Berlino, quando il due diventa uno


di GIGI SPINA                                                                                                                                            

Amleto Vingiani, che non conosco, ha dieci anni meno di me e a Berlino ci è andato nel 1986 (https://tinyurl.com/yayd83ch). Non potevamo incontrarci, perché io ci sono andato nel 1967, solo che il suo racconto ha messo in moto i miei ricordi, che assumono quindi la forma di un prequel, cui non manca un sequel.

Dovevo laurearmi in lettere classiche alla Federico II di Napoli e a quel tempo i futuri Relatori (il mio era Francesco Sbordone) imponevano di studiare il tedesco, che era la lingua della Altertumswissenschaft: ora la lingua è quella dei Reception Studies; la nostra furoreggiava qualche secolo prima. Lo studiai alla Berlitz di Salerno, con una professoressa austriaca che un giorno, stanca della nostra pronunzia, ci pregò di non chiedere l’ora – Uhr – aspirando l’iniziale come in Hure, che significa invece ‘puttana’. Ricordo ancora la mia vergogna.

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(foto di Gigi Spina)

In ogni caso, fra luglio e agosto 1967 mi aspettava un mese a Berlino, per seguire con un’altra ventina di italiani un corso di lingua. Ne avrei approfittato per consultare libri utili per la mia tesi, per fare la mia prima esperienza all’estero (avevo 21 anni) e naturalmente per perfezionare la lingua.

L’impatto con Berlino Ovest, che raggiungemmo attraversando in pullman la Germania Est lungo corridoi strettamente sorvegliati, fu molto forte. Era tutto grande, magnifico, imponente. Riportai da Berlino non foto (mi chiedo ora perché non avessi portato con me la cinepresa Kodak o almeno una macchina fotografica) ma 6 cartoline di grande formato (Hans AndresVerlag), attraverso le quali almeno un tipo di ricordo è stato fissato.

Per un appassionato di musica come me non mancarono le sorprese. Riuscii ad ascoltare un concerto d’organo nella nuova chiesa da poco costruita accanto alla Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche, rimasta a testimoniare con le sue ferite e mutilazioni i bombardamenti e la guerra. Una toccata e fuga di Bach, la più famosa, quella in re minore. Ricordo le vetrate colorate che sembravano voler trattenere quella cascata di suoni ma forse servivano a disegnarne, sinesteticamente, i colori.

Una sera, poi, mi staccai dal gruppo - del quale facevano parte, senza che lo sapessimo allora, tre future colleghe nel campo degli studi classici – per andarmene da solo a trovare qualche locale di jazz. Seduto a un tavolino davanti, finalmente, a una birra tedesca, passai una serata ad ascoltare un tradizionale trio jazz che accompagnava un trombettista nero. Era Carmell Jones (1936-1996) e quell’esibizione mi venne a costare solo una birra.

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(foto di Gigi Spina)

Non rimasi tutto il mese a Berlino Ovest, anche se c’era sempre da fare qualcosa. Un giorno andai addirittura in cerca di un circolo di tennis per trovare qualcuno disposto a giocare. Accettò un gentilissimo socio: ricordo solo che durante una fase cruciale della partita, a un suo servizio vincente, volli complimentarmi ad alta voce con un’esclamazione che secondo me doveva significare “Che bella battuta”. Tornando a casa e rimuginando su quella esclamazione, mi accorsi di aver detto tutt’altro, anche se non sono mai riuscito a ricordare cosa. Spero solo che il mio avversario non abbia fatto la stessa esperienza della nostra professoressa austriaca.

Ma non si poteva non andare a Berlino Est. Ricordo che scrissi una specie di diario della giornata, che non ho più ritrovato. L’impressione, però, è rimasta davvero scritta dentro. Si partiva in metropolitana, si attraversavano stazioni sotterranee illuminate, che restituivano solo le sagome dei vopos armati che controllavano il passaggio veloce del treno. Si arrivava a Berlino Est e ti accoglieva con l’Unter den Linden, il viale dei tigli che faceva da contraltare alla povertà e alle macerie della vie adiacenti. Ma l’emozione più forte fu quando dovemmo riprendere la metropolitana per tornare a Berlino Ovest, un privilegio che ci separava da chi era costretto a rimanere a Berlino Est ed era stato strappato ad affetti familiari con la creazione del muro. Ebbi la netta sensazione (anche se non avevo ancora fatto i conti con scelte politiche) che quello che per me era turismo, viaggio di piacere, libertà di movimento rappresentava per altri e altre una questione di vita, di affetti profondi, di sofferenza. Le lacrime che vidi e le urla che sentii mi avvertono ancora come sia difficile sostenere grandi idee generali senza pensare ai destini dei singoli.berlinojpg

(foto di Gigi Spina)


Ma il soggiorno a Berlino Ovest stava per finire e così decidemmo, in un piccolo gruppo, di avventurarci per l’ultima volta nella vita notturna della città. Quando si trattò di tornare - non c’erano più mezzi pubblici e ci eravamo allontanati molto dalla nostra residenza - mi assunsi incautamente l’onere della guida, sostenendo che bastava seguire il marchio illuminato e ben visibile della Mercedes, che vedevamo anche dalla Casa dello Studente. Non ho mai avuto senso dell’orientamento, ma questo particolare sfuggiva al gruppo, che lo pagò amaramente. Rimane, di quel lungo nostos notturno, un viaggio nel viaggio, una bottiglia di Ballantine's ricoperta di cera al ritorno in Italia, con firme ormai invisibili, e un sotto-birra che riporta con precisione date e firme.

A Berlino sono tornato giusti 40 anni dopo, nel luglio del 2007, invitato a un convegno su War in Words. Transformations of War from Antiquity to Clausewitz. Non potevo mancare l’occasione del quarantennale. Preparai un intervento sulla retorica dell’assedio e pregai un’amica tedesca di tradurmi il testo. Volevo tornare e parlare in tedesco, pur non avendo quasi più la dimestichezza del parlare di allora, solo una accettabile comprensione della lettura.

Viaggio in aereo, libertà di movimento, Alexanderplatz, la vecchia chiesa diroccata, Unter den Linden, Kufürstendamm: tutto uguale e tutto profondamente diverso, il Due era diventato Uno.

Continuo a non avere uno spiccato senso dell’orientamento (se tornassi a scuola, forse sarei certificato con qualche strana sigla), ma per fortuna continuo a pensare, in forma più matura e convinta, che prima delle ideologie vale il destino dei singoli.



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