Da Mosca a Pechino, il treno più lungo del mondo / 2
di MARCO CORRIAS*
Il lago Baikal, lungo come da Roma a Milano, è il mare dei Siberiani. E da qualche anno di migliaia e migliaia di cinesi, spinti fin qui da Putin che, per aggirare le sanzioni occidentali, ha aperto le frontiere a questi turisti, eliminando il visto per chi si trattiene in Russia per un massimo di 15 giorni. L’ultima impresa di Putin, al tempo, sul fronte anti sanzioni me la raccontarono due italiani che fanno affari tra Omsk e Bologna, incontrati in un ristorante: ha fatto letteralmente schiacciare un carico di prodotti alimentari italiani, scoperto dopo essere passato da una frontiera amica.
(Foto di Marco Corrias)
Luogo sciamanico, intorno al Baikal non c’è altura che non sia presidiata dai totem colorati dagli stracci ex voto, e luogo di vacanza rappresentato dal piccolo villaggio di Listvyanka e dalle sue case coloratissime. Tutti mangiano l’Omul, il pesce per eccellenza di queste acque. Lo comprano fatto alla brace al mercatino e lo vanno a mangiare in certi baracchini sulla spiaggia, affittati per l’occasione a cento rubli, poco più di un euro. Vacanze che ricordano gli anni Sessanta sulle riviere italiane: poche pretese, passeggiate, un po’ di sole sulla spiaggia, una gita al vicino villagio in traghetto, un gelato. L’albergo più caro, un bellissimo cinque stelle, costa 300 euro a settimana colazione compresa.
C’è chi azzarda il bagno: il tempo caldo e il cielo azzurro invogliano. Mi faccio tentare in una spiaggia deserta lungo un percorso di trekking e di strepitoso paesaggio di 18 chilometri: le acque trasparenti non sono più fredde del mio mare sardo ad aprile.
(Video di Marco Corrias)
Alla frontiera con la Mongolia aspettiamo cinque ore sotto un sole che spacca. Il villaggio di Naushki è immerso nel silenzio più totale. Strade bianche e polverose, folate sabbiose che vengono dalle colline intorno, casette coloratissime con l’orto di fronte e mucche al pascolo a bordo strada. C’è solo un minuscolo negozio e un sedicente ristorante: una stanzetta disadorna con due piatti e una padrona scocciatissima per quei clienti (sono qui con Shiko, giapponese che vive nella Lapponia Finlandese e che sta tornando a casa per salutare i vecchi genitori, Jamie, londinese e analista finanziario in fuga dalla City, Wolf, insegnante bavarese che annota tutto e tutto sa) piombati a turbare la sua quiete. Il monumento ai caduti è fresco di fiori e di corone e la falce e il martello sono tirati a lucido: i 70 anni della vittoria sul nazismo vengono celebrati anche negli angoli più sperduti. Il controllo alla frontiera è molto meticoloso, e i poliziotti mongoli non proprio amichevoli.
(Foto di Marco Corrias)
Ulan Bator ci accoglie nella luce di un mattino soleggiato. Si può dire bella? No, ma come commenta Alice, californiana che a dicembre finirà un giro del mondo partito a gennaio, trovata sul treno per Pechino che ora si è riempito di ragazzi di tutto il mondo col sacco a pelo e persino di qualche italiano, “è una città molto sexy”. Luogo di forti contrasti, un milione e mezzo di abitanti sui tre totali che conta la Mongolia (gli animali da allevamento sono 60 milioni) che è sei volte più grande dell’Italia. Traffico caotico, architetture arditissime come il Blue Sky che sovrastano e annichiliscono gli ultimi templi buddisti, vanto locale, tali da far dire al custode che sono più belli e importanti di quelli tibetani. Canali di scolo a cielo aperto e slum sulle colline intorno al grande, bello e molto frequentato monastero di Gandan. Scalinate fatte di pneumatici che portano a vicoli cenciosi e business man, nomadi che aspettano i mini bus per tornare nella steppa dopo gli acquisti in uno sterminato mercato e pub molto occidentali, ragazzi e ragazze abbigliati come tutti i ragazzi e le ragazze del globo e interi quartieri di gher, le tende bianche e rotonde dei nomadi, causa in inverno dell’inquinamento feroce di questa capitale che è la più fredda del mondo: anche meno 40 sotto zero. E poi lei, l’incredibile, incongrua, centralissima piazza Beatles, con le effigi dei Fab Four. In ricordo degli incontri che qui, prima della caduta del muro e del dissolvimento dell’Unione Sovietica, tenevano i giovani musicisti e i contestatori del regime.
(Video di Marco Corrias)
Sulla strada per il parco nazionale Terelj,
dove dormirò due notti in una comodissima tenda nomade (vallate verdi e rocce
primordiali, campi di gher e fiumi
sulle cui rive i mongoli trascorrono le loro vacanze, il tutto invaso da miglia
e migliaia di yak, cavalli, bovini di ogni tipo, capre e pecore) una sosta dai
kazaki che mostrano aquile e altri enormi rapaci con i quali farsi immortalare
(non ho resistito) è d’obbligo. Poi spunta, enorme nel suoi 30 metri d’altezza
più trenta di basamento, luccicante nei suoi 250 tonnellate d’acciaio, la
statua equestre più grande del mondo. Quella del terribile Gengis Khan, che qui
chiamano Chinggis Khan. L’hanno terminata nel 2008 e non contenti di tanta
enormità stanno progettando di piazzare lì intorno altre diecimila statue
equestri di grandezza inferiore ma sempre imponenti. Naturalmente, chi vuole
che il volto del cavaliere abbia le sue sembianze per l’eternità dovrà pagare
una bella sommetta.
Alla frontiera con la Cina il treno sosta per oltre cinque ore al confine. Ogni vagone viene sollevato e adattato allo scartamento dei binari cinesi che sono più stretti. Nella notte, la stazione è avvolta da una musica da centro massaggi. Quando ripartiamo è l’alba. Il paesaggio è cambiato: verde ovunque, laghetti, campi coltivati e spicchi di montagne come li vedi nei quadri paesaggistici classici. Pechino avanza infinita. Scorre ai lati con i suoi grattacieli, interrotti ogni tanto dalle casette degli hutong, i vicoli del centro storico salvati dalla furia devastatrice della modernità, con i suoi bagni pubblici (uno ogni cento metri, utilizzati anche dai residenti senza bagno in casa), i suoi cortili discreti e spesso disordinati pieni di detriti, le sue bottegucce e i suoi risto-pub in riva al laghetto dove ascoltare musica live.
(Foto di Marco Corrias)
Piazza Tienanmen e la Città proibita sono chiuse in vista della parata muscolare prevista tra cinque giorni in ricordo della vittoria sui giapponesi, ancora oggi popolo odiatissimo da queste parti. C’è molto altro da vedere, e non solo per i turisti in questa città dove vivono buona parte dei futuri padroni del mondo. Alla stazione ci salutiamo tutti con grande euforia, il Covid-19 è ancora lontano anni luce. Con Anna e Simone, due simpatici milanesi incontrati sul treno, ci diamo appuntamento per passare insieme alcuni giorni. Il cielo sopra Pechino è azzurro e l’aria incredibilmente pulita. Stefano, l’amico che qui guidava un progetto europeo dell’Inps per insegnare al governo cinese le basi del welfare occidentale (pensioni comprese) mi dice che le autorità del regime hanno spento le fabbriche più inquinanti. E Giovanni, il suo sveglio traduttore cinese, ci ripete la vecchia massima: “I nostri governanti non credono in Dio, ma sanno essere come Dio. Quando vogliono, anche il cielo sopra Pechino resta pulito.”
(2 - FINE)
*MARCO CORRIAS (1951, giornalista in pensione, è sposato e ha un figlio. Nato in Sardegna, vive tra Roma e Fluminimaggiore, il paese d’origine di cui nel giugno del 2018 è diventato sindaco. Ha lavorato nei quotidiani e è stato inviato per il settimanale Epoca e per Terra! del Tg5. Si è occupato di temi di attualità e di inchieste sui più clamorosi casi nazionali e internazionali. Ha scritto quattro libri, l’ultimo è “Piombo Fuso” per le Edizioni Il Maestrale)
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