Darjeeling, il treno, il tè e l'Everest

testo e foto di STEFANO ARDITO*

Il Toy Train appare a sette chilometri dall’arrivo, e rischia di causare un incidente. Fin lì, sui tornanti che separano la pianura del Bengala da Darjeeling, il traffico di auto, bus, camion e moto è stato regolare e tranquillo.

Accanto alla strada, a due terzi del percorso, il verde delle piantagioni di tè lascia il posto a qualche lembo sopravvissuto di foresta. Poi la nebbia nasconde il paesaggio, e il monastero buddhista di Druk Sangak Choling offre una piacevole sosta.

Quando riparto la nebbia si trasforma in una pioggia battente. E a Ghum, un bazar oltre i duemila metri di quota, circondato da brutti palazzi di cemento, il viaggio sembra finito. Invece no.

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(Il Toy Train a Ghum)


Il Toy Train, il “treno giocattolo”, ci sbuca davanti all’improvviso, sui binari che tagliano la strada. Una frenata sull’asfalto bagnato evita il peggio, il fumo della locomotiva avvolge e nasconde gli altri veicoli. Poi, ma solo poi, arriva anche un fischio.

Il Toy Train, il minuscolo treno del Bengala, è un pezzo importante della storia di Darjeeling. La linea è stata inaugurata centoquaranta anni fa, il 4 luglio 1881, quando sul trono d’Inghilterra sedeva la Regina Vittoria. Lo scartamento tra i binari è di 60 centimetri, i vagoni e le locomotive, fabbricati a Glasgow più di un secolo fa, sono in proporzione.

Tra i primi a innamorarsi del Toy Train, nel 1895, è Mark Twain, l’autore delle Avventure di Tom Sawyer. Come molti turisti prima di lui, lo scrittore americano viaggia da Calcutta a Siliguri su un comodo vagone letto, poi sale sul convoglio in miniatura.

“Il viaggio richiede otto ore” scrive Twain in Seguendo l’Equatore, il libro che dedica a quel viaggio, “ma è così interessante, eccitante e incantevole che dovrebbe durare una settimana”. Il convoglio si affaccia su “profondi valloni”, e sorpassa “file di nativi pittoreschi”. Quanto agli alberi, alle felci, alle liane, “la vegetazione che circonda la linea è un museo”.


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(Il Kangchenunga all'alba)


L’indomani, prima dell’alba, Mark Twain fa quello che tutti i turisti diretti a Darjeeling continuano a fare anche oggi. Si siede accanto a una finestra, si avvolge in due plaid, attende che il sole “allontani il velo grigio”, e poi “inondi l’intera poderosa convulsione di vette innevate”. Di fronte all’uomo del Mississippi si alza il Kangchenjunga, 8596 metri, la terza cima della Terra.

Darjeeling, avamposto britannico verso l’Himalaya, nasce nel 1835, e non per motivi turistici. Vent’anni prima gli inglesi, che controllano buona parte dell’India, hanno tentato di invadere il Nepal ma sono stati sonoramente battuti.

Sanno che a nord del Bengala, che è il cuore dell’Impero, oltre al Nepal si estende il Bhutan, un altro principato himalayano aggressivo. Sanno che entrambi hanno delle mire sul Sikkim, che controlla la carovaniera verso il Tibet.

Per anticipare nepalesi e bhutanesi, la East India Company, che governa la colonia, firma un trattato con il chogyal, il re del Sikkim, ottenendo il permesso di insediarsi a Darjeeling. Poi, secondo un visitatore del 1848, la città cresce “con il ritmo veloce di una colonia australiana”.

Dal 1864, nei torridi mesi tra aprile e agosto, il governo di Calcutta si trasferisce a Darjeeling. Qualche anno prima, imprenditori inglesi e scozzesi hanno iniziato a dissodare le foreste per far posto alle piantagioni di tè. Il nome della città e quello della bevanda diventano rapidamente sinonimi.

Per lavorare nelle piantagioni, dal Sikkim, arrivano uomini e donne di etnia Lepcha. Ma la voce arriva anche più a ovest nelle valli nepalesi ai piedi dell’Everest, dove vivono gli Sherpa.


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(Dorjee Lhatoo, la moglie e una foto di Tenzing)


“Qualcuno dei nostri antenati è arrivato a Darjeeling traversando le montagne. La maggioranza ha seguito i fiumi fino alla pianura, e poi si è diretta verso il sole nascente” mi spiega Dorje Lhatoo, alpinista e autorevole esponente della comunità Sherpa della città.

Oggi come un secolo e mezzo fa, Darjeeling è una meta affollata. I visitatori indiani arrivano soprattutto per il fresco, gli stranieri vengono ad ammirare le montagne e compiere dei trekking tra le foreste. Tutti visitano le piantagioni di tè.

In città le architetture coloniali rimaste sono circondate da brutti edifici in cemento, i bazar sono ancora pittoreschi, nel tempio di Mahakhal i fedeli indù e buddhisti pregano gli uni accanto agli altri. Ma il ruolo strategico di Darjeeling c’è ancora. Il Sikkim, annesso dall’India dopo l’occupazione cinese del Tibet, resta una frontiera bollente.


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(Il tempio di Mahakal)


Davanti all’Himalayan Mountaineering Institute di Darjeeling, una statua ricorda Tenzing Norgay, lo Sherpa che ha salito per primo l’Everest nel 1953, insieme a Edmund Hillary. Ma il rapporto della città con quella straordinaria montagna è più antico.

A metà dell’Ottocento, i topografi del Survey of India scoprono che il Peak XV, a ovest del Kangchenjunga, è la cima più alta della Terra. Qualche anno dopo, ignorando il nome locale Chomolungma, la dedicano a Sir George Everest, il primo direttore del Survey.

Nel 1904, una piccola invasione britannica, ipocritamente battezzata “spedizione militare”, fa a pezzi l’esercito tibetano, raggiunge Lhasa e impone un accordo al Dalai Lama. Nel 1920 la Royal Geographical Society, presieduta da sir Francis Younghusband, chiede il permesso per una spedizione esplorativa all’Everest. La risposta è positiva.

Nell’aprile del 1921 gli alpinisti s’imbarcano a Londra sul piroscafo Sardinia, e in un mese raggiungono Calcutta e Darjeeling. Il 18 maggio, sotto alla pioggia del monsone, George Mallory, Harold Raeburn, il capospedizione Charles Howard-Bury e gli altri partono a cavallo verso il Tibet e una straordinaria avventura.


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(Piantagioni di te)

Nel gruppo sono inglesi e scozzesi, reduci delle trincee insanguinate della Somme e uomini che hanno superato tranquillamente il conflitto in India. La vetta non è considerata un obiettivo realistico, ma è fondamentale disegnare delle buone mappe.

In tre mesi, alpinisti e topografi esplorano i due ghiacciai di Rongbuk e la valle di Kharta dominata dalla parete Est dell’Everest, dal valico glaciale del Lho La si affacciano sulle valli nepalesi. A settembre, con una temperatura polare, arrivano sui 7000 metri del Colle Nord, scoprendo una via verso la cima.

Tra il 1922 e il 1938 torneranno lassù altre sei volte, raggiungendo gli 8500 metri ma non gli 8848 della cima. Nel dopoguerra, l’invasione cinese del Tibet e l’apertura agli stranieri del Nepal spingeranno l’alpinismo sul versante meridionale dell’Everest.

Le spedizioni degli anni Venti e Trenta, invece, si organizzano e partono a Darjeeling. Insieme agli alpinisti, come portatori d’alta quota, sono i “Bhotia nepalesi”, che l’alpinista Alexander Kellas ha consigliato di assumere perché “meno indisciplinati dei Tibetani”. L’alleanza tra gli alpinisti stranieri e gli Sherpa nasce tra le piantagioni di tè del Bengala.


*STEFANO ARDITO (E' noto ai camminatori per le sue guide dedicate ai sentieri dell’Appennino e delle Alpi. Giornalista, scrittore, documentarista, scrive per Il Messaggero, Meridiani Montagne, Plein Air e il sito Montagna.tv e Plein Air. Ha lavorato per Airone, Repubblica, il Venerdì, Specchio de La Stampa e Alp. E’ autore di circa 60 documentari, in buona parte trasmessi da Geo&Geo di Rai Tre. Tra i suoi ultimi libri sono Alpi di guerra, Alpi di pace, Premio Cortina Montagna 2015, e Alpini, finalista al Premio Bancarella 2020, entrambi editi da Corbaccio. Ha raccontato di Darjeeling e della cima più alta della Terra in Il gigante sconosciuto - Corbaccio, 2016 - dedicato al Kangchenjunga, e in Everest - Laterza, 2020 -, che celebra i cent’anni della prima spedizione britannica).


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