Dirty India che ti tocca il cuore

di MANUELA CASSARA' e GIOVANNI VIVIANI*

Nel 1984, tornata in India per la seconda volta, mi trovavo di passaggio a Pathankot, nell’assolata piana del Punjab, non lontano da Delhi. Pathankot, era, credo lo sia ancora,   una snodo ferroviario squallido e polveroso, un’accozzaglia, almeno allora, di casette male in arnese, con una stazione fatiscente. Mi ospitava una famiglia indiana, per i parametri dell’epoca, benestante. Il figlio, mai più rivisto, era uno schianto, un potenziale, inconsapevole, modello di Versace. Si parlava del viaggiare all’estero, delle differenze tra Paesi e culture, al che lui, con aria che potrei definire schifata, mi dice: “ Sì, sono stato in Italia, a Venezia… oh, but very, very, very dirty.”!

Così quando arrivo a Kochi, prima nostra tappa in Kerala, ci ripenso. Il concetto di dirty è metafisico e inspiegabile come qualsiasi altro pensiero soggettivo. Se poi fa parte di una cultura distante e per molti aspetti controversa, è ancora più misterioso.

A Kochi, quattro del mattino, per l’aeroporto è l'ora di punta. Aereo stipato di indiani di ritorno a casa, dopo mesi passati lavorando in condizioni per noi disumane, per loro abituali, negli Emirati. Costruzioni, per lo più.

L’unica scelta è seguire il flusso. Il tuo spazio fisico è sempre occupato da qualcun altro: parenti in attesa, circondati da tassisti vocianti, procacciatori in cerca di clienti per resort e alberghi. È uno slalom tra bagagli accatastati, evitando quelle macchie rosso ruggine che so essere di bethel, ma che hanno l’aria non di meno inquietante.

Mi viene la tentazione di definire tutto molto “ dirty,” ma essendo molto politicamente corretta la respingo.

Fuori, decine di macchine in doppie, triple file disordinate, ignorate da poliziotti rassegnati, prese d’assalto dai facchini assillanti. Una scena alla Hyeronimus Bosch. Riesco a trovare l'unico bancomat nei paraggi che, manco a dirlo, non funziona. Najeeb, l'autista della macchina presa a noleggio, ci accoglie insonnolito e ci informa che ci vorrà, minimo, un'ora di macchina per fare i 40 km che ci separano dal centro città. E questo perché non c'è traffico.c3bcb7ad-783b-4d68-b048-78997aee4481jpg

(foto di Giovanni Viviani)

Procediamo nel buio più totale, mentre il compagno della mia vita ne approfitta per accasciarsi, o svenire credo, sul sedile posteriore. Procediamo schivando solitari e spettrali viandanti lunghi, magri e allampanati, le gambette come stecchi, incontrando motociclisti propensi al suicidio mediante frontale e camionisti propensi all’ assassinio mediante abbaglianti accecanti. La città ha solo poco più di due milioni di abitanti, il che per l’India non è una densità importante, ma inizia dall'aeroporto, ventisette chilometri tra una doppia fila ininterrotta di costruzioni. 

Dopo 50 minuti di sobbalzi e sussulti, tra edifici fatiscenti e quella che nel buio sembra una bidonville, ma che più probabilmente sono le abitazioni di chi, oggi, ha conquistato un certo benessere, arriviamo a Fort Kochi, lo storico insediamento portoghese e olandese. Il buio non le dona, l’aspetto, con le strade buie, polverose e deserte è quello di una favela diffusa, ma l'albergo, il Tower House, è un bell'edificio coloniale, dall’aria decorosamente fané, proprio davanti alle Chinese Fishing Nets, le grandi reti da pesca quadrangolari che ricordano i bilancieri del nostro Adriatico.

 La nostra camera è, come spesso lo sono da queste parti, enorme, con arredi tipici del Raj (ndr: da non confondere con Raja’; il Raj è il periodo della dominazione inglese), bovindo che danno sul giardino tropicale con tanto di piscina. Anche il bagno in marmo è insolitamente pulito e funzionante. Mi viene la tentazione di pensare : fortunatamente qui non è dirty. Ma, ancora una volta, la respingo.

Sono ormai le 6 del mattino, ci accasciamo sul magnifico lettone a 3 piazze per risorgere a mezzogiorno,  quando la magia del giorno ha trasformato l'inquietante favela in un brulicante bazaar di piccole attività. Tutto è ora colorato, vivace, accogliente. Per strada gran via-vai di turisti: neo fricchettoni soli o accompagnati, coppie agè benestanti, dove lei è spesso bionda, quasi sempre pingue e vestita di lino bianco e lui altrettanto corpulento, in Panama e bermuda.b2b27513-56aa-4f7f-a220-fe0bfa22ad31jpg

(foto di Giovanni Viviani)

È vero, l’India sta cambiando. Nei vicoli di Fort Kochi ci sono oggi innumerevoli art galleries, graffiti colorati decorano quei muri diroccati, baretti e ristorantini dall’aria artistica offrono menù cosmopoliti. E’ appena iniziata la Biennale di Kochi, raduno di artisti non solo Indiani, e anche il centro diventa parte integrante della manifestazione. Tutto mi ricorda quando gironzolavo, da sola, nei prima anni’70, ma è anche tutto profondamente diverso: i giovani avventori di tutte le razze sembrano quelli di una volta: colorati, arruffati, vestiti di stracci. All’epoca anche loro, come me, si spostavano solitari. E solitari sembrano esserlo anche oggi, forse perché assorbiti dai loro smart-phone, concentrati sui portatili, sugli i-pad, nella lettura di un ebook…  

Potremmo essere a Londra, a Berlino, all’ East Village. Potremmo. Ma poi in strada vieni assalito dal caldo umidiccio, dagli odori dei canali di scolo a cielo aperto, vieni sorpresa dall’incontro ravvicinato con una capretta-spazzina, deliziata dal sorriso sdentato di vecchietto con la bocca rossa di bethel, incroci lo sguardo birichino di un bambino e quello amorevole dell’anziana che ti offre un fiore, e ti ricordi perché sei qui, perché sei venuta in questo Paese. Perché ti tocca il cuore. E perché capisci che il concetto di “dirty” viene solo dal cervello, dalle proprie abitudini. È qualcosa di cui liberarti, se vuoi davvero cercare di capire e apprezzare la complessità di questo Paese, di questa gente meravigliosa. Perché sarà anche vero che l’India è caotica, ingiusta, sporca. Sì, soprattutto sporca. Ma chissenefrega,  visto che anche Venezia lo è?



*MANUELA CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto)

*GIOVANNI VIVIANI  (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast,  ha documentato con i suoi still life i prodotti di molte griffe del Made in Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di Repubblica. La sua passione più recente sono le foto di viaggio)


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