Dolomiti, bacche e botanica, ecco il gin nella terra delle grappe

di NEREO PEDERZOLLI*

La sua forza la trae dal bosco, bacche selvatiche; ma è pure l’acqua che lo mitiga, rendendolo affascinante e intrigante, con una coinvolgente gamma di sentori e sapori speziati. E’ il gin, uno degli ‘spirits’ più di tendenza nel mondo, che negli ultimi anni ha coinvolto nella mirata produzione anche le più preparate distillerie del Trentino. Quelle che conoscono storicamente l’arte dell’alambicco. Grappisti per vocazione, e da qualche stagione decisi a rinnovare l’arte dell’alambicco.

Mastri distillatori, in tutto. Propongono da secoli una schietta specialità, definita la ‘sostenibile leggerezza dell’essere’. Per una questione eterea, ma anche per assolverla dall’accusa di essere un ‘peccato alcolico dei senza speranza’. Contrapposizioni ardite, però subito sopite quando si passa da un sincero spirito di vino -  come da secoli è la grappa - alla recente nuova vita del gin, ottenuto attraverso una preparazione tutta basata sulla 'via alcolica dolomitica’. Quella che recupera il ruolo e l’identità della grappa per reinterpretare (e mettere nel bicchiere) uno ‘spirito’ che coniuga storicità con nuova intraprendenza distillatoria tutta montanara.

Grappa e gin non sono fratelli. Bisogna ribadirlo. Lo sono solo in quanto ‘spiritosi’, come si definiscono i prodotti di grado alcolico sostenuto.



gin-3714701_960_720jpg



Nascono da intuizioni similari, ma da flussi di distillazione radicalmente diversi. La grappa si ottiene sfruttando la potenza della materia prima intrinseca delle vinacce, mentre il gin nasce strappando le sue inconfondibili finezze dalle erbe, a partire dal ginepro, la bacca prioritaria per questo nettare alchemico, tra infusioni e macerazioni in alcol neutro solitamente ottenuto da cereali, spesso quelli che si usano per la birra.

Metodi e strategie distillatorie che solo i grappisti più intraprendenti sono riusciti a concretizzare, rispettando la diversità dei due spiriti.

In Trentino il pioniere è stato sicuramente Bruno Pilzer, vero artista della grappa nella fucina della sua famiglia in Val di Cembra, docente d’arte distillatoria alla Fondazione Mach di San Michele all’Adige, giudice e sommo degustatore in una miriade di concorsi mondiali riservati a queste  specialità.distigrappajpg

Lui è giunto al gin onorando l’antica usanza trentina di aromatizzare la grappa giovane con infusi di ginepro e altre radici del bosco, genziana su tutte. Poi - stimolato dalle esperienze maturate dalla partecipazione nei congressi alcolici internazionali - ha gestito diversamente i suoi tradizionali alambicchi riservati alla grappa, applicando specifiche procedure: con codificate tecniche mirate al gin. Coniugando - e questa è davvero l’intuizione più innovativa e decisamente dolomitica -  l’arte della grappa con la scienza della botanica: quella praticata da Alessandro Gilmozzi, uno chef di Cavalese che proprio nei boschi di Fiemme e Cembra, intorno alla distilleria Pilzer, riesce a scovare bacche, muschi, licheni per sfiziose interpretazioni gastronomiche, compresi erbe e frutti selvatici destinati al gin. Al loro gin, subito assurto a simbolo della nostrana nouvelle vague distillatoria. Decisivo l’apporto della botanica, per caratterizzare il prodotto.

Gilmozzi è un grande appassionato di botanica. Ha imparato da sua nonna a scoprire i valori custoditi dalla foresta dolomitica. Da anni nei menù che propone nel suo ristorante - ricavato in uno storico mulino - i vegetali spontanei caratterizzano pietanze e percorsi sensoriali. L’incontro con istrionica saggezza del Mastro distillatore Bruno Pilzer ha davvero tracciato la via al gin tutta trentina. Stimolando anzitutto le locali aziende della grappa, tutte alle prese con la ricerca di miscele vegetali a base di bacche di ginepro oltre che di sambuco, prugnolo e altre erbe aromatiche per una misteriosa miscellanea orgogliosamente custodita.Gilmozzijpg

(Alessandro Gilmozzi)


Tutto questo per ottenere un gin veramente distintivo, da mettere nel calice l’identità del bosco delle Dolomiti, diverso dalla mastodontica produzione mondiale di questo essenziale.

Produrre gin nostrano per stare al passo con le nuove tendenze del bere miscelato, pure per rendere onore a questo alcolico di stampo internazionale che vanta una storia fatta di coraggio, amore, infusi tra medicina, politica, società e un guizzo geniale. Partendo comunque dal perché si chiama gin.

E’ il ginepro che lo determina, ma non solo. Conifera che cresce prevalentemente in montagna, conosciuto da sempre per le sue doti medicamentose e molto apprezzato in cucina. Sfruttato da Egizi e da medici medioevali, selezionato per piacevoli intrugli alcolici, tra infusi e aggiunto nella distillazione del vino.

Nelle abbazie s’inizia a produrre nel 1200, usato per la ‘cura degli occhi’ distillando ginepro con aggiunta di erbe. Ecco, questo è il segreto che rende il Gin esclusivo: la botanica. Documenti citano come primi produttori di gin i Paesi Bassi.

La prima menzione della bevanda in quanto “gin” risale al medico di Anversa Philippus Hermanni. Nel suo libro A Constelijck Distileerboec dal 1552 menzionò l’Aqua juniperi ben 98 anni prima del collega olandese Franciscus Sylvius con il suo genoa, da molti considerato l’inventore del gin. Poi ci pensarono gli inglesi a farne una ‘loro bevanda’, chiamandolo proprio in quel modo.

Secoli di bevute, altrettanto lunga l’evoluzione distillatoria e botanica. Fino al gin nostrano. Che tra le Dolomiti registra veri specialisti: grappisti come Stefano Marzadro, i Boroni, Valentini a Tovel, per citare solo i primi in grado di presentare gin di massima autorevolezza.


Immagine 2022-03-04 175755jpg



L’assaggi, lo gusti, lo rispetti. Perché il gin non è solo e semplicemente piacevole, accattivante, nitido alla vista, gentile nella sua avvolgente finezza aromatica, pieno e possente al palato. Soprattutto è una sintesi della purezza, libera la mente, recupera i ricordi d’intime, godibili sensazioni. E suscita nuove emozioni, stimola pensieri. Senza stordire, senza mai stravolgere la sua origine, i legami con la civiltà delle genti di comunità caparbie, operose, fiduciose del futuro.

L’occhio vuole la sua parte. Limpidezza, purezza, variegata trasparenza.

Poi, al naso deve essere un tripudio di fragranze, sentori finissimi, ampi, muschiati e contemporaneamente floreali.

Per giungere al palato con cipiglio alcolico corroborante, franco, sicuro, deciso e asciutto. Stimolando le papille gustative nella (ri)scoperta di certe sensazioni sopite, dimenticate, ma appena intuite nella gamma degli aromi catturati col naso.

Si può bere da solo, sorso di meritata godibilità, anche se gli esperti consigliano di mixarlo con acqua tonica, ghiaccio e buccia di limone. Per i più arditi: sorseggiarlo, lentamente, durante uno sperimentale, innovativo pasto a base di pesce d’acqua dolce, salmerino su tutti.

 

*NEREO PEDERZOLLI  (nato a Stravino, tra le Dolomiti di Brenta e il Garda trentino, per 36 anni giornalista/inviato speciale RAI in programmi e rubriche agroalimentari, film-maker, da oltre 30 anni degusta vini per la guida del ‘Gambero Rosso’ e ha pubblicato numerosi testi di cultura enogastronomica. E’ editorialista del quotidiano online ‘ilDolomiti.it’)


clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per seguirci su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram