Bisanzio in Calabria, fra la 'nduja e le shcattiate

di CARLO PONTORIERI* 

Quella della Calabria bizantina è una vicenda rimossa per secoli, ma ai nostri giorni è riemersa come costitutiva dell’identità calabrese. La pronunzia e i dialetti locali hanno sempre mostrato in realtà più di una traccia della sua memoria, ma tali tracce sono state spesso ricondotte erroneamente alla più “nobile” presenza magnogreca: a partire da certe dentali o bilabiali, che accomunano significativamente l’accento di questa parte d’Italia a quello salentino, il finale in “oti” per indicare gli abitanti dei luoghi, i toponimi e la stessa onomastica familiare, quando questa ancora deriva da millenarie devozioni religiose.

In realtà, la storia della Calabria bizantina, ovvero di quella che è stata chiamata la “seconda colonizzazione greca”, risale al VI secolo d.C., precisamente al 554 d.C., quando l’imperatore Giustiniano riconquistò l’Italia, dopo la cosiddetta caduta dell’Impero romano d’Occidente. Al di là delle alterne vicende di questa riconquista nel resto della Penisola, da allora gran parte di questi luoghi divennero bizantini e lo rimasero per oltre 500 anni, appartenendo a quella pars orientis dell’Impero romano, che invece nel resto dell’Europa occidentale era tramontato per sempre.

Questo significò per la Calabria istituzioni politiche bizantine, la persistenza della vigenza del diritto romano, il ripristino della lingua greca - seppur in un impero ancora ufficialmente bilingue - per l’obbedienza delle diocesi locali al Patriarca di Costantinopoli, e dunque per la presenza di riti religiosi greci, e persino un nuovo nome. Per gli antichi romani, infatti, quella che noi oggi chiamiamo Calabria era il Bruttium, la terra dei Bretti, popolo di lingua osca, mentre la Calabria propriamente detta era il Salento (ecco che ritorna il Salento); ma è proprio dall’epoca bizantina che il Bruzio diventa Calabria, mentre il Salento prende il nome di Terra d’Otranto.

La riscoperta della Calabria bizantina si deve a Paolo Orsi, il grande archeologo e antichista trentino, il quale, divenuto Sovrintendente alle Antichità di Sicilia e Calabria sul finire del XIX secolo, fu protagonista nei decenni successivi di campagne di studio e di scavo nelle due regioni che ormai fanno parte della storia patria, non solo dell’archeologia. Fu Orsi a scoprire la presenza in Calabria di monumenti e luoghi di culto di chiarissima ascendenza bizantina, rendendoli così noti all’Italia e al mondo.

Oggi, dopo un secolo dalle ricerche di Orsi, è nato il Cammino basiliano, sul modello di analoghe esperienze di altri paesi d’Europa. Il Cammino, patrocinato dal Consiglio regionale calabrese, verso cui lo stesso Ministero dei Beni culturali sembra mostrare attenzione, andrà da Nord a Sud, alla ricerca dei santuari e delle testimonianze di quella storia: un lungo tragitto attraverso la cultura, l’arte, il patrimonio enogastronomico e quello naturale, che si snoderà per oltre mille chilometri, da Rocca Imperiale (solo omonima della Piovarolo di Totò) fino a Reggio Calabria, attraversando ben 120 centri in 56 tappe.

Per chi invece fosse più sedentario, e preferisse la moto o l’automobile ai lunghi tragitti a piedi, ma volesse conoscere alcuni luoghi su cui in Calabria ancora aleggia lo spirito di Bisanzio, proponiamo qui alcune tappe, attraverso quattro province calabresi, da Sud verso Nord, seguendo il percorso degli antichi monaci basiliani: un viaggio che si conclude in bellezza a Rossano, non a caso chiamata oggi la “Perla bizantina”.

Comincerei da Stilo, in provincia di Reggio Calabria, il paese di Tommaso Campanella, l’autore della Città del Sole (e forse non è privo di significato che i due maggiori intellettuali calabresi di tutti i tempi siano stati pensatori del futuro, come Gioacchino da Fiore e, appunto, Tommaso Campanella). Per raggiungere Stilo, oggi un borgo delizioso inserito nel circuito dei “Borghi più belli d’Italia”, a poco meno di 400 metri sul livello del mare, da dovunque si arrivi si devono attraversare boschi maestosi di faggi, abeti bianchi e castagni, con l’aria che si fa frizzantina anche d’estate, ma solo dopo che è tramontato il sole.

Ecco, il sole. Forse è solo una suggestione, ma chi visita Stilo pensando a Campanella non può non notare che il paese sorge ai piedi della cima di un monte, il monte Consolino, mentre si affaccia ad Oriente sulla foce della fiumara Stilara (sì, non c’è stata grande fantasia nella denominazione).  Il monte alle spalle dunque anticipa il tramonto di qualche ora, facendo calare presto Stilo nell’oscurità, ma quando viceversa il sole sorge al mattino dal mar Jonio, gode dello straordinario proscenio naturale costituito dalla foce della fiumara, come ad accogliere festosamente ogni alba che illumina il paese.

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(La Cattolica di Stilo)

Poco più in alto dell’abitato di Stilo c’è la Cattolica: una piccola chiesa, che arrivando vi farà pensare di essere stati improvvisamente catapultati in Grecia, in Turchia o in Serbia. Non è un caso. L’impianto architettonico della Cattolica, nelle sue linee fondamentali, in realtà si ritrova spesso nei luoghi di culto bizantini, non solo in Calabria, derivando da un preciso ordinamento edilizio emanato dopo il terremoto di Costantinopoli del 557 d.C.. Quel sisma fu un evento disastroso: l’abitato della capitale dell’Impero venne quasi interamente raso al suolo, e la città l’anno successivo fu invasa dagli Unni, che approfittarono del crollo anche delle sue mura. A quel tempo, Giustiniano rinunciò alla corona e alle altre insegne imperiali per quaranta giorni, in segno di lutto e penitenza, mentre una liturgia annuale fu successivamente aggiunta nel calendario religioso per commemorare l'infausta data.

La Cattolica di Stilo, costruita riutilizzando i mattoni rossi provenienti dall’antica città romana di Scolacium (la patria del letterato e storico Cassiodoro), di pianta quadrata, con un impianto a croce greca sormontata da quattro cupolette, in origine aveva l’interno ricoperto interamente da affreschi, con vari cicli pittorici di differenti epoche, di cui oggi sopravvivono, tra l’altro, un Cristo Pantocratore, una Dormitio Virginis e raffigurazioni dei santi dell’Oriente greco: San Basilio di Cesarea, San Nicola e San Giovanni Battista, per la tradizione ortodossa il Precursore. L’interno è caratterizzato da uno spettacolare ritmo di colonne – tema architettonico che ritroveremo altrove – e nella prima colonna a destra si ritrovano due iscrizioni. Una reca significativamente la scritta in greco: “La salvezza viene da Oriente”; mentre la seconda, quasi graffiata, riporta la professione musulmana di fede: "Non c'è Dio all'infuori del Dio unico", ricordo, evidentemente,anche di una presenza araba in quel luogo.

Non lontano da Stilo troviamo la Grotta di Monte Stella di Pazzano, un eremo in cui si venera Santa Maria della Stella o Santa Maria della Scala (per una lunga scala che si deve percorrere per accedervi). La presenza di un affresco che rappresenta Santa Maria Egiziaca, eremita dopo la conversione, lascia pensare fosse in origine la sede di una comunità eremitica femminile.

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(La Cattolica di Stilo)

Rimaniamo in provincia di Reggio, ma spostiamoci sulla costa tirrenica e saliamo fino a Monte Sant'Elia, a quasi 700 metri d’altezza. Stavolta non ci sono importanti testimonianze architettoniche o artistiche, piuttosto un luogo di bellezza incomparabile. Questo monte una volta era uno dei centri più importanti del monachesimo orientale: vi soggiornarono monaci eremiti e santi, oggi venerati congiuntamente dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa: San Nilo, San Filarete o Sant’Elia, appunto, che qui è sepolto. È da ricordare che il monachesimo orientale, a differenza di quello occidentale-benedettino, aveva al suo centro l’ascesi e la vita eremitica, l’isolamento dal mondo, spesso in grotte: del resto la stessa parola monaco, in greco monachòs, significa persona che vive da sola, solitaria.

Ma nulla sopravvive di quell’epoca su questo monte: solo una piccola chiesa novecentesca di rito cattolico, dedicata a Sant' Elia e posta sulla sommità di questo crinale dell’Aspromonte, ne ricorda il passato. Il luogo resta però uno dei più suggestivi della Calabria, per il panorama mozzafiato di cui si può godere: a picco sul mare, con di fronte lo Stretto, la Sicilia e le isole Eolie, si spinge a Nord fino al Golfo di Sant’Eufemia. Si capisce perché fu scelto come luogo di ascesi e contemplazione, sospeso com’è tra cielo, mare e terra.

Un camminamento realizzato (o ripristinato) in questi ultimi anni sui costoni della montagna, chiamato Sentiero del Tracciolino, permette di raggiungere a piedi il mare e godere di scorci indimenticabili. Ma, come direbbe Fossati, “ci vogliono scarpe buone e gambe belle”, e soprattutto cuore e polmoni d’acciaio, ovviamente ancor di più se si vuole fare questo percorso in ascensione. Il monte di S. Elia è rinomato anche per la presenza di trattorie e ristoranti tipici, dove la cucina di pesce reggina, fondata innanzitutto sul pescespada, si sposa con quella di terra, tipica di tutta la regione.

Ritorniamo ora sul versante ionico e andiamo a Santa Severina, nel Crotonese. Qui troviamo il luogo religioso aperto al culto più antico della Calabria, anch’esso attribuito all’età bizantina da Paolo Orsi. È uno stupendo battistero della fine del IX secolo, un edificio cupolato a pianta centrale, con un fonte battesimale, che gli studiosi hanno scoperto realizzato nell’attuale Turchia, e tracce di tre cicli pittorici. Di nuovo uno spettacolare ritmo interno di colonne: su alcuni capitelli sono sempre leggibili delle iscrizioni in greco.

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(Il Battistero di Santa Severina)

Il Crotonese è anche la terra del vino di Cirò, che, secondo la leggenda, i magnogreci offrivano come premio ai vincitori di Olimpia: non può mancare perciò una degustazione di questo antichissimo vino, oggi declinato anche come rosato o biologico. Poco conosciuta fuori della Calabria è un’altra specialità del luogo: la Sardella, una sorta di “’Nduja di pesce”, una conserva piccantissima composta da bianchetto di pesce azzurro, peperoncino rosso e semi di finocchio selvatico. Se poi è di minutaglia di triglie, assume un colore rosato e diventa Rosamarina, ed è ancora più pregiata e gustosa.

A proposito di ‘Nduja, andiamo allora a Zungri, in provincia di Vibo Valentia,vicino Spilinga, patria del famoso salume. A Zungri si trova il villaggio rupestre detto degli “sbariati”: un villaggio non a caso chiamato anche “la piccola Matera”: scavato nel tufo del monte Poro, con abitazioni ipogee, cioè sotterranee, si sviluppa per una superficie di circa 3.000 mq, con una sofisticata rete idrica e strade interne costituite da lunghissime scalinate, realizzate dal monte verso la valle. Anche se origini e storia del luogo, di grandissima suggestione, sono ancora discusse, immaginandosi il suo sviluppo soprattutto nei secoli successivi, il suo impianto col grande deposito di grano è ritenuto databile invece all’età bizantina, intorno al IX-X secolo d. C.

Nei paesi del Poro è obbligatorio l’assaggio della ‘Nduja e di tutte le varietà locali di insaccati, ma anche della “Pitta” con tonno e cipolla rossa di Tropea, dei fagioli di Caria, squisita via di mezzo tra cannellini e tondini. Il tutto da accompagnare, mi consentirete, col potente vino rosso dei colli di Nicotera, celebrato anche da Luigi Veronelli e Giuseppe Berto, che da queste parti venne a medicare, in solitudine, come un eremita del tempo che fu, il suo “male oscuro”.zungriJPG

(La rovine di Zungri)

Continuiamo a viaggiare verso Nord e arriviamo così a Rossano, in provincia di Cosenza, non lontano dalla Sibari-Thurii di Erodoto. Rossano, da qualche anno comune unificato con Corigliano - il paese del calciatore e ora allenatore Gennaro Gattuso - tappa finale di questo nostro breve viaggio, è chiamata, come detto, la “Perla bizantina” o anche “la Ravenna del Sud”.

A Rossano le testimonianze bizantine infatti si moltiplicano: la chiesa di S. Marco, anch’essa di forma quadrata e pianta a croce greca, si dice voluta da Euprassio, protospatario, cioè primo spatarios, governatore, delle Calabrie, come tale membro di diritto del Senato di Costantinopoli: una chiesa, originariamente dedicata a Sant' Anastasia, nei pressi di un’area di laure eremitiche, cioè di celle e grotte dove i monaci si ritiravano in contemplazione, salvo riunirsi per la preghiera comunitaria e le liturgie proprio in questa piccola chiesa; la chiesa della Panaghia, risalente all' XI secolo, e dedicata alla Madonna (pan – haghìa = tutta santa), con due affreschi che rappresentano santi “greci”: San Giovanni Crisostomo e di nuovo San Basilio di Cesarea; la stessa cattedrale del paese, dedicata a Maria Santissima Achiropita: una cattedrale ora in stile barocco, a tre navate e tre absidi, con torre campanaria e fonte battesimale, che deve il suo nome a un’icona della Madonna, detta Acheropita, ossia non fatta da mano umana, che troneggia sull’altare, di datazione probabile tra il 580 e la prima metà dell'VIII secolo: piena epoca bizantina, dunque.

E proprio nella sacrestia di questa cattedrale fu ritrovato nel XIX secolo dal teologo protestante tedesco Adolf von Harnack il Codex purpureus rossanensis, un manoscritto oggi riconosciuto Patrimonio dell’Umanità e inserito dall'Unesco tra i 47 documenti del Registro della memoria mondiale.

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(Il Patirion)

A questo punto occorre ampliare lo sguardo.

Il Tardoantico più in generale è stato per molto tempo un’epoca poco conosciuta e poco amata, forse per un pregiudizio classicista. Ma in realtà il Tardoantico è alla base della nostra civiltà, certo non meno di altre epoche storiche. E per un motivo ben preciso: è questa infatti l’epoca in cui viene inventato il libro, il libro come noi lo conosciamo oggi (gli antichi romani infatti non conoscevano i libri, piuttosto la loro scrittura era affidata a rotoli di pergamena e a tavole cerate); libro a cui fu dato il nome di codex. La nuova tecnologia del libro, anche a seguito di diverse contingenze storiche, portò durante quei secoli a una sorta di “ossessione codificatoria”, cioè alla formulazione autoritativa e definitiva in “codici” di vari testi ed esperienze, fino ad allora disperse in una pluralità di fonti scritte od orali.

Fu così codificata la Bibbia ebraica, in greco (la famosa Bibbia dei Settanta); alla Mishna, la tradizione orale rabbinica, già trasferita in scrittura nel 200 d.C., fu aggiunta la Gemarah, i commenti rabbinici successivi: nacque così il Talmud; anche i cristiani codificarono i loro Vangeli, che chiamarono canonici per distinguerli da quelli detti apocrifi; Giustiniano codificò mille anni di diritto romano nel suo Corpus iuris civilis; mentre un secolo dopo Mohammed unificò e rifondò i culti abramitici presenti nel Medio Oriente, attraverso un libro che si vuole dettato da un angelo: il Corano.

La Bibbia, tanto ebraica che cristiana, il Talmud, il diritto romano, il Corano, raccolti in testi definitivi, che valgono fino ad oggi. Una nuova tecnologia che divenne una rivoluzione culturale, religiosa, politica. E che fonda il presente, nelle varie “civiltà del libro”.

Il Codex purpureus rossanensis si colloca in un crocevia decisivo di questa storia. Fu realizzato verosimilmente negli stessi anni in cui Giustiniano aveva incaricato Triboniano, Teofilo e gli altri grandi giuristi che gli facevano corona, di realizzare la più grandiosa codificazione del diritto della storia; di certo, come la codificazione giustinianea, è di ambiente e cultura bizantina, forse realizzato ad Antiochia in Siria da un ignoto amanuense e poi portato a Rossano da un monaco in fuga a causa dell'invasione araba,tra il IX e il X secolo d.C.; ma soprattutto è davvero esito di una codificazione, poiché è uno dei primi testi che conosciamo che riporta i soli quattro Vangeli canonici ufficialmente riconosciuti: come mostra la prima miniatura, che contiene i simboli dei quattro evangelisti, secondo l’elencazione che si fa risalire a Ireneo di Lione. E, come aggiunta significativa sul piano dell’acribia filologica, il Codice di Rossano contiene anche la Lettera di Eusebio a Carpiano sulle concordanze tra gli stessi Vangeli.

In realtà, questo straordinario libro è pervenuto a noi incompleto, essendo oggi formato da solo 188 fogli dei probabili 400 originari, persi forse in un incendio accidentale, forse bruciati da qualche cattolico troppo zelante. Vi sono i Vangeli di Matteo e Marco, quest’ultimo mutilo dei versetti 14-20 conclusivi dell’ultimo capitolo, e una parte della Lettera di Eusebio citata.

Il Codex è anche un capolavoro di arte bibliografica. Deve il suo attributo “purpureus” alla colorazione porpora della pergamena, straordinaria sul piano visivo. Anche l’uso di questo colore non sembra privo di significato: il rosso porpora è infatti il colore dell’imperium, ma è pure il colore del Cristo, quasi a rappresentare cromaticamente l’assetto teocratico dell’impero bizantino. Il testo è in greco, vergato in oro e argento in scriptio continua, cioè le parole non sono staccate l’una dall’altra e non vi sono segni di interpunzione, salvo il punto. Ma soprattutto sono meravigliose le miniature: alcune pagine sono infatti composte da una scena evangelica sul lato superiore, poi il testo, in basso figure di profeti a commento.

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(Particolare del Codex purpureus: la resurrezione di Lazzaro)

Il Codex purpureus è uno dei capolavori della bibliografia di tutti i tempi che, da solo, merita il viaggio a Rossano.

Una pausa a questo punto è necessaria. Per rifocillarsi, tra i piatti tipici di Rossano ricordiamo innanzitutto le alici, con gli spaghettoni e il pomodoro, o al forno in tortiera, o ancora shcattiate, cioè fritte in olio e salsa di peperoncino (shcattiare significa scoppiettare, le alici devono perciò scoppiettare durante la frittura). E poiché finora non vi ho citato neanche un bianco, consiglio di accompagnare queste alici rossanesi con un bel Terre di Cosenza Doc bianco. Tra le tipicità di Rossano, come ovunque nel Cosentino, si ritrova la pasta fatta a mano con i ceci; come sempre nello Ionio calabrese, la Sardella, anche come ripieno di piccole girelle di pasta di pane. Tuttavia, il più famoso tra i prodotti di Rossano è sicuramente la liquirizia. Se non siete ipertesi, consiglio i buonissimi Sassolini, con l’ulteriore avvertenza che danno quasi dipendenza: sono irresistibili e si mangiano uno dopo l’altro, finché non finisce la scatola.

In conclusione del nostro viaggio, tra Rossano e Corigliano, nella Sila greca, troviamo il Patirion, un complesso monastico voluto, dopo la conquista normanna, da Bartolomeo da Simeri, un monaco eremita e santo, che decise fosse là il suo cenobio. Se l’impianto reca persistenze della cultura bizantina, il suo pavimento in mosaico, del XII secolo, è il segno del ritorno della Calabria al mondo latino.

L’XI secolo è infatti l’epoca dell’invasione normanna, sostenuta dal papa di Roma. I bizantini sono scacciati dalla Calabria, i Normanni fondano o rifondano centri e città,spesso in luoghi più protetti rispetto ai siti originari, la regione si puntella di castelli, torri e fortezze.

Da quel tempo la Calabria lasciò l’Oriente e riprese a far parte dell’Occidente: ritornò la lingua latina nei documenti ufficiali, le diocesi calabresi furono sottratte al Patriarcato di Costantinopoli e accluse alla giurisdizione del Papa di Roma, anche se a molte di esse fu concesso di rimanere di rito greco.

Nell’architettura nacque un’ibridazione di stili, che corrispose al soft power normanno. Bisognerà aspettare invece gli esiti del Concilio di Trento, nel XVI secolo, nell’ambito del più generale richiamo all’ordine imposto dalla Controriforma, perché le diocesi di queste terre passassero al rito latino e una coltre di oblio coprisse i cinque secoli della Calabria bizantina.

Finché, nell’epoca del giovane Stato unitario italiano, non arrivò proprio da Trento un archeologo geniale a riscoprire anche questa storia.

 

Per chi volesse approfondire:

Per il Cammino basiliano cfr. la pagina Facebook di Lupia Carmine.

Paolo Orsi, Le Chiese Basiliane della Calabria ult. ed. 2009, Meridiana Libri.

Francesco A. Cuteri, Percorsi nella Calabria bizantina e normanna, Koinè 2009

L’edizione in fac-simile del Codex Purpureus Rossanensis, realizzata dalla Salerno editrice, con tiratura di 750 esemplari numerati, è oggi esaurita.

 

*CARLO PONTORIERI (Insegna diritto romano all’Università della Calabria, ma è convinto di capirne anche di musica, vino, politica e soprattutto pallone. Ha pubblicato altre cose qua e là)