Don't look up, una fantafavolaccia racconta il Nuovo mondo

di ANDREA ALOI*

America, oggi. Sugli schermi del computer di una giovane astrofisica compare una pallina bianca. Trattasi di una cometa di diversi chilometri che non promette buone novelle e doni, ma, salvo poderosi interventi per deviarla, un sicuro impatto col nostro pianeta entro sei mesi, il crash da fine del mondo. Sembrerebbe un’ottima occasione per neomillenaristi e gruppi di preghiera/pentimento, invece la minaccia spaziale attizza il fuoco fatuo delle reti tivù e dei talk show, solletica la presidente degli Stati Uniti che ci vede più che una buona ipotesi di far dimenticare uno scandaletto sessuale e volare nei sondaggi ergendosi a salvatrice dell’umanità tutta e - ecco il cuore nero della storia - fa brillare di cupidigia gli occhi di un business man che si atteggia a guru del Mondo Nuovo Digitalizzato Ipertecnologico. 

La minaccia dallo spazio, tra marziani bastardi e asteroidi poco amanti del neoliberismo, è uno dei territori preferiti da Hollywood insieme ai comunisti stranieri e domestici, ai virus in vena di libera uscita dai laboratori, agli indiani e ai negri quando si stufano di farsi ammazzare. In “Don’t look up” Adam McKay, antico sodale del comico Will Ferrell e a lungo colonna del Saturday Night Show, declina il classico topos cinematografico in una spassosa e conturbante favolaccia interstellare con le radici ben piantate nei territori del nostro assurdo, mediatizzato quotidiano. Un apologo che non solo parla di noi, ci prende pure a schiaffi. E a ragion veduta.




La dottoranda Kate Dibiaski (Jennifer Lawrence) e il professor Randall Mindy ( Leonardo DiCaprio), non appena realizzano l’entità della possibile catastrofe puntano su Washington per dare l’allerta alla Presidente Janie Orlean, una astuta baldraccona più che conservatrice, di stampo schiettamente trumpiano, sufficientemente priva di vergogna al punto di nominare un’anestesista sua amica capo della Nasa (il Principio di Peter nelle autocrazie e nelle democrazie terminali trova lampante conferma: "In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza") e di arruolare come portavoce il paffuto e boriosetto figlio Jason. E già il solo immaginare che due tipini così abitino alla Casa Bianca lascia immaginare la micidiale ruzzola che prenderanno gli eventi. In un primo tempo la presidente (Meryl Streep: al solito e in questo caso realmente stratosferica) e il di lei figliuolo (Jonah Hill, odiabile al punto giusto) prendono la cometa killer sottogamba, le elezioni di midterm sono vicine e che sarà mai questo gridare al lupo, in fondo il professor Mindy insegna all’Università del Michigan, mica è nel giro dell’Ivy League, Princeton, Harvard e compagnia.

Randall e Kate decidono allora di giocarsi la carta dei media e compaiono in tivù, ospiti di un talk che ha nel cicaleccio più leggero dell’elio e nel solletico delle emozioni più infantili la ragione di vita e di audience. In fondo dare in diretta la notizia che la terra sta per essere squassata da una cometa dovrebbe servire da pubblica sveglia. Per i conduttori, Brie Evantee (Cate Blanchett) e Jack Bremmer (Tyler Perry) non funziona così, trattare con un minimo di consapevolezza un argomento serio va oltre la loro missione di tenutari del bordello televisivo, di stimolatori delle reazioni pavloviane di un pubblico ormai condizionato da storielle rosa e vippismi, seduto ben comodo in una mediasfera manipolante e dopante. Un po’ il professor Mindy se la sfanga e suscita simpatia, mentre il parlare duro e chiaro di Kate, come misurato dai responsabili della trasmissione subito dopo la messa in onda, ottiene vasta disapprovazione, fino a diventare bersaglio degli haters sui social. Intanto alla Casa Bianca iniziano a sospettare che la minaccia celeste sia una carta giocabilissima per riverniciare l’immagine della presidente e all’uopo viene lestamente convocato un vero astronauta patriota, il colonnello Ben Drask (Ron Perlman), disposto a immolarsi: a bordo di uno shuttle farcito di esplosivo impatterà con l’asteroide frantumandolo e rendendolo inoffensivo. Gasatissimo più del generale Kong a cavallo di un missile nel “Dottor Stranamore” di Kubrick, Ben è già in volo quando la missione viene annullata.


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Chi può permettersi di gettare nel cestino un ordine presidenziale? Facile, Peter Isherwell (Mark Rylance, sontuoso). Finanziatore della Orlean e nume-padrone di una megasocietà evidentemente più potente del governo degli Stati Uniti, vuole occuparsi in proprio della questione, privatizzando un atto cruciale per la sicurezza dell’America e del mondo. La cometa è un giacimento di terre rare, quella materia di cui son fatti i nostri nuovi sogni e la realtà dei superconduttori, rappresenta un affare da trilioni di dollari e Isherwell, un mix dell’astronautico visionario Elon Musk e del profetizzante Steve Jobs, parla con voce fessa da guru cibernetico del terzo Millennio e vola alto però possiede grinfie affilate. Delirante d’onnipotenza, immaginifico e avido, è a tutti gli effetti uno squillante coglione e meglio sarebbe verificare scientificamente, più a fondo, la fattibilità del suo progetto. Macché.

La cometa si avvicina alla terra e il professor Mindy, in un primo tempo risucchiato dal mondo parallelo dello smart set mediatico e sedotto dalla vanesia e alcolista conduttrice Brie, si riavvicina alla moglie: nell’ora più drammatica separa evangelicamente il grano dal loglio, si riunisce alla famiglia, ai suoi affetti più profondi. Tutto il resto è spoiler, silenzio quindi. Tanto poi, ai curiosi compulsivi basta occhieggiare Wikipedia.

“Don’t look up”, prodotto dalla Paramount e acquistato dall’immancabile Netflix, trasuda intelligenza e gioca su una parodia ad alto gradiente satirico che inquieta, tanto aderisce a una realtà inimmaginabile solo qualche decennio fa, sempre più scompensata e sulla via di trasformarsi definitivamente in finzione. Gli schermi televisivi tuffano i nostri sensi in una “Matrix” mediatica oppiacea, tossica. I giganti del web insieme fatturano come un grande Stato e agiscono di conseguenza, sfuggendo a leggi nazionali e tassazioni congrue. La politica s’intride di show, di slogan del giorno per giorno e così diventa sempre più debole un’idea di rappresentatività condivisa. E va bene, “Don’t look up” è solo un film. Ma va dritto al bersaglio, con reciproche contaminazioni tra show e realtà, molto americane: siamo dalle parti di “Nashville”, il capolavoro di Robert Altman, e non per niente qua e là nella storia gorgheggia la divissima pop Ariana Grande. “Non guardare in su”, così sbraitano i negazionisti, pronti a papparsi le peggio panzane antiscientifiche e increduli davanti alla incombente, reale tragedia della cometa killer; così sobilla dal palco dell’adunata filogovernativa la presidente degli Stati Disuniti, spaccati perché metà del paese supplica invece di alzare gli occhi al cielo.

Ps Anche il piano di destabilizzazione istituzionale ordito dalla ghenga trumpiana, dopo la sconfitta elettorale dell’ineffabile Donald, vola in un territorio straniante, distopico. E purtroppo non è un film.

*ANDREA ALOI (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro) 

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