Buenos Aires, Evita non abita più qui

di MANUELA CASSARA' e GIANNI VIVIANI* 

Talvolta succede, quando organizzo un viaggio, di pregustarlo prima ancora di partire. Mi ci dedico ogni giorno, ci ritorno sopra più volte al giorno, cesello l’itinerario, sostituisco gli alberghi, mi appunto le cose da fare, quelle da non mancare, persino cosa e dove mangiare. Penserete e non me la sento di contraddirvi: è una pazza maniaca del controllo... 

Ma fino ad un certo punto. Voglio spezzare una lancia a mio favore, perché sono disposta a farmi dirottare dagli imprevisti. Il fotografo compagno di vita mi lascia fare.  Tranquilli, prima che lo compatiate: non è una povera vittima. Lui, l’apparente accondiscendente, non si riesce a smuovere di un centimetro, se non gli va.  Tutto questo preambolo per dire che, a volte, un viaggio, magari mi delude.

In Argentina avevamo programmato di fare, in un mese, 7.500 km, con tappe a Iguazù, Salta, Mendoza, Cordoba, Bariloche, El Calafate, Ushuaia; spostamenti in aereo, date le distanze, da cui Buenos Aires come fulcro perché tutti i voli facevano capo alla capitale.  E poi avevo una missione, rintracciare mio nonno paterno. Aveva lasciato l’Italia nel dopoguerra, non l’aveva fatto per fame ma per mettere un oceano tra lui e la famiglia, dato che nel frattempo se ne era rifatta un'altra. Mio padre gliela aveva giurata, ma io ero curiosa, magari potevo ritrovarmi con dei cugini. Invece niente: le tracce di mio nonno si erano perse nelle spire del tempo e della burocrazia. Non una gran perdita, come essere umano non credo valesse un gran che, alla luce dei fatti. In famiglia era persona non grata.

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(Dall'aereo     foto di Gianni Viviani)

Vuoi per una cosa, vuoi per l’altra, alla fine a Baires avevamo finito per starci, allora mi era sembrato, un po’ troppo. Dall’aereo la capitale ci aveva accolto con una vista unica, spettacolare e tentacolare, con scenografici quartieri satellite, un’area di 200 kmq, per oltre 3 milioni di abitanti.

Avevo prenotato, al buio, sette giorni in un residence che mi sembrava un affarone, in quel di San Telmo, dove ne proliferano a decine, tutti simili per arredo finto design, gusto minimal e  prezzo modico. C’era da scegliere. Forse noi eravamo stati solo sfortunati. Perché, e ormai lo dovrei sapere, non è tutto oro quello che luccica su Booking.com. Nella realtà il nostro residence, El Candil de San Telmo, era abbastanza male in arnese, ma avevo già confermato la settimana. Barrio San Telmo ha il suo fascino, è il genere di posto che preferiamo, incasinato, recuperato, alternativo, vivo.  Per giovani, anche se noi non lo siamo più. Non so ora, ma nel 2016 era parecchio lasciato andare: magnifici edifici ma fatiscenti, serrande serrate, balconi arrugginiti, graffiti sui muri, ubriachi addormentati negli androni, marciapiedi sconnessi dove rischiavo il femore, diffuse secrezioni umane e canine di vario e puzzolente genere ad ogni pie' sospinto. Crocevia di etnie, protetto dall’Unesco, famoso per il suo mercatino d’antiquariato, per le numerose cervezerie, per i ristoranti di parrilla, che poi significa “alla griglia”, quello fanno e basta. Dopo un po’ ti ritrovi a sognare una caprese, una minestrina, un riso in bianco. Se sei vegetariano soffri davvero, se non lo sei, vai  in overdose di acidi urici.

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(Downtown      foto di Gianni Viviani)

Ogni giorno facevamo tappa al Mercado, tra Avenida Simon Bolivar e la Defensa, una di quelle tipiche strutture di metallo che mi ricordava il Covent Garden a Londra o la Les Halle di un tempo a Parigi: banchi di freschissima frutta e verdura, angolini accoglienti dove prendere un caffè o mangiare un boccone, arrampicati su uno sgabello, come a la Boqueria di Barcellona.   Poco lontano Plaza Dorrego, una piazza quadrata, circondata da eleganti edifici coloniali, dove esattamente duecento anni prima, nel 1816, era stata dichiarata l’indipendenza nazionale Argentina. In tempi più recenti, ogni domenica ospitava, immagino tutt’ora, una fiera dell’antiquariato, affollata di colorate carabattole e di eccentrici personaggi. Più tardi, smontati i baracchini, la piazza si trasformava in una milonga a cielo aperto, con tangueri anzianotti che sapevano il fatto loro e turisti impacciati, anch’essi in età, che provavano a stare al passo con movenze impacciate. Noi, che non avevamo il fisico ma in compenso eravamo dotati di un buon senso del ridicolo, avevamo desistito.Mafalda et moi separate alla nascitajpeg

(Mafalda et moi       foto di Gianni Viviani)

Appena scesi dall’aereo, nonostante il jetlag, eravamo subito andati a trovare Mafalda, che se stava seduta lì, tranquilla, rassegnata direi, sulla sua panchina, all’angolo tra Chile e Defensa. Dato che la considero un po’ la mia sorella elettiva, non avevo resistito alla foto di rito, io come migliaia di altri turisti. Ma l’impressione che mi era rimasta dentro, già quel primo giorno, anche solo girando per queste stradine, era stata la dolorosa percezione che, quarant’anni prima, questa città, questa Nazione, erano stati martoriati da una dittatura spietata che aveva eliminato in maniera brutale un’intera gioventù, colpevole di sperare e lottare in un mondo migliore. Per strada incontravamo molti anziani, coetanei probabilmente, con le borse della spesa o seduti a un caffè. 

E mi chiedevo, chi erano, cosa facevano, nel 1976, questi sconosciuti, quando erano ragazzi, cosa si confessavano, oggi, nella solitudine dei propri pensieri, cosa si ricordavano di quei giorni terribili? Vedevo su quei volti segnati, intristiti, in quel camminare curvo, trascinato, un dolore e uno sconforto radicati, che mi comunicava una grande tristezza. Erano tutti dei sopravvissuti, pensavo.  Ne avremmo incontrati tanti, ma con nessuno si sarebbe MAI parlato dei Desaparecidos. Un argomento tabù, che faceva ancora paura.  Eravamo stati in pellegrinaggio all’Esma, la famigerata Escuela de Mecànica de la Armada, oggi uno spazio della Memoria aperto a tutti, per cercare di onorare quelle 5000 povere vittime. Non entro nel merito, non si può, non ce la farei e sarebbe fuori luogo in questo pezzo leggero.

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(Amoreggiando al bar Sur       foto di Gianni Viviani)

Tornando agli incontri, alle persone. Capitava e ci sarebbe successo un po’ ovunque, di essere fermati per strada e che ci venisse chiesto, con una certa aspettativa  nella voce, “ Siete Italiani?” Perché questi sconosciuti argentini, uomini per lo più, in qualche modo lo erano tutti, Italiani; dentro, nel DNA, nel cuore. Chi aveva avuto il nonno, chi un padre o una madre, chi ci era nato, in Italia, e non era più tornato. Brevi incontri, arricchiti dai loro racconti, conditi dai loro ricordi, toccanti per i rimpianti. Li accomunava il sogno di tornare o venire per la prima volta in Italia. Un giorno, chissà, magari, ma forse anche mai, dicevano mentre ci salutavano, sconsolati.

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(Confiteria Ideal         foto di Gianni Viviani)

Una mattina, per trattarci bene, avevamo fatto colazione al Cafè Tortoni: fondato da un francese, ricordava le brasserie parigine. Un’istituzione, proclamato monumento Nazionale. Si dovevano essere montati la testa.  Fascinoso, sì, il posto aveva il suo innegabile fascino, ma era scuro, trasandato, polveroso. Dal 1880 nessuno doveva averlo più spolverato. O pulito i bagni. Luogo di ritrovo di letterati e glitterati, sede dell’Agrupación de Gente de Artes y Letra, frequentato da habituè come Carlos Gardel, Manuel Fangio e da ospiti illustri: Federico Garcia Lorca, Albert Einstein, re Juan Carlos… Di alcuni erano rimasti i busti, cosa che mi ricordava un cimitero. Anche i camerieri sembravano d’epoca, legnosi, impettiti, spocchiosi, annoiati.  Forse erano solo stufi di quei pezzenti dei turisti. Noi inclusi, che avevamo consumato, visti i costi, solo un caffè arrivato freddo e una medialuna, una piccola brioche molto compatta, qui pure rinsecchita.

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(La tanghera e il turista       foto di Gianni Viviani)

Presi dal sacro zelo esplorativo, per farci un’idea panoramica avevamo preso uno di quei bus rossi, che qui sono gialli. Un giro della città che durava tre ore e mezza, arrivava  ovunque bisognasse andare,  a San Telmo, Boca, Porto Madero, Palermo, Recoleta, un quartiere dopo l'altro senza soluzione di continuità.  Scelta infelice, nel mio caso.  Seduta al piano superiore, per non perdermi nulla, esaltata dall’aria frizzante, dopo la prima ora si era alzato un vento gelido presago e portatore, già in serata, di febbre, tosse, spossatezza e la sensazione che mi fossero passati sopra con un tir. Mi ero beccata un accidente, ero sicura di una polmonite incipiente. Il che potrebbe giustificare la mancanza d’entusiasmo degli appunti in presa diretta.

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(El Mercado a San Telmo      foto di Gianni Viviani)

Prima tappa lo Stadio Boca, la Bombonera, home dei Boca Junior sede della statua del Pibe de Oro, anche se qui il Maradona nazionale, da quest’anno, ha un concorrente, la statua di Riquelme,  che dall’alto del suo 1.83 lo sovrasta di una lunghezza. Luogo di culto, mi rendo conto. Il club è una leggenda mondiale, era riuscito persino a entusiasmare il sempre flemmatico Gianni, che si era precipitato a documentare i dintorni e mi aveva mollato ad ammazzare il tempo nei negozi di souvenir, in compagnia dei cartonati dei campioni formato reale. Dopo una mezz'oretta, e mi scuso con i fanatici del futboll, per me di noia estrema, eravamo risaliti per continuare il nostro giro di Boca, che è un quartiere male in arnese, se non fosse per un trittico di stradine dipinte con colori sgargianti: il Caminito.  Un’efficace trovata di marketing di un artista, uno che di cognome faceva Martin, che negli anni '60 aveva acquistato qualche barattolo di vernice e dato una bella ripulita a quelle povere casette di lamiera sconnesse. Il risultato era un caleidoscopio di colori vibranti, un'altra tourist trap di sicuro, per dirla alla Lonely Planet, ma molto fotogenica.

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(Evita             foto di Gianni Viviani)

Coppie di ballerini di tango cercavano di coinvolgere i tanti spaesati turisti che cedevano con aria smarrita e divertita. Gli uomini irretiti da ballerine senza età che gli si avvinghiavamo addosso come mantidi religiose, con le loro gambe tornite e prensili. Ricordo corpi flessuosi, volti provati, rossetti sbavati, vestitini succinti e spiegazzati.  Le turiste, invece, erano facile preda di maschi dal baffo malandrino, il completo gessato, liso e stazzonato, ribaltate senza troppe cerimonie in casquè azzardati, da colpo della strega assicurato.

Mi facevano tristezza, quei ballerini di strada.  Andare in scena, giorno dopo giorno, maledicendo il sole ma facendo gli scongiuri contro la pioggia, mettendosi ogni volta la maschera della seduzione, anche se i piedi non ne potevano più.

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(Il ponte di Calatrava      foto di Gianni Viviani)

Per pranzo ci eravamo rifugiati in un angoletto semi nascosto: il Gran Paradiso, un paradiso davvero, arredato con pezzi di modernariato sconquassato, dove tutto era colorato, all’interno di un giardino profumato di verbena; c’eravamo concessi un paio di sostanziose arrepas, caloriche focaccine imbottite, molto goduriose, innaffiate da due bicchieri di Quilmes, la birra più gettonata di Baires,  bella gelata.

Ero riuscita a trascinare di malavoglia Gianni al Museo di Evita Peron. Trattandosi di un’icona in odore di santità, dato il senso dell’immagine della defunta, mi sarei aspettata qualcosa di più opulento, invece mi era sembrato sottotono, piccino: poche piccole stanze, qualche foto sgranata, degli spezzoni di filmati in bianco e nero, e poi una serie di spettrali manichini in opulenti abiti da sera, o con dei tailleur severi e fascianti, a misura di un corpo esile, curati e coordinati con gli accessori, scarpe e cappellini vezzosi. Poca roba. Una ventina di capi in tutto. Era bionda, elegante, la Signora Peron, nata Duarte, di una bellezza non ostentata, ingioiellata senza strafare, si dava da fare, un gran da fare per i meno fortunati.  Figura complessa, non una protagonista d’operetta, viveva nel lusso ma si batteva per i poveri, per i lavoratori, per i diritti delle donne, per diffondere la scolarizzazione. Da attricetta di serie B, la sua scalata sociale era stata tattica e veloce: amante di Juan Peron, poi moglie, poi attivista politica, poi fondatrice di un suo partito, poi pronta a farsi eleggere Vice-Presidente, per poi rinunciarci, da vera santa, vuoi per pressioni politico-sociali vuoi per quel tumore all’utero, fulminante,  che la ucciderà a trentatré anni.  Al suo funerale una folla senza fine, più che per Lady Di.  Ma tutto questo si sapeva, ce lo aveva raccontato Madonna, come si raccontano le cose nei musical, senza sfumature.

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(La Subte      foto di Gianni Viviani)

Cinquanta e passa anni dopo,  il suo stile sembrava aver lasciato il segno: niente capelli Rosso Menopausa, niente riccioletti ingrigiti qui a B. A. solo variazioni di Biondo Evita e acconciature a chignon per signore dalla carnagione olivastra, che nascono brune e, come lei, sfoggiano rossetti carminio, agghindate in quel suo stesso modo dignitoso, per bene e compassato.

Determinata a omaggiarla, eravamo passati davanti alla Casa Rosada, solo per essere dirottati da alcuni sbarramenti della polizia, e così eravamo andati a cercare  la sua  tomba, in quel labirinto di monumentali mausolei di famiglia che è il cimitero di Recoleta,  immaginando qualcosa di celebrativo, di grandioso. E invece, avevamo trovato e solo dopo numerosi tentativi, anche quella sua ultima dimora sottotono, una piccola anonima lapide scura, con dei patetici fiori finti impolverati.

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(Modernariato a San Telmo     foto di Gianni Viviani)

Ligi alla lista di Cose da Non Perdere, altra tappa obbligata. La Confiteria Ideal, il tempio del Tango! Me l'aveva decantata un'amica invasata, che vi si era dedicata anima e corpo, e che non nomino perché me la farebbe pagare. Per amor suo e per amor del mito, avevo convinto Gianni, per la verità scettico, irretendolo con la promessa di poter immortalare i calienti contorcimenti dei professionisti.  Alle tredici il locale era deserto.  Ovviamente. Ma alle quindici, ci avevano rassicurato, si sarebbe riempito. Puntuali, dopo un pranzo da dimenticare in un locale affollato, la sala era  ancora tristemente punteggiata da pochi tavoli distanziati, una bella coppia nordica sulla quarantina in uno, un giapponese di mezz'età, che si faceva notare per un paio di improbabili sneakers rosa shocking in un altro, e altri due tavoli, oltre al nostro, ciascuno di quattro persone, voyeur come noi.

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(Murales         foto di Gianni Viviani)

Una musichetta sottotono aveva iniziato ad alleggerire quella lugubre atmosfera di attesa, ma la pista rimaneva vuota, come lo sguardo di Gianni.  Perso nell’insoddisfatta ricerca del tango perduto, stava rassegnandosi all’ennesima fregatura. Avevamo alle spalle un primo spettacolo deludente e uno, più soddisfacente,  al Bar Sur, dove la coppia di ballerini, neo sposini, ci aveva regalato attimi di passione. C’era stato anche un pomeriggio domenicale infruttuoso, in Plaza Dorrego,  luogo dove la milonga avrebbe dovuto essere spontanea e ricca di pathos, ma che si era rivelato l’ennesimo posto per turisti e ci aveva lasciato freddini, nonostante l’impegno di una ballerina tracagnotta che saltellava con grande energia. Questo era il quarto tentativo, per Gianni il colpo di grazia.  Finalmente la coppia dei due quarantenni longilinei si era alzata per cimentarsi in una serie di volenterosi  ma alquanto legnosi volteggi. Lei era una fenicottera con un paio di gambe notevoli, anche se un po’ rigide. Ma chi sono io per scagliare la prima pietra. Due giravolte imbarazzate, e si erano subito seduti. Aveva vinto la consapevolezza. Poi il colpo di scena che ci aveva fatto sperare: il timido giapponesino, piccoletto e rotondetto, si era cambiato le sneaker per un paio di professionali bicolore marrone e aveva invitato la bionda, che lo sovrastava di una testa.  Una strana coppia, una storia che non poteva durare; li divideva il gap anatomico, oltre all’evidente mancanza di bravura di lei. Il piccolo giap, se n’era tornato al suo posto e, sconsolato, aveva affogato il dispiacere in una bottiglietta di Perrier a temperatura ambiente.

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(Street art      foto di Gianni Viviani)

 Molti ricordi si sono nel frattempo offuscati, sono passati quattro anni e tanti sono stati rimossi. Ricordo che ci erano venute le vesciche, a girare a piedi per Baires. Nonostante le sette linee dell’efficientissima rete metropolitana, la Subte, preferivamo la superficie, alla scoperta di una moltitudine di street art sorprendente e spontanea, affascinati e addolorati dalla bellezza asburgica di certi palazzi decaduti,  sorpresi dall’ imponenza dalle prospettive esagerate di quelle avenidas smisurate, come la 9 de Julio, la più grande del mondo,  140 metri di strada, più larga di un campo da calcio, riconoscibile anche dall’aereo.

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(El Pibe de oro        foto di Gianni Viviani)

Ricordo un giro dimenticabile nel quartiere Palermo, suddiviso in  tre sotto quartieri che ne raccontano l’ambizione street wise: Palermo Soho, Palermo Hollywood, Palermo Chico. Non che esistesse una differenziazione; ovunque boutique, caffè, ristorantini e una diffusa atmosfera da chill out modaiolo. Noi ci eravamo prenotati, per  cena, da Don Julio per l’ennesima parrillada, che mi era piaciuta perché ti portavano un sacco di ciotoline piene di salsine con variazioni sul tema chimichurri, che poi erano la cosa migliore della grigliata. E qui mi scuso con gli amanti delle fiorentine, ma non ne potevo più di bisteccone. Avevo persino cercato un sushi disperatamente. Non lo fate. Inutile.

 Ci era piaciuta, architettonicamente parlando, Puerto Madero, ci eravamo ritornati due volte, per pranzare fronte canale da Cabanas Las Lilas, che aveva il pregio di fare un’ottima tartare di salmone e avocado e dei dessert aggraziati.  Avevamo camminato lungo il canale, traversato il Puente de la Mujer, così distintamente Calatrava, con quella spina bianca che indicava il cielo,  per andare a curiosare al Foena Hotel di Philippe Stark, che aveva dei bagni regali e una piscina imperiale nella quale galleggiava un enorme corona dorata. Facevano un ottimo Negroni, va detto a loro merito imperituro.

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(La Repubblica de la Boca         foto di Gianni Viviani)

Rinfrancati e traballanti, avevamo aggiunto un breve giretto nell’adiacente Reserva Ecologica Costaner Sur, circondati da joggers e famigliole, luogo che sicuramente avrebbe richiesto più del nostro tempo.  La statua a Lionel Messi, ancora non c’era, l’avrebbero inaugurata l’anno dopo, a Giugno.

Ho iniziato dicendo che forse c’eravamo stati troppo a lungo, a Buenos Aires, sottintendendo che mi ero pure un pochino stufata. Chiudo e concludo, dopo aver scritto queste righe, con la convinzione che invece ci eravamo stati proprio poco, che ne avevamo solo scalfito la superficie, che il fascino e la cultura e l’anima vera di questa città misteriosa è ancora tutto da scoprire.   Sono rimaste, per fortuna, le foto di Gianni, che più di tante parole ne svelano il volto complesso, vitale, ancora dolorante e la forza rigenerante che la pervade. 


*MANUELA CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto) 

*GIANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast ha documentato con i suoi still life i prodotti di molte griffe del Made in Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di Repubblica. La sua passione più recente sono le foto di viaggio)


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