DA..... A....... / Roma-Merano, quant'è lunga l'Italia con la Isigò

di TONI JOP*

In fondo, se Ulisse se ne fosse stato fuori altri dieci anni a bighellonare spensierato tra i letti di maghe e sirene, sempre in fuga… chi se ne sarebbe lamentato? Lui, forse, meno degli altri. Giusto per arrivare rapidamente alla conclusione scontata: e cioè che un buon viaggio lungo quanto si vuole vale ben più di qualunque punto di arrivo, si chiami o no “Penelope”.

Per questa strada, sia chiaro, si finisce in bocca allo stereotipo politicamente corretto e perfettamente allineato lungo l’argine dell’epica contemporanea, in base al quale il percorso è enormemente più importante di ogni destinazione. È sul fondo di questa ovvietà para-scolastica che annaspano alcuni miei ricordi non poi così lontani. 

Non avevo la patente di guida, è un fatto, era un fatto, ora ce l’ho e mi par di capire due cose: che la comoda sicurezza dell’andare su automobile ben strutturata non può che spostarti a destra, gonfiandoti di orgoglio e di sufficienza rispetto alla strada e alle sue fatiche, stati d’animo con ogni evidenza non appartenenti a una sana etica di sinistra. La seconda verità discende dalla prima: se il mondo sta andando a destra, culturalmente, ciò è in gran parte dovuto alla diffusione delle patenti di guida e alle robuste scocche delle nostre auto, è questo intruglio magico che ci rende stupidamente tronfi e storicamente “a perdere”. 

Ero più di sinistra, prima. Quando, non possedendo da adulto la patente per motivi topografici – nato e a lungo vissuto a Venezia - ma divorato dalla curiosità e dal desiderio dell’avventura, non mi arrendevo all’impossibilità dell’andare lontano decisa dalla mancanza di quel documento: e qui si capisce anche come tra te e la patente il potere stia nelle mani della patente, non nelle tue.

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Quindi, mi ingegnai e i tempi erano maturi, lo sentivo bene, per trovare risposte. Così mi tuffai nel mercato dei mezzi di trasporto alternativi alle auto con targa. Salii a bordo di un’Ape Cross, stupefacente effetto! Però difficile da pilotare. Nessun volante tondo, manubrio nudo invece e con acceleratore a molla, di quelli che non vorresti mai perché se vai lontano dopo un paio d’ore lo sforzo di tenere sempre in tensione l’acceleratore può spezzarti il polso. E quasi me lo spezzai andando a trentacinque chilometri all’ora da Roma all’isola d’Elba, giro doppio dell’isola, e poi Piombino, Firenze, Roma. Immensa cosa, nessuno può sapere cosa voglia dire percorrere tutta quella strada, notte e giorno, su un’Ape, pure bellissima e discinta.

 La storia di questo magnifico mezzo, molto italiano in quella irresistibile cialtroneria estetica e nella fantastica genialità che la cova, meriterebbe un capitolo, ma veniamo al sodo. Il salto vero avvenne con una Isigò. L’avevo vista la prima volta nella sala di un concessionario e mi si era fermato il cuore: era bellissima, nera, lucida, comoda per due persone, perfino con l’aria calda, decapottabile facilmente, tutta intera, nuda e corpi in aria, e ancora non sapevo che si potesse guidare senza patente. Quando, imbambolato, chiesi al venditore e mi sentii rispondere che quella meraviglia era alla portata dei miei documenti, capii che l’avrei avuta perché non c’era destino in grado di separarci, era amore vero. Vetroresina molto spessa, una fusione unica, robustissima e anche costosa. Come una barca, e infatti teneva l’acqua sia dentro che fuori.isigo 2jpg

Lo so perfettamente: è come se Ulisse ti rompesse le balle col racconto dei suoi mezzi di trasporto invece che delle sue avventure sexy. Omero non ci sarebbe mai stato a questo gioco al massacro. Ma Ulisse non è mai andato da Roma a Vienna, e ritorno, a bordo di una Isigò, altro che tempeste e belle donne che amano, ordiscono, cantano e lavorano a maglia. Io sì. Questa è l’impresa delle imprese, di cui, al momento dei fatti narrati, non avevo alcuna consapevolezza, non ho mai pensato di fare cose straordinarie sul momento… il sospetto mi è venuto più avanti. Ma ciò che più conta, anche rispetto alla madre di tutte le imprese, è il ritmo routinario con cui per qualche anno salii da Roma a Merano, dove c’era l’amore, sempre a bordo di quella Isigò con i fianchi larghi e una voce incantevole. L’impianto hifi che avevo montato la rendeva una della auto più musicali del globo, ci si poteva organizzare una festa da ballo attorno, e così ho fatto in più occasioni.

Ecco: il dato politicamente più rilevante di questa storia sta secondo me proprio nella “normalità” con cui avevo accettato che “domani è sabato e quindi si va a Merano in “macchina”, non in treno che ci si annoia”… Quasi settecento chilometri, ma… evitando le autostrade dove un mezzo che va a una media di quaranta chilometri l’ora sarebbe una specie di bomba semovente. Mai saputo quanti siano da qui a lì i chilometri da coprire muovendosi esclusivamente tra strade statali, provinciali, comunali, niente raccordi. Molti di più, sicuro, anche perché colline e montagne non si scavallano facilmente, bisogna prima arrampicarsi e poi scendere in una serie davvero infinita di curve, questa è la “sinistra”, l’autostrada è un tempio della destra.

Ero molto di sinistra mentre staccavo dal lavoro al giornale in via Due Macelli, svuotavo il cassone della Isigò – parcheggiata sfacciatamente lì davanti - di sacchi di immondizia che i miei più cari colleghi e amici e compagni provvedevano a piazzare quotidianamente sulla vetroresina – per stupida gelosia – e partivo dal cuore di Roma destinazione Wolfstrasse, Meran, Suedtirol. Ore quattordici, ricordo bene quella volta, perché c’era un gran sole e il giorno urlava “vola a Merano”, dove tutto è diverso, le case medioevali son tutte colorate, i bovindo fanno esplodere i fronti esterni degli edifici, nell’aria c’è un gran profumo di wuerstel e di senape, le bollicine della birra fanno danzare anche i nonni col grembiule da contadino, le ragazze sono bellissime e quel sorriso parla un magnifico dialetto che massacra le asprezze del tedesco. Merano è già avventura, la sua diversità è avventura, poco o niente rischiosa, è vero, ma l’impatto tutto sommato molle che la città garantisce, assieme all’intero Suedtirol, non guasta, non ci interessa per nulla vivere da eroi.

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(Merano)

 Uscire da Roma alle prime ore del pomeriggio a bordo di un giocattolo decapottabile per andare in un posto così lontano che è meglio non pensarci…. e davvero non sai quando arriverai… è un tuffo enorme nell’ignoto non doloroso. Questo elementare movimento del corpo e dell’anima ti regala - e lo percepisci mentre ti infili lungo la Cassia direzione Viterbo - una eccellente dose di ebbrezza che non ha nulla a che vedere con il potere, quindi ritengo che il dispositivo, così asservito al puro piacere, non sia oggi di largo consumo, non goda del favore del mercato delle esperienze. Tra l’altro, col passare delle ore questo piacere muta e ti trasferisce da un mondo in cui la fisicità ha un ruolo potente mentre scorri il panorama, accarezzi profili collinosi, scopri mandrie di cavalli e grandi pozzanghere rettangolari in mezzo ai campi teneramente attrezzate con panchine e tavoloni lungo i brevi argini per i pic-nic di fine settimana, attraversi i centri di cittadine e villaggi, scoprendo che tra Roma e Merano sono attivi un numero impressionante, quasi ossessivo, di semafori del tutto invisibili dalle autostrade di destra... per sbatterti in un’altra dimensione, esclusivamente mentale, decisa dal buio che tutto cancella e le luci spalmate sull’asfalto dai tuoi fari sono pochissima cosa, quello che basta ad ingigantire il dominio dell’oscurità e a farti capire “che tu speriamo che te la cavi”.

Perché un conto è viaggiare in un’auto comoda in autostrada, altra cosa è risalire l’Italia, catene montuose in primis, seguendo solo strade di percorrenza locale, a bordo di una barca che non corre per terra, non è il suo mestiere, e che giustamente annaspa sui cavalcavia. Il sole, del resto, non può che tramontare, cinque sei ore dopo la partenza, fottendosene che tu, pur libero di non farlo, affronti una selva oscura aiutato da mezzi accettabili in un vasto soggiorno ma non nel nulla nero. Quattro parole che iniziano con la “n”. Nel nulla, la notizia è l’assenza, non la presenza: per esempio, il mondo ignora quanto siano desolati e deserti dopo una certa ora migliaia di frazioni, centri comunali, persino cittadine. Un mondo intero che ti appare ibernato, sparito, svuotato, contrade lussuosissime per storia monumenti e chiese e case e palazzi – lo sai perché da qualche parte hai letto il nome della località - ora involucri secchi e non comunicanti come conchiglie disidratate sulla sabbia. Niente e nessuno. Nel buio che ti sorprende non hai diritto all’orientamento e sempre meno al contatto con gli umani.

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(Verona)

Il dato ha il suo peso nella storia, perché se non hai il navigatore e non sai nemmeno che esiste, e forse allora non esisteva, ti capiterà di sicuro e non solo una volta, percorrendo settecento chilometri in uno sterminato zig-zag, di aver bisogno di una indicazione qualunque. Ma non l’avrai perché per centinaia di chilometri non incontrerai, di notte, nessuno. Bisogna capire: sei al buio totale, sbagli strada per un soffio, finisci nei guai troppo facilmente, basta una deviazione poco chiara, così cerchi qualcuno che ti salvi, che ti dica “di là”, ma non c’è nessuno, così pensi che non puoi andare avanti a casaccio, che quella pompa di benzina ti sembra di averla già vista, così cerchi ancora, procedendo a passo d’uomo tra ciuffi di case e un semaforo morto, come un maniaco a caccia di prede e tuttavia a bordo del più ridicolo dei mezzi di trasporto che mai sia stato visto nel nulla della notte più buia, nel liquido infido di quel mare in cui edifici e capanne nuotano assieme a boschi e montagne solo immaginate, quasi tutto è solo intuito nella marmellata della notte italiana.

Devi mettere nel conto la disperazione, sì. C’erano già i cellulari, vero, ma così mal serviti che era una fortuna capitare nel raggio di qualche ripetitore, quindi a lungo solo e isolato. Perché la notte procedeva e io andavo con lei. Avevo visto il sole alto nel cielo e il mondo inondato di luce, avevo seguito con pazienza il noioso tramonto, mi ero infilato nei misteri della notte dove sarei riuscito a dare splendida prova del mio carattere, resistendo alla disperazione e decidendo che sì, sarei andato di là e se poi avessi sbagliato strada sarei tornato sui miei passi, che non c’era problema, chissenefrega del tempo. A quaranta all’ora. In genere senza generi di conforto, bar chiusi, trattorie anche, spifferi fastidiosi dal telone che chiude il tetto, sete, “voglia di bestemmiare”. 

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(Brennero)

L’importante è tenere la rotta, Nord-Nordest. Su e giù per stradine di montagna di cui non intravvedi il ciglio, cartelli stradali massacrati di piombo da caccia, oscure indicazioni di pericolo, animali notturni che attraversano la strada, a quella rassicurante velocità che ti consentirebbe di contare senza affanni una ad una le strisce che separano la corsia di sorpasso. Tutto ciò ti accompagna verso l’alba con in cuore quel vago senso di sfinitezza che ti viene spesso dall’aver superato prove che avresti potuto affrontare sdraiato sul tuo letto e solo la meravigliosa scoperta della luce del giorno dà finalmente un senso discretamente oggettivo a quel che stai facendo. Non basta sapere che si è dalle parti di Verona, bisogna vedere che si è da quelle parti e finalmente lo vedi, certo non hai dormito nemmeno un minuto, certo si è viaggiato tra fantasmi e musica dei Buffalo Springfield, ma come Verona? Già a Verona? Mi pareva d’aver deciso che si passava da Padova e invece guarda tu che ti combina il destino.

Comunque, da lì è uno scherzo tagliare il traguardo, lo senti l’odore del Brennero. Ora hai il bersaglio nella testa, perché a portata di mano, quasi… e vivi in un altro modo, in compagnia del bersaglio, cosa che prima non accadeva e questo stato ti presta la souplesse che deve aver trasformato in un turista qualunque perfino Ulisse quando, poco prima di rimettere piede in casa, aveva compreso che non sarebbe riuscito ad inventare altre tempeste e Dei invidiosi per stare ancora a zonzo. 

Eccomi a Merano, raggiante homo novus, a bordo della mia Isigò quando il pubblico meno se lo aspetta e i bar aprono le porte, i krapfen fumano e le macchine da caffè si fanno le pulizie intime. I bovindo son sempre lì dove li sognavo, sono le otto del mattino, le orecchie rimbombano un bel po’, le gambe tremano, ma è roba passeggera, la piccola in vetroresina vibra forte d’amore acceso.


*TONI JOP (nasce a Venezia nel 1951. Inizia a lavorare per l’Unità verso la metà degli anni '70 interrompendo gli studi di Medicina. Dirige l’inserto locale prima di trasferirsi a Roma e di fare l’inviato, poi caporedattore di notte, capo degli Interni, capo degli Spettacoli. Corsivista e opinionista. Collabora con Panorama diretto da Carlo Rognoni. E’ tra le firme del sito “strisciarossa.it”. Autore di testi teatrali e di trasmissioni radiofoniche nazionali. Docente presso i master in giornalismo dell’Università di Tor Vergata. Autore del libro “Grillo in parole povere”, Città del Sole Edizioni, 2014)

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