Dai Bronzi al Codice purpureo, la Calabria ha il cuore antico

di FABIO ZANCHI

Me l’avevano detto parecchie volte, Sandro e l’Antonella: “Non puoi non conoscere la Calabria. Vacci in vacanza, qualche volta”. E io, zuccone mantovano, niente. Del resto, per anni avevo fatto così anche con la Spagna. “Finché c’è Franco, quel fascista, io là non ci metto piede”. Poi, alla morte del dittatore, ci sono andato e ritornato parecchie volte negli anni, girando il Paese da Guernica, nei Paesi baschi, all’Estremadura.

Con la Calabria ho vissuto lo stesso rifiuto. “Io là non ci metto piede – rispondevo ai miei amici – Figuriamoci, una terra in mano alla ‘ndrangheta dove basta uno sguardo storto, un colpo di clacson a sproposito per rischiare una coltellata”. E via di luoghi comuni, anche se non del tutto infondati. Non tutti, almeno.

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(Soriano: foto Fabio Zanchi)


A convincermi sono stati nuovi amici. E Virgilio. I nuovi amici, conosciuti in anni più recenti, erano (e sono) tutti calabresi. Immigrati a Milano per ragioni di lavoro e pendolari estivi con la loro regione, dove è rimasto il grosso di una famiglia numerosissima, generosa di affetti e capace di un’accoglienza difficilmente eguagliabile.

Virgilio è proprio lui, quello di: “Mantua me genuit, Calabri me rapuere, tenet nunc Parthenope”. Praticamente la mia carta d’identità: mantovano, di padre nato a Napoli in piazza Nicola Amore (“e' quatte palazze”).  Mi mancava giusto il tassello calabrese. È stato così che nell’estate del 2001 mia moglie e io, con i ragazzi in età di ginnasio e liceo, decidemmo di passare la nostra prima vacanza in Calabria. Destinazione Simeri Crichi che, a dispetto del nome un po’ indiano,  è un non paese (quello vero sta sulle alture) della costa jonica a pochi chilometri da Catanzaro. 

La faccio breve, brevissima sul mare. Più bello di quello greco. Una spiaggia libera, lunga chilometri. Una striscia di sabbia assolata, stretta tra un’acqua limpida e fresca e una cortina di alti eucalipti ondeggianti al vento. Un vento che non smette mai, che a qualcuno può dar fastidio, ma a quelli di pelle chiara come me ha assicurato un insperato sollievo. Un posto che farebbe la felicità di qualche plotone di bagnini romagnoli, se solo potessero attrezzarla a modo loro.

Posta la nostra base a Simeri mare, vicino alla casa di vacanza dei nostri amici, da quell’anno e in quelli successivi la Calabria l’abbiamo girata in lungo e, si fa per dire, in largo. Più che di un viaggio in un territorio a noi sconosciuto si è trattato di un’esplorazione nelle tappe più significative della storia del nostro Paese. Itinerari ricchissimi di segnali familiari e pieni di fascino. Capaci di smontare uno per uno (quasi) tutti i pregiudizi che per tanti anni mi avevano tenuto lontano da questa terra.

La Calabria è letteralmente disseminata di luoghi archeologici e di straordinari musei, piccoli ma importantissimi. Bella scoperta, si dirà, i Bronzi di Riace ormai li conoscono tutti. Ma quei Bronzi sono soltanto le star di un giacimento culturale infinito che si estende per chilometri e chilometri. Capace di raccontare una storia bellissima, quella delle rotte che hanno portato i Greci a colonizzare tutto il Mediterraneo, su su fino a Marsiglia, e che in ogni paesino della costa jonica continua a lanciare segnali. 

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                                                             (Stilo, foto di Fabio Zanchi)

Lo dico senza vergogna: a Locri Epizefiri mi sono commosso. Di Locri, dove c’è uno dei più affascinanti musei archeologici, parla Plinio il Vecchio (NaturalisHistoria, III 95): “A Locris Italiae frons incipit, Magna Graecia appellata”. Qui, in una delle teche che custodiscono i reperti degli scavi, c’erano tre tavolette in bronzo con scritte in greco antico. Sono i verbali che documentano i passaggi di proprietà di alcuni terreni. Mi colpì una scritta, l’unica che mi parve di riconoscere, che tornava in tutte e tre le tavolette: “In nome del popolo…”. Una formula che ancora oggi mi pare di straordinaria forza. Testimone di un livello altissimo di civiltà.  È lì che, per la prima volta, ho sentito sgretolarsi (quasi) tutti i miei pregiudizi.


Emozioni fortissime. Come a Locri, così a Monasterace, al Museo archeologico MAK (da Kaulon, fondata dagli achei crotoniati), a Capo Colonna, dove sorgeva il tempio di Hera Lacinia, o all’immenso Museo Archeologico di Reggio Calabria. Tappa straordinaria, quest’ultima, e non solo perché lì ci sono i Bronzi più famosi del mondo. A me, per esempio, superata l’emozione di quell’incontro negli anni in cui non c’erano ancora tutte le procedure, necessarie ma lunghissime, di sicurezza e si poteva accedere in tranquillità ai due giganti, di quella visita è rimasta la soddisfazione di aver finalmente capito quanto potevano essere grandi (non troppo, a dire il vero) le navi con cui i Greci arrivavano trasportando otri pieni d’olio e di altre cibarie. E l’ho capito da un particolare: l’anello di metallo, perfettamente conservato, di una delle ancore di quelle navi.


Negli anni successivi, altre escursioni tra Sila e Aspromonte ci hanno regalato sorprese straordinarie. Ciò è stato possibile perché il patrimonio storico di questa terra troppo sottovalutata è davvero ricco come pochi altri. Più volte siamo tornati, per esempio, a visitare la Cattolica di Stilo, un piccolo gioiello dell’arte bizantina appiccicato sul pendio di un’altura piena di fichi d’india. Si tratta di una chiesina che può ospitare a malapena una decina di persone a dir tanto, con affreschi che si possono ancora vedere in pace, sempre che il custode resista alla tentazione di far suonare un’assurda campanella, capace di infrangere la magia di quel luogo, legato anche al silenzio che lo avvolge.

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(Simeri Crichi, foto di Fabio Zanchi)

Molto più maestosi due conventi legati a storie imponenti. Uno è quello di Soriano, domenicano, semidistrutto dal sisma che devastò Reggio e Messina nel 1783. La costruzione è impressionante e si sviluppa su più piani. Del resto questo convento, che venne costruito con pietre e marmi portati su queste montagne non si sa come, fu uno dei più ricchi d’Europa. Ancora più suggestiva la visita alla Certosa di Serra San Bruno, che risale addirittura al 1095, e si trova al centro di un bosco, su terreni donati dal conte normanno Ruggero I d’Altavilla.

Di sorpresa in sorpresa, altre due perle mozzafiato. Una si trova a al museo Diocesano di Rossano, in provincia di Cosenza. È il Codex purpureus Rossanensis, un’opera bizantina del VI secolo. Uno straordinario manoscritto con la particolare colorazione porpora delle carte, composto da 188 fogli di pergamena della dimensione di 31 cm per 26 cm. Un fumettone d’epoca che contiene l’intero Vangelo di Matteo e parte del Vangelo di Marco con tredici miniature. Pur essendo mancante di molte pagine, il Codice Rossanensis è uno dei più preziosi codici dell’antichità ed è l’unico rilegato. A Rossano Calabro, ripeto, frazione di poco più di 30mila abitanti, un posto che si fa fatica a trovare: bisogna proprio volerci andare.

Un altro posto così è Taverna, ai piedi della Sila piccola, in provincia di Catanzaro. Il sito su Internet registra 2.567 abitanti, e ho detto tutto. Perché quello, come ci rivelò Lilli, coltissima zia di mia moglie, è il paese di Mattia Preti, pittore seicentesco che insieme al fratello Gregorio dipinse opere straordinarie di impronta caravaggesca, alcune delle quali oggi sono a Palazzo Barberini. Mattia Preti è colui che tra il 1657 e il 1659 realizzò gli affreschi per le porte di Napoli voluti come ex voto per la fine della pestilenza che aveva colpito la città nel 1656 (oggi si vede soltanto quello di porta San Gennaro). Dalla Calabria a Napoli. Come per magia si torna a Virgilio: “Calabri me rapuere,  tenet nunc Parthenope”.


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