Diamante, quarant'anni di murales
foto e testo di TINA PANE*
Sono sbarcata a Diamante per la prima volta nell’estate del 1985, per riposarmi da una faticosa vacanza al risparmio a Stromboli e dopo una serie di estati trascorse nella vicina Praja a Mare, dove lasciavo a malincuore amici e comitiva. Ma i miei avevano fatto il grande passo di comprare una casetta al mare e si vantavano di avere scelto la perla della Riviera dei Cedri, la città dei Murales.
Però, a essere sincera, nei pochi
e ben confusi ricordi di quella prima estate i murales sono un concetto più
che un’esperienza, perché la vita si svolgeva di giorno al mare e di sera a
passeggio sul lungomare e a nessuno dei miei pochi nuovi amici venne in mente di
lasciare le luci della ribalta (il
lungomare vecchio, alberato e rialzato rispetto al mare, era ed è lo
struscio per eccellenza)
per inoltrarsi nelle stradine del centro storico a
scovare i famosi murales. Nella nostra testa, devo ammetterlo, il centro
storico era soltanto la parte vecchia
di Diamante e i murales
un’attrattiva -l’unica - troppo nuova.
C’era qualcosa di poco convincente, o forse solo era la pigrizia.
Eppure già dal 1981 l’amministrazione comunale, con un’iniziativa benemerita e rivoluzionaria, aveva preso la decisione di chiamare a Diamante artisti da tutta Italia e anche stranieri mettendo a disposizione i muri degli edifici del centro storico per realizzare le loro opere.
Oggi i borghi belli (e talvolta decorati) si buttano, ma quarant’anni fa il concetto di valorizzazione dei piccoli centri stava in mente a dio e a pochi altri visionari, e tra questi – va detto- l’allora sindaco di Diamante Evasio Pascale e il pittore Nani Razetti.
Fu quest’ultimo, “genovese di nascita, calabrese di adozione e diamantese per forza - avendo sposato una donna di qui” ad avere l’idea di far diventare Diamante un museo a cielo aperto, anche per ripagarla, affermò in un’intervista televisiva di molti anni fa, di aver perso il fascino di borgo marinaro con l’espansione edilizia iniziata negli anni ’70. Come che fu, il comunista Razetti convinse il sindaco e l’amministrazione democristiani a deliberare per i murales e si attivò per chiamare gli artisti.
Nel giugno del 1981 partì dunque l’Operazione Murales
e tra lo sconcerto della popolazione (non subito e non tutta
favorevole all’iniziativa) vennero montati i ponteggi e imbiancati i muri per
consentire agli artisti di realizzare le prime 80 opere. L’operazione di
marketing (anche se allora non si chiamava così) fu ben organizzata perché per
questo primo appuntamento si ritrovarono a Diamante anche una quarantina tra
giornalisti e critici d’arte, il che dimostra la novità del progetto.
A partire da questa felice intuizione, Diamante ha definito un’identità e un appeal che le hanno permesso di distinguersi rispetto a tutte le altre località della Rivera dei Cedri e di attrarre non solo famiglie campane con la seconda casa, ma visitatori italiani e stranieri. E se era in effetti qualcosa di stupefacente, negli anni ’80, girare per le stradine e i piccoli slarghi del centro storico
trovando
un’opera quasi a ogni angolo, era altrettanto una sorpresa scoprire che anno
dopo anno altre opere si aggiungevano alle precedenti, non più solo nel centro
storico ma anche nella parte nuova
della città e nella vicina frazione di Cirella, il cui nucleo di fondazione
risale addirittura alle colonie della Magna Grecia.
Nel 2014, ad un anno dalla morte dell’artista ideatore, è stato istituito il “Premio di Pittura Nani Razetti”, rivolto ai giovani allievi dell'Accademia di Belle Arti; nel 2017 è nato il progetto OSA -Operazione Street Art - patrocinato dal Comune di Diamante e curato dal giovane artista diamantese Antonino Perrotta in cui dieci artisti hanno realizzato otto nuovi murales, passando dalla tecnica classica dell'acrilico su muro all'utilizzo delle bombolette spray, tutti dedicati al tema delle migrazioni.
Ma il tema, come diceva Razetti, era quello della
libertà, e lui stesso portò i murales all’interno di una chiesa, mentre tra i soggetti
delle opere si trovano anche vignette e testi di poesie.
Dopo quell’estate dell’85 sono tornata quasi ogni anno a Diamante e ogni volta sono andata a fare le mie esplorazioni. Ogni volta, col naso all’insù, ho scoperto un’opera nuova o verificato il degrado di qualcuna negli anni.
Ci sono delle operine piccole, che spuntano all’improvviso
girando un vicolo, e stanno ad altezza d’occhio, proprio come in un museo, e
altre di grandi dimensioni ma poste in alto e difficilmente fotografabili.
Molte si confondono con le finestre,
i balconi, i panni stesi e i peperoncini appesi a essiccare, e vivono la loro
vita senza clamore, in perfetta commistione con l’ambiente circostante.
La più toccante, a mio parere, resta quella dell’artista israeliano Baruch Kadmon, realizzata nel 1981, che ha riprodotto in un vicolo del centro storico una famiglia già immortalata dal fotografo americano Paul Strand. È un dipinto di grande realismo, che parla di civiltà contadine e marine, di fatica e sudore, di arretratezza, di vite minime, di gente che ha sofferto anche senza affrontare migrazioni.
Ma ce ne sono davvero di tutti i tipi e gli stili - astratti, naif, pop: sono ormai 250 i murales di Diamante.
Che per festeggiare questo quarantennale ha approntato un ricco programma di eventi, spettacoli, mostre e progetti - Diamante Murales 40 -
che è partito a giugno e durerà fino a dicembre.
La città dei murales, che non vuole perdere
l’occasione di richiamare i turisti e non solo i villeggianti, ha anche un
altro asso nella manica, il Festival del Peperoncino (giunto alla 29esima edizione),
collocato nella seconda settimana di settembre per prolungare la stagione.
Anche in questo caso eventi, convegni e l’imperdibile finale del Campionato
Italiano Mangiatori di Peperoncino.
A prescindere da eventi e appuntamenti, questa città ha una sua voce, emana un suo richiamo.
Basta addentrarsi nella parte più interna delle stradine del centro storico, superando la zona iniziale, vivace di negozi, bar e ristorantini, per cedere alla poesia che promana dai muri, pensando a quante mani diverse hanno contribuito a crearla, e apprezzare la grazia dei portoncini e delle scale adorni di piante fiorite. Qui ho rubato tanti anni fa un rametto di una pianta semplice e colorata, di cui ho fatte decine di talee da regalare a quelli che vedendola sul mio balcone ne restavano ammirati. Qualcuno dice si chiami begonia, qualcun altro gramigna buona, e propenderei per questa seconda soluzione, vista la facilità con cui resiste e si riproduce, in Calabria e a casa mia.
Questa pianta resta per me il simbolo del mio legame con la Calabria, una terra che andrebbe scoperta e apprezzata ben oltre i suoi bellissimi 800 chilometri di coste, ricca com’è di rilievi montuosi, fiumi e vegetazione, paesini, santuari e tradizioni…insomma come dappertutto nel nostro paese, ricca di tanta natura e storia da valorizzare.
(2012)
(2021)
Intanto pazientemente aspetto l’annunciato restauro dei primi murales, quelli più compromessi dal tempo e dagli agenti atmosferici. Uno dei più meritevoli di intervento sta vicinissimo al Municipio, non ne conosco il titolo ma l’ho sempre chiamato Anto’, fa caldo.
* TINA PANE (Napoli, 1962. Una laurea, un tesserino da pubblicista e un esodo incentivato da
un lavoro per caso durato
30 anni. Ora libera: di camminare, fotografare, programmare viaggi anche
brevissimi e vicini, scrivere di
cose belle e di memorie)
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