (le giraffe e le zebre nella savana sono numerose come i taxi a New York) e poi direttamente al lodge dove avremmo soggiornato in quei giorni. Spartano, oggi sono delle spa di lusso, ma affascinante, come tutti con la parte comune con bar, ristorante e terrazza, affacciata su una fonte d’acqua sapientemente illuminata , da cui gli animali selvaggi si abbeveravano;  tanto che potevi scrivere su una lavagna prima di dormire il tipo di bestione che volevi ammirare e gli addetti del lodge ti svegliavano durante la notte perchè potessi studiarlo con occhi assonnati ma stupefatti.

 Un albergo come un’isola quasi intrusa e immersa in un universo incontaminato. Fuori dai recinti del lodge, la savana smisurata, il regno delle fiere violente. Essendo single, a differenza di quasi tutti i componenti della comitiva fotografica con mogli, mariti o affetti stabili al seguito, così come si direbbe oggi, mi avevano assegnato una stanza da solo, tra i tanti piccoli bungalow che si dipanavano come le zampe di un ragno dalla struttura centrale, ognuna con un giardinetto davanti. La mia era l’ultima. Un’appendice finale, forse costruita successivamente, la stanzetta per le anime sole: dopo il mio piccolo bungalow,  il nulla, nowhere, il buio oltre la siepe.

La mattina dopo, l’escursione sarebbe partita alle 5 e mezza, per scorgere l’alba felina alle falde del Kilimangiaro; quindi quella sera dopo cena tutti a letto presto, me compreso.  Credo che sognassi, quando un rumore molto vicino mi svegliò di soprassalto. Le tre, recitava l’orribile orologio luminoso che portavo al polso. Cosa era, quel rumore? Accesi la luce, ma la camera era vuota e immobile. Eppure… Eppure il rumore continuava, vicino, molto vicino. Un rumore di spostamento di macerie, di rimescolamento turbinoso, di avvolgimento di sostanze solide, di aspirazione e stravolgimento, insomma un rumore alieno e terrificante.

 Strisciai sul letto, mi avvicinai alla finestra, scostai la tenda bianco latte e cercai, timoroso, attraverso i vetri semimovibili di capire quale aggeggio infernale suscitasse quel frastuono. Ma fuori era completamente buio, una notte impenetrabile. Meno male, pensai, non c’è nulla di cui spaventarsi. Tuttavia il rumore proseguiva sempre molto forte, sempre più vicino. Restai lì, appiccicato al vetro della finestra, con il fiato sospeso, finchè il buio, la notte impenetrabile che vedevo, si mosse. Si mosse lasciando scorgere il cielo stellato.   

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 Non era buio, era il sedere di un elefante. Un enorme, mostruoso, gigantesco, sbuffante, primitivo elefante selvaggio nel mio giardino. A cinque centimetri dalla mia faccia stravolta. Sotto la mia fragile finestrella. A una piccola spallata dalla mia porta.

Come prima,  razionale e coraggiosa reazione, saltai giù al letto, trattenni il respiro e corsi a chiudermi in bagno.                                                                                

A chiave. Non si sa mai.

Recuperato un battito cardiaco meno parossistico, aprii la luce, mi guardai allo specchio e mi sentii un coglione in mutande. Cosa ci facevo chiuso in bagno come un ladro? Davvero pensavo che quell’elefante potesse entrare nella mia stanza? E bastava in quel caso una gracile porta chiusa a chiave per proteggermi? Il grande cacciatore bianco che albergava in me da quando avevo letto “Verdi colline d’Africa” si fissò dritto negli occhi nello specchio e, arditamente, spalancò la porta del bagno pronto ad affrontare il pachiderma. Il quale, senza immaginare gli sconquassi emotivi che si agitavano dentro le mura della stanza, continuava indifferente a squassare le piante del giardinetto del bungalow con la sua micidiale proboscide, come constatai senza farmi vedere con un’occhiata furtiva alla finestra.

 Poi, ad un tratto, l’enorme mole del suo corpaccione si mosse, girò all’angolo della costruzione e si diresse con pesantezza eppure quasi leggiadro verso il sentiero che portava al struttura centrale del logde. Dovevo fare qualcosa. Presi il telefono della camera e digitai il numero della reception.   “Hallo”, rispose una voce profonda. Cercai le parole in un inglese stentato e convulso.  “Sorry, there is an elephant that is walking to the reception”.  Allo Shenker mi avrebbero cacciato.  Dall’altra parte del filo qualche secondo di silenzio.  “To the reception?” ripetè la voce, stralunata.   “To the reception!” confermai con una certa soddisfazione.  “Ok, ok, ok!” tagliò corto senza nascondere l’affanno il tipo al telefono e buttò giù.                                                                                       

Qualche minuto dopo sentii altri versi disumani: “Woe! Woe! Woe!”. Eccoli là, pensai, ormai rassegnato, altre bestie feroci che hanno divelto la recinzione e sono pronte ad assalire l’albergo. Siamo fritti.  “Woee! Woee!” i versi si avvicinano alla mia stanza. Corsi ancora alla finestra e capii. Delle grida. Delle torce. Degli uomini. Non erano nuove belve, erano i guardiani del lodge che scacciavano l’ingombrante intruso. Il profilo del mio elefante mi passò avanti da lontano e sparì nella notte fonda.  Dopo meno di due ore, passate senza prendere sonno, uscii vestito di tutto punto per andare a fare colazione: socchiusi guardingo la porta della camera, scoprii la devastazione del giardino effettuata dal pachiderma solitario e accelerai il passo verso la zona breakfast quasi che fosse ancora nascosto dietro all’angolo.            

“Uè” mi salutò sorseggiando il caffè americano il mio amico Angelo, negoziante dell’Angolo della Fotografia di Corso Vercelli, Milano.  “Che occhiaie! Bagordi notturni?”, scherzò.  “Oggi grande safari, ragazzi, le armi sono pronte”, continuò a voce alta, mostrando la borsa con la sua attrezzatura tecnologica “Animali selvaggi, arriviamo!”  

Lo guardai con sufficienza, pensai alla mia notte da grande cacciatore di elefanti, sorrisi e andai al buffet con l’andatura oscillante del barone von Blixen.      



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