Dallo sci dritto al manager nella neve. Storia e disavventure di una maestra di sci

di  GABRIELLA DI LELLIO*

“Questa immensa stupidaggine è in fondo una delle poche cose buone che l’umanità moderna abbia inventato. Quando siamo lassù, cose del tutto bambinesche assumono un’importanza assurda, molto più che il Patto Atlantico”. Così pensava dello sci Dino Buzzati nella prima metà del secolo scorso, come se fosse un gioco.

Ma per imparare a sciare c’è bisogno di qualcuno che insegni a destreggiarsi in un ambiente insolito, in condizioni metereologiche spesso difficoltose che richiedono attenzioni particolari. Io ne so qualcosa perché sono una maestra di sci. 

I primi sci li ebbi a quattro anni. Erano dei Rolly-Go. Quando me li regalarono li infilai nel letto e ci dormii insieme. Pazzesco. Fu l’inizio di una passione vera, dalla carriera agonistica al conseguimento del brevetto di maestra di sci al compimento del diciottesimo anno, il termine minimo consentito dal regolamento per sostenere l’esame. Ero sempre più immersa in una passione di amore, fatica e testardaggine. Quando ero piccolina, all’età di cinque anni, nevicava molto e si poteva sciare per le strade della città. Lì mi portava mio padre, che faceva anche funzione di sciovia. Non c’era bisogno di andare in una stazione sciistica. Non a caso la mia città è stata chiamata “L’Aquila Caput frigoris”, dalla incredibile nevicata del ‘56 quando fu ricoperta da metri di neve. Erano passati pochi anni da allora.

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(La nevicata del '56        foto dal gruppo Fb  "L'Aquila de 'na 'ote"  )


Ricordo di aver sciato piú tardi, e non ero la sola, alla scalinata della Basilica di San Bernardino, in centro, che oltre la strada prosegue alla successiva scalinata per terminare in piazza Bariscianello. Un anno, non ricordo quale fosse, si svolse lì una gara di slalom parallelo. Un posto fantastico in cui molti aquilani hanno ripetuto  l’esperienza  dopo l’ultima grande nevicata del febbraio 2012.


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(La scalinata di San Bernardino      foto di Gabriella Di Lellio) 

 

Significava faticare molto perché si risaliva a piedi ma lo facevo con piacere. Mi trascinavo gli sci affondando nella neve e stringevo i denti. Non fu sempre così, era solo l’inizio. A pensarci adesso già da allora avrei dovuto capire qualcosa del mio carattere. Ogni domenica, dopo una velocissima messa nella chiesetta vicino casa, con tutta la famiglia si partiva per il Gran Sasso verso le sciovie di Montecristo dove le turbine spazzaneve pulivano il piazzale creando muri di neve alti oltre un metro. Bastavano venti minuti di macchina per avere gli sci ai piedi ed è qui che sono cresciuta, sciisticamente parlando, fino ad essere notata dai responsabili dello sci club locale. Così ebbe inizio all’età di dieci anni il mio primo approccio agonistico. 

Con l’agonismo si aprì un mondo nuovo che non faceva altro che aumentare la mia passione, quasi una monomania. Erano famosi in famiglia i miei temi di italiano che in un modo o nell’altro avevano a che fare con la neve fin dai primi pensierini della scuola elementare. All’uscita da scuola mi attendeva il pulmino dello sci club per le due ore pomeridiane di allenamento. Cominciai a piazzarmi bene nelle gare all’inizio locali, poi regionali, inter-appenniniche e alla fine nazionali. All’epoca esistevano le “categorie” per classificare gli atleti, l’equivalente degli odierni punti F.I.S.I., ed io appartenevo alla terza categoria nazionale.



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(In gara nel 1970       foto di Gabriella Di Lellio)


Era un gran complimento sentir dire che ero brava perché sciavo “come un maschio”. Si diceva cosí perché quelli erano proprio altri tempi e si pensava che  i ragazzi avessero piú tecnica  e grinta, di cui io abbondavo.  A diciotto anni presi il brevetto, superando la selezione nazionale e impegnandomi per un mese intero a Bardonecchia, la sede del corso di formazione fatto di lezioni pratiche e teoriche prima dell’esame finale. Ero consapevole di intraprendere un altro cammino. Non potevo immaginare quale porta si sarebbe aperta dall’incontro a tu per tu con le persone: adulti e bambini. Ma quando si tratta di persone la realtà batte la fantasia.  L’agonismo era accantonato, ero diventata una maestra, una delle due donne nella mia regione, immersa in una realtà nuova e completamente maschile, non sempre facile.

Ero pronta per una nuova sfida, quella di far sentire a proprio agio le persone in un ambiente in cui non è così scontato esserlo. Avevo cambiato il modo di vivere la mia passione  per lo sci. Chi è quell’uomo o donna che accompagna per le montagne e non è guida alpina, che insegna e non è professore, che è servizievole e non è servo, che fa ciò che i ricchi vorrebbero fare ma ricco non lo è, che affascina le persone senza essere un divo, che senza la forza di gravità sarebbe disoccupato ma fa di tutto per eliminarla? Un personaggio che solo poco più di mezzo secolo fa non esisteva e che è differente dagli altri per ambiente, abitudini, carattere e vestito: il maestro di sci. Era proprio questa la denominazione alla faccia della differenza di genere. Tuttora non è stata mai cambiata al femminile la dicitura su distintivi, diplomi e tesserini da maestro di sci.

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(Gli inizi)


I primi corsi per maestri di sci italiano si svolsero a Clavieré nel 1932. Il   direttore era Leo Gasperl, l’austriaco che vinse il chilometro lanciato a Saint Moritz alla velocità di 129 km/h.  Ricordo ancora il suo negozio di articoli sportivi a Cervinia e quando nel ‘72 venne a stabilirsi in Abruzzo, a Rivisondoli.  

Nel 1957 i maestri patentati erano 563 in tutta Italia, le donne erano rarissime e a ogni nuova sessione d’esame erano stragi. Oggi in Italia ce ne sono 15.000 di cui 680 solo nella mia regione. Il numero esatto delle donne professioniste non si sa con certezza, sicuramente inferiore alla metà della presenza maschile. Si tratta di un problema culturale ed educativo soprattutto per quegli sport considerati da “maschio”. Sono appartenuta a questa categoria.

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(Il distintivo da maestro in Abruzzo, oggi)


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(Il vecchio distintivo nazionale) 

 

Il pensiero di un maestro di sci di ieri, a proposito della scuola per maestri  è: “Quando ti facevano il terzo grado!” Tantissimi i commenti amarcord su chi si è formato sul principio “c’è chi scende e c’è chi scia”. Erano gli anni ’70 e la Scuola Italiana Sci superava tutte le altre nazioni dello sci alpino, tra cui Austria, Svizzera e Francia, titolatissime per tecnica e didattica. A guidare la nostra c'era il bolzanino Hubert Fink con un gruppo di eccellenti istruttori scelti tra i migliori maestri italiani. Usava frasi mitiche, intelligenti e ironiche che si sono stampate nella mente come: “Scende chi subisce la pista, scia chi la interpreta”; “Anche i sassi rotolano a valle”; “Gli sci non sono un mezzo di trasporto da monte a valle, ma qualcosa che voi dovete portare da monte a valle”. Noi le ricordiamo benissimo. Se oggi i maestri e le maestre  di sci sono importanti in ambito turistico lo dobbiamo a quegli anni ‘80 e ‘90 che hanno dato un’impronta fondamentale alla loro formazione.

Il moltiplicarsi degli sciatori ha aumentato il prestigio di questa figura professionale. Basti pensare a politici potenti o uomini importanti che magari dirigono aziende da cui dipendono tante persone, che alla presenza di un maestro di sci diventano umili scolaretti o mendicano un elogio. In effetti sulla neve si controllano le distanze e si capovolgono i rapporti. I potenti si sottomettevano agli ordini anche se eri una ragazza che avrebbe potuto  essere loro figlia  e che, all’epoca, guadagnava poche decine di migliaia di lire al mese.


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(1989, allenamento estivo al Passo del Tonale)


L’esperienza dell’insegnamento è come una torta con tanti sapori diversi: un capitombolo imbarazzante, un cliente bizzarro, un salvataggio drammatico, un cliente innamorato?  La giornata tipo era scandita dal cambio di allievi ogni ora o due. C’era un punto fisso dove incontrarli. Spesso la condizione di maltempo imponeva un abbigliamento camuffatorio che rendeva impossibile il riconoscimento del maestro scelto.  Anche il tipo di clientela era differente: alla maestra venivano affidate le donne e le classi di bambini.

Mi è capitato un piccolo potenziale macho dell’età di tre anni che provò a rifiutarmi in quanto donna. Aveva un atteggiamento provocatorio e di sfida, un invito a nozze per una agonista. Lo conquistai ignorando le sue affermazioni e girandomi di spalle con un acrobatico salto sugli sci, ostentando volutamente le mie capacità, e andandomene con gli altri. Non mi lasciò più, è stato mio allievo fino alle sue prime competizioni sportive e oggi è diventato allenatore nazionale.

Le classi con i bambini principianti erano definite in gergo “le ore di orto”, perché corrispondevano allo svezzamento sciistico, quelle in cui era più frequente stare chinati sulla schiena che in posizione eretta, proprio come quando si prepara la terra per la semina. I bambini piccoli di tre o quattro anni il più delle volte erano facili da gestire a patto di poter  allontanare le madri. Solo allora si poteva iniziare a lavorare. Quando si infilavano otto ore di seguito in questo modo, partiva sommessamente il mantra tra i maestri coinvolti: “Speriamo che domani sia bufera”.


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(Tonale 1989)


Le lezioni iniziavano alle nove, ma si saliva con la funivia delle otto, insieme agli operai.  Avevamo il nostro  armadietto personale dove lasciare sci e scarponi e bisognava prepararsi, avere il prospetto delle lezioni e magari prendere un caffè con il collega amico - non c’erano altre donne all’epoca - prima di sparpagliarsi tra le piste. Gli scarponi erano ovviamente gelati, non come oggi  grazie agli  scalda-scarponi.   

Ricordo una mattina durante le vacanze di Natale, il periodo più affollato e più stancante della stagione perché era inevitabile far tardi la sera.  Facevo colazione al bar dell’albergo della scuola-sci con il mio amico istruttore nazionale.  Mancava un quarto d’ora alle nove, avevamo tempo. Mi sentii chiamare, era il mio allievo della prima ora in preda all’ansia che mi cercava per comunicarmi di voler disdire la lezione per un terribile dolore ai piedi. Io e il mio amico ci girammo e abbassammo gli occhi verso i piedi dell’individuo in questione. Non riuscimmo a trattenere una fragorosa risata. Era riuscito ad infilarsi gli scarponi al contrario, con i ganci verso l’interno. Mi ricomposi e gli spiegai che gli scarponi da sci hanno la stessa logica delle scarpe comuni, ogni piede ha la scarpa corrispondente e che con gli scarponi questo implica avere i ganci all’esterno. Non mi è mai più capitato di assistere ad un livello simile di analfabetismo sciistico. 

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(A lezione con la figlia)


Ricordo un altro episodio in cui mi trovai con un gruppo di sette bambini di quattro o cinque anni ed il tempo cambiò improvvisamente. Si alzò un vento fortissimo, condizione frequente tuttora a Campo Imperatore, per cui fui costretta via radio a chiedere aiuto ai colleghi perché non tutti i bambini erano riusciti ad aggrapparsi a me e stavano letteralmente volando.

Un’altra situazione imbarazzante a cui assistetti fu alla partenza della sciovia per principianti dei Prati di Tivo, sul versante teramano del Gran Sasso, ho lavorato anche lì. Le scuole di sci hanno sempre avuto la precedenza nella fila di risalita per far sì che l’ora di lezione fosse effettiva. Io ero con un bambino e vicino a me c’era un collega con una ragazza così avvenente che l’operaio dell’impianto si era precipitato ad aiutarla, ma senza gran successo.  La ragazza non era affatto consapevole che trattenere troppo il gancio della sciovia avrebbe prodotto un riavvolgimento della fune strattonandola in avanti. Questo infatti era il canonico momento della caduta del principiante al primo approccio con l’impianto di risalita. In questa situazione avvenne invece quello che mai avrei immaginato. Lo strattone della fune la lanciò in avanti facendola schizzare come un tappo di bottiglia di champagne fuori degli scarponi che rimasero attaccati agli sci incollati a terra mentre lei correva sulla neve, con i calzini ai piedi, attaccata al gancio. Mai vista una scena simile, tra ilarità e imbarazzo, tra chi urlava alla ragazza di abbandonare il gancio e altri che gridavano di fermare l’impianto. Finalmente recuperammo la signorina portandole scarponi, sci e racchette.. Maldestramente aveva preso a noleggio un paio di scarponi, un tempo considerati comodi e all’avanguardia, ma per me la negazione della scarpa tecnica, con due soli ganci posteriori e di un numero superiore al suo.


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("In gara" con la funivia nei valloni del Gran Sasso)

 

Fra i tanti aneddoti non mancano le innumerevoli cadute da parte di signore un po' in carne completamente infossate nella neve che mi tendevano la mano in cerca di aiuto per rimettersi in piedi, situazioni di difficile soluzione considerando la mia esile figura e la forza necessaria per sollevare pesi di quel tipo. Con pazienza spiegavo quale fosse il modo per rimettersi in piedi, esiste anche quella tecnica, dimostrando esattamente come fare. Il più delle volte funzionava ma ricordo una signora in particolare che con il suo peso riuscì a spezzare i bastoncini. Avrei avuto bisogno di un carro-attrezzi e così di nuovo feci intervenire i colleghi chiamati via radio.

 

Ho assistito anche a cadute talmente ridicole e imbarazzanti da non riuscire a trattenere la risata,  non per mancanza di rispetto perché poi, come ci veniva insegnato, si interveniva in aiuto del malcapitato a prescindere dal fatto se fosse allievo o meno. All’epoca il maestro di sci era obbligato a prestare soccorso in pista in ogni situazione di difficoltà che incontrava durante la discesa. Nei casi estremi segnalavamo l’incidente via radio ai poliziotti di stazione per l’intervento con il toboga.

 

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(La scuola sci di Campo Felice nel 1974)

 

Un soccorso abbastanza drammatico che ricordo mi è capitato sciando a La Thuile in Valle d’Aosta..Mi trovavo su una pista rossa che non era affatto difficoltosa se non per il muro iniziale di una certa pendenza. Era scesa la nebbia, nevicava e l’impossibilità di distinguere il confine tra cielo e terra era totale. Personalmente non è stato mai un problema, ma in queste condizioni ho assistito a vere e proprie crisi di panico. Poco dopo l’inizio della pista ho visto  due bambine che avranno avuto tra i  sette e i dieci anni, sole a terra, con le gambe divaricate nella classica posizione di spazzaneve aperto che solo i bambini possono tenere senza slogarsi le anche.   Gli sci dell’una erano incrociate sulle  code di quelli dell’altra. Per farla breve, era impossibile rialzarsi senza scivolare fino giù.  




 

Mandai via tutti quelli che erano con me tranne mia figlia perché aveva la stessa età delle due malcapitate ma  era certamente in grado di scendere su  quella pista, e  le dissi di restare in posizione “a monte” rispetto a me e tenermi i bastoncini.    Le bambine erano infreddolite e terrorizzate.  Erano americane e in un breve scambio in inglese riuscii a capire  dalla più grande che erano scese con un maestro di sci belga che aveva proseguito la sua corsa a valle senza accorgersi che loro erano cadute. Dovetti fare uno sforzo per non mostrare la rabbia che mi saliva dentro e con calma le separai rialzandole e chiedendo a mia figlia di parlare con loro con le poche parole di inglese che allora conosceva. Le abbracciai per scaldarle e rassicurale e offrii loro della cioccolata che avevo sempre in tasca. Non volevano muoversi e fu così che pazientemente mi misi a spazzaneve al contrario, per avere di fronte la prima bambina e dimostrare di poterla abbracciare nel caso di perdita di controllo degli sci. Poi mi chinai per tenere unite le punte dei suoi sci con le mani, per orientare la traiettoria delle curve e dosare la velocità. Erano completamente prive di forza e di controllo. La seconda bambina era incollata alla prima e il peso per me era notevole. Potevo vedere la pista solo a testa in giù attraverso le mie gambe e ogni tanto mi fermavo sia per riposarmi sia per abbracciarle. Pian piano arrivammo vicino alla baita. La mia schiena era ormai distrutta ma loro si erano tranquillizzate giurando, però, di non voler mai più sciare.


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(Campo Imperatore     foto dal sito del Centro turistico Gran Sasso)

 

Lì trovai il loro maestro che le aspettava per rientrare alla base. Non mi ricordo esattamente le parole che usai per esprimergli cosa pensassi di lui come professionista. Lo obbligai a portarle nella baita per una cioccolata calda per poi consegnarle ai genitori. Il danno lo aveva fatto e grosso. Cominciai in inglese e finii in italiano. Sicuramente il belga non capì il significato di tutte le parole ma le mie intenzioni sì, perché rimasi a fissarlo finché non lo vidi entrare nella baita con le due malcapitate. A me una cosa del genere non è mai successa. Nell’infinità di bambini e bambine a cui ho insegnato alcuni sono diventati maestri di sci, altri allenatori ed una istruttrice nazionale. 


Nel corso della mia carriera ho visto molti cambiamenti. Ho iniziato a sciare con gli sci “diritti”, sono una di quelli che curvano usando i piedi e che ha dovuto aggiornare la tecnica più volte,  per questo mi riconosco nella figura della “sciatrice d’epoca”.  Un tempo gli sci si sceglievano alzando il braccio, dovevano arrivare all’ altezza del polso, ora sono corti e sciancrati, girano da soli. Quante volte ho regolato gli attacchi degli sci Look Nevada con le monetine da 50 lire, che non ci sono piú. E gli impianti? Su quanti skilift e seggiovie scoperte sono stata completamente esposta al freddo o alla neve spinta dal vento! E come non ricordare le risalite con le ancore, quello strano skilift biposto dove immancabilmente capitavo con persone più alte di me, praticamente sempre, per cui se l’altro era giustamente posizionato a me toccava appoggiare l’ancora sulla schiena. Ora ci sono seggiovie con sedili imbottiti munite di copertura e ovovie riscaldate.

 Una cosa non è cambiata. Essere una maestra di sci è bellissimo. Anche se si scia poco.

  

 

*GABRIELLA DI LELLIO (Sono aquilana e sorella minore di nascita. Mi sento ottimamente a Roma e meno a L' Aquila dal terremoto del 2009. Ho insegnato lingua e letteratura inglese nel Liceo Scientifico della mia città. Sono maestra di sci perché amante della montagna e della neve. Mi piace la fotografia analogica in bianco e nero, che ho ripreso a fare dopo trent'anni e a cui intendo dedicare il mio tempo. Sono cresciuta nella FGCI e nel PCI fino alla “deriva occhettiana")

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