Benvenuti all'Elba, isola di Napoleone e dei cinghiali

di BRUNO MISERENDINO*

 Immaginate di essere in un bel posto a picco sul mare, al tramonto, a prendere un aperitivo. Afferrate le patatine ed eccoli spuntare dal bordo della macchia: piccoli di cinghiale, frenetici e disperati, che si avvicinano chiedendo cibo. Non temono il turista e nemmeno gli assembramenti. Oppure siete a casa, in giardino, a tavola con la famiglia: ed ecco che nella  penombra, prima che vi chiediate come abbia fatto a entrare col cancello chiuso, si affaccia un cinghialetto striato con occhi tristi, che guarda con sospetto i gatti di casa e si avvicina alle loro ciotole. Se le trova vuote viene direttamente verso la tavola. Se si è in casa, nelle notti d’estate, sentirete bussare con il muso. 

Impensabile fino a poco tempo fa. Come se ci fosse una mutazione genetica in atto, o come se le grosse mamme dei cinghialini, con cui è meglio non avere discussioni, li mandassero in avanscoperta perché non sanno più dove portarli per farli bere e mangiare. Farli adottare sembra l’ultimo disperato tentativo di sopravvivenza.   Il problema è che prima di questo incontro del terzo tipo con l’umano i cinghiali grandi e piccoli devastano campi, orti, vigne, giardini, provocano incidenti stradali, distruggono muri a secco, abbattono recinzioni, rovesciano bidoni dei rifiuti, strappano  fiori e piante. Entrano persino nei siti archeologici, ma non perché si interessino di storia. Una calamità, cui si aggiunge in tempi di pandemia un altro incubo: e se si diffondesse tramite loro la peste suina?  Benvenuti all’Elba, isola di Napoleone, e ora dei cinghiali, e un po’ anche dei mufloni.


Si dirà che l’emergenza ungulati riguarda tutta l’Italia, visto che a Roma i cinghiali si aggirano anche davanti alla Rai a viale Mazzini, ma all’isola d’Elba, il cuore dell’Arcipelago Toscano, riserva Unesco dal 2003, è ormai  qualcosa di più: una piaga quotidiana che si allarga e provoca danni enormi al territorio, all’economia e alla biodiversità. Con l’aggravante che nessun medico sembra in grado di attuare una terapia efficace. Tanti dibattiti e proposte, ormai da decenni,  fatti pochi. Qualcuno se lo chiede, scherzando: aspettiamo che prendano il traghetto da soli e tolgano il disturbo? Il caso elbano, rispetto al resto della Toscana e all’Italia,  è particolare e più grave, perché totalmente fuori controllo:  intanto è un’isola e  il territorio, anche se non è piccolo, è limitato. Poi perché l’habitat è ottimo per questo tipo di animali, non hanno competitori, c’è molta macchia,  spazi da percorrere e invadere, o per nascondersi di giorno, c’è un parco naturale dove c’è molto da distruggere, c’è acqua d’inverno, grandi quantità di rifiuti in estate, quando l’isola si riempie di turisti. Da anni la Regione autorizza battute di caccia organizzate, (le cosiddette “braccate”),  ma questa strategia si è rivelata fallimentare perché i cinghiali, per i motivi che diremo, si riproducono a una velocità supersonica e  il risultato è lo stesso che svuotare il mare con un secchio.  

si ringrazia per l'ospitalità su Facebook il sito   www.isoladelbaapp.com


Sull’isola ormai sono (quasi) tutti d’accordo che “l’eradicazione”, una pratica complessa ma adottata in altre isole (ad esempio il Parco dell’arcipelago della Maddalena e all’Asinara) e consigliata da tutti gli organismi internazionali che si occupano di fauna e ambiente, è l’unica soluzione possibile per l’Elba. Solo che bisogna decidere.  Il tempo passa, i cinghiali si moltiplicano e ormai sono padroni dell’isola. In attesa dell’eradicazione fioriscono o ritornano le proposte e le soluzioni più bizzarre, e anche le storiche divisioni tra cacciatori e ambientalisti. Affidare ancora una volta tutto alle associazioni venatorie? Sterminare tutti i cinghiali militarizzando l’isola? Inseguirli e abbatterli anche nelle zone protette del Parco? Catturarli e portarli via? Ridurne la natalità con interventi mirati? Mettere su un’industria per trasformarli in salumi e sughi? Oppure tenerseli come animali da compagnia, dando loro acqua e cibo, per evitare che devastino i campi? Qualcuno sull’isola già lo fa, ma è chiaro che non è quella la soluzione.

Serve una premessa. In questa invasione la natura non c’entra niente. I cinghiali che devastano l’Elba sono una specie ibrida, introdotta dai cacciatori a scopo venatorio negli anni sessanta. Sono molto più prolifici e diventano molto più grandi del vecchio cinghiale maremmano. Quindi mangiano molto di più e fanno molti più danni. Sembra l’episodio dell’apprendista stregone del film "Fantasia" di Walt Disney, un caso di incoscienza che sfugge di mano. A conferma che l’uomo è il peggior nemico della natura e alla fine anche di se stesso. Come se non bastasse la Regione finora ha inserito l’Elba  tra le “aree vocate” alla caccia al cinghiale, complicando le cose, perché l’isola non è affatto “vocata” e perché così facendo tutto resterà in mano alle associazioni venatorie che nonostante le “braccate” non hanno risolto il problema. Tra l’altro diversi studi hanno rivelato che i cinghiali reagiscono a questo tipo di caccia cruenta e crudele con un aumento della prolificità.  


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Gli appelli a revocare l’Elba dalle aree predisposte alla caccia al cinghiale sono ormai così numerosi e pressanti che ora la Regione sembra pronta a fare retromarcia, ma i cacciatori non mollano la presa:  si propongono, tra le polemiche, come gli unici in grado di riparare il danno. Basta, dicono, che si organizzino battute di caccia anche all’interno del Parco Naturale, perché è lì che i cinghiali si rifugiano quando si fanno gli abbattimenti programmati. “Il gatto a guardia della trippa”, direbbero a Roma. I vertici del Pnat, ossia il Parco Naturale Arcipelago Toscano, hanno già detto di no perché la caccia nell’area protetta, che è molto estesa, oltre a essere vietata per legge, metterebbe a rischio molte altre specie che invece devono essere tutelate.  Il Parco oltretutto di cinghiali ne cattura di suo molti di più di quanti ne riescano ad abbattere i cacciatori. Ed è anche l’ente più interessato a risolvere il problema, visto che l’esorbitante numero di cinghiali sta mettendo a rischio la biodiversità dell’area protetta e dell’intera isola. Basta pensare che l’Elba, pur rappresentando meno di un millesimo di tutta la superficie dell’Italia, ospita il 14% di tutte le specie vegetali.  Tutta questa meraviglia rischia di andare persa.

L’altro giorno sui siti elbani ha scritto un agricoltore disperato: “Ho sempre avversato le recinzioni, penso che dove sia necessario definire una proprietà o una funzione d'uso si possano utilizzare siepi o semplici staccionate. Ma ora, come altri coltivatori, devo recintare tutto se voglio ancora produrre qualcosa sottraendo le colture alla devastazione sistematica operata dai cinghiali".

Per intenderci costruire una recinzione che resista ai cinghiali non è cosa facile, servono attrezzature, pali, rinforzi, rete elettrificata, un costo importante per chi produce. E il risultato è che il paesaggio cambia,  in peggio. Perché chiunque abbia una casa, un’attività agricola o turistica, deve proteggersi e rinchiudersi con staccionate e reti di metallo. Il comitato per l’eradicazione del cinghiale, che raccoglie settanta realtà dei produttori, degli operatori turistici e degli ambientalisti, ha lanciato in questi giorni un appello finale alle istituzioni, in primis la Regione: “C’è la possibilità di reperire le risorse necessarie utilizzando i progetti europei "Life" per ambiente e natura… se si perde questo treno ci si dovrà rassegnare alla definitiva devastazione della biodiversità… Richiamiamo la Regione alle proprie responsabilità. Il rischio è che si affidi nuovamente la soluzione del problema a chi lo ha generato, ovvero le organizzazioni venatorie. Occorre un sussulto di dignità istituzionale e di coraggio politico per assicurare un finale diverso a questa annosissima quanto devastante vicenda".


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Inutile dire che il primo passo è costringere la Regione a togliere l’Elba dall’elenco delle aree vocate alla caccia al cinghiale. Ma anche se la risposta fosse positiva,  l’eradicazione non sarà facile. E’ una pratica impegnativa, lunga, che prevede molti abbattimenti ma più mirati, con la minor sofferenza possibile per gli animali, e più interventi complessivi che coinvolgono istituzioni, scienza, cittadini. E’ il contrario dell’ammazziamoli tutti, o facciamone salami, che molti invocano sull’isola. E ovviamente sarà fonte di polemiche, perché i risultati non si vedranno subito. E’ in fondo la parabola dell’oggi: più i problemi sono complessi, più la soluzione semplicistica o drastica rischia di incontrare il favore dei cittadini. Perché peggio della semplificazione c’è solo una cosa: l’immobilismo. Intanto, aspettando la svolta, soffrono tutti, compresi i cinghiali. Questo avvicinamento all’uomo e ai suoi territori non è un segnale di evoluzione, è il segno della disperazione: “Siamo troppi – dicono con gli occhi i piccoli di cinghiale che d’estate chiedono cibo e acqua – ma è colpa nostra?” 


BRUNO MISERENDINO (Nato a Roma nel 1951, inutile laurea in Storia, insegnante e poi giornalista all’Unità per 33 anni, inviato di politica per troppo tempo e per questo pre-pensionato felice. Amo la musica, anche se il violoncello non se ne accorge, alle città preferisco montagne, deserti e mare. Prima o poi andrò a vivere all’Elba. Ma devo sbrigarmi)


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