Beirut rinasce, una piccola primavera dopo l'Esplosione
testo e foto di LUCA FORTIS*
I gradini scendono dalla ripida collina a Beirut, una gatta rossa con i piccoli gioca felice, ignara della crisi che attraversa il Libano. Bouganvillee di diverse sfumature di rosa e banani si affacciano da antiche case colorate. Sono abitazioni popolari che si arrampicano ancora sulla collina, sopravvissute agli anni della speculazione edilizia. Qua e là, in luoghi inaspettati e scenografici, spuntano madonne o santi.
Ogni tanto, in mezzo a questa bellezza, emergono brutte speculazioni edilizie o parcheggi creati su vecchie case buttate giù negli anni. I pendii che da Geitawi portano verso Arminia Street, Mar Michael, Gemmayze ospitano anche qua e là baretti e locali alla moda, pieni di persone in smart working per il covid e a caccia di corrente elettrica, un bene ormai piuttosto raro in un paese che non può più pagare il petrolio per produrla. Nonostante la scarsa elettricità e problemi a volte perfino di acqua, che necessita di elettricità per essere erogata, i libanesi rimangono comunque sempre molto eleganti e raffinati.
Scendendo verso Mar Mikhael e Gemmayze, i danni seguiti alla tremenda esplosione di nitrato di ammonio al porto di Beirut, ormai un anno fa, appaiono in tutta la loro drammaticità. Ma anche qui le sensazioni sono in realtà miste e contraddittorie. Per chi conosceva il quartiere prima, mancano le code di macchine, le file di locali e ristoranti sempre strapieni. La crisi è evidente, ma non totale. Infatti molti locali hanno già riaperto, anche se dipendono dall’energia dei generatori privati. I bar aperti sono pieni di gente che lavora al computer o che chiacchiera di politica. Quello che però colpisce chi conosceva il quartiere prima, è che nell’ultimo anno sono avvenute anche molte cose positive. Per certi versi le antiche dimore libanesi tipiche di quest’area sono più protette ora che prima dell’esplosione. "Prima" erano malconce, assediate da grattacieli costruiti da speculatori edilizi. Nonostante la legge le tutelasse in quanto dimore storiche, era possibile, nel caso crollassero, buttarle giù, visto che non vi era alcun obbligo a restaurarle. Fatta la legge trovato l’inganno, moltissimi proprietari le lasciavano andare in pezzi non prendendosene cura, se non addirittura provocando il crollo di nascosto per poter poi erigere il loro bel grattacielo.
Oggi la situazione è del tutto capovolta, e i grattacieli mostrano tutta la loro fragilità: non solo sono ancora in parte molto malconci a causa dell’esplosione, ma soprattutto senza elettricità per la crisi sono diventati di colpo ostici da gestire. Le case storiche, al contrario sono già tutte in fase di restauro dopo l’esplosione, grazie a uno scatto d’orgoglio e a fondi arrivati da mezzo mondo.
Il rischio di perderle per sempre ha invertito il trend che per anni le vedeva sparire una dopo l’altra. Gli speculatori ovviamente si sono fatti avanti anche dopo l’esplosione del porto, vista come un’occasione perfetta per buttare tutto giù in un colpo solo e costruire nuovi palazzoni. Questa volta però gli abitanti si sono mobilitati, hanno preteso che il quartiere venisse salvato e hanno vinto. Le case quindi rinascono grazie a organizzazioni non governative libanesi e straniere, organizzazioni internazionali e ai tanti aiuti finanziari da tutto il mondo. Paradossalmente, molte stanno meglio di prima dell’esplosione.
Anche l’atmosfera che si respira nel quartiere è differente. Se prima era una miniera di bar e locali in un paese in cui si usciva fino alle cinque di mattina, in cui si ballava nei club alla moda e in cui l’edonismo giocava un ruolo importante, oggi, dopo anni di crisi economica, uno stato fallito, una rivoluzione di piazza, un’esplosione e la pandemia di covid, il quartiere è pieno di progetti sociali e di ong libanesi. Di fatto, è diventato un grande laboratorio politico. Il Libano è famoso perché, amano dire i libanesi, si ballava anche durante la guerra civile. L’uscire fuori per mangiare e fare festa fa parte del Dna di questo popolo e forse questa attitudine lo ha salvato in moltissime occasioni. Allo stesso tempo però il Libano non ha mai avuto, come per esempio in Sud Africa, un autentico processo di riconciliazione nazionale, e la creazione di un progetto statuale davvero condiviso tra tutte le sue anime. Si è piuttosto deciso di andare avanti, di tornare a fare business.
Prima, viene da pensare, si ballava e si usciva non solamente per una naturale e sana inclinazione mediterranea alla vita, ma anche perché in fondo distoglieva dalla tristezza provocata da una politica lontana, settaria e che non corrispondeva più ai sentimenti di una popolazione laica di ragazzi, di ogni religione e provenienza, che frequentava il quartiere di Gemmayze. Ragazzi che di fronte a un governo che percepivano lontano dai loro sogni e a un paese pieno di problemi, reagivano con la gioia di vivere, immergendosi in una frenetica e vorticosa mondanità. Oggi invece, toccato il fondo, si parla di politica porta a porta, si sogna un futuro diverso e si tenta di lottare contro i vecchi signori della guerra che hanno “rapito” la politica del paese per decenni.
In fondo, dalla tragedia collettiva è nato comunque un Libano diverso ma sempre molto interessante. Un Libano che finalmente riflette su se stesso, cosa che non è avvenuta fino in fondo dopo la guerra civile. Un paese che, se mai dovesse sconfiggere i potentati e vincere le sfide dei conflitti geopolitici regionali, cosa non affatto scontata, potrebbe finalmente mettere delle basi stabili per il futuro.
Quello che affascina e merita di essere sperimentato, in ogni caso, è la voglia di parlare di politica, la voglia di andare casa per casa a convincere la gente che un futuro è ancora possibile. Certo, tantissimi stanno emigrando all’estero. Ma i libanesi sono sempre stati mobili, almeno il tempo di farsi un secondo passaporto e magari tornare con in tasca una seconda nazionalità che permetta di scappare velocemente se le cose andassero male.
Nei quartieri di Beirut interessati dall’esplosione alcuni alberghi, maison d'hôtes, airbnb e ostelli sono già risorti, altri sono ancora danneggiati. A Geitawi, popolare quartiere cristiano, meno alla moda di Gemmayze ma dallo splendido fascino popolare, vi è il Beyrut Hostel, che è la mia casa ogni volta che vengo in città. L’ostello è stato risistemato dopo l’esplosione, le vecchie porte e finestre sono diventate tavoli e porte delle docce. C’è una nuova gestione, ma lo spirito e l’atmosfera è sempre splendida. L’ostello è anche una ong che promuove progetti per il quartiere.
(In centro)
La situazione è paradossalmente diversa nel centro storico, dietro la grande moschea costruita da Rafiq Hariri e la cattedrale maronita, fino al Gran Serraglio, sede del Parlamento. Zona ristrutturata dopo la guerra civile dal gruppo privato Solidere legato al primo ministro Hariri e all’Arabia Saudita e trasformato dopo la guerra in un regno per ricchi. Una grande Montenapoleone, un’immensa via Condotti. Dopo che questa zona è diventata il centro della rivoluzione contro i politici corrotti e il settarismo e a causa della crisi economica, tutti i negozi sono stati chiusi e sono ormai molto mal ridotti.
(In centro)
Intere vie sono sbarrate da muri provvisori e dal filo spinato. Insegne altisonanti di grandi brand della moda e della gioielleria svettano sopra negozi abbandonati e in parte distrutti. Anche il moderno e avveniristico Beyrut Suq, costruito dopo la guerra civile sui ruderi di quello antico, è quasi del tutto chiuso, sono aperti meno del dieci per cento dei negozi.
(In centro)
Nel resto della città, i quartieri non colpiti dall’esplosione e non epicentro delle manifestazioni, nonostante la forte crisi e la pandemia rimangono però più affascinanti e vivi che mai. Beirut è fatta di quartieri sunniti, sciiti, cristiani di molti riti e soprattutto, ormai, di molti quartieri liberal e misti e rimane un luogo di un fascino immenso.
È una città molto ammaccata, ma che sogna e che si ripensa. Un luogo che prova finalmente a combattere contro i suoi mostri. Una metropoli che nonostante tutto rimane estremamente elegante e piena di energia. Beirut, non solo non si arrende, ma rilancia.
*LUCA FORTIS (Mi considero un nomade, sono attratto dai percorsi irregolari, da chi sa infrangere le barriere e dalla scoperta dei tanti “altri”. Ho un pizzico di sangue iraniano. Sono giornalista freelance specializzato in reportage dal Medio Oriente e dalle realtà periferiche o poco conosciute dell’Italia. Lavoro anche nel sociale)
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