ARTINVIAGGIO - 14) Giandomenico Tiepolo e l'avanspettacolo

di NICOLA FANO*

Il punto di congiunzione tra cinema e teatro è un’attrazione che forse i più anziani avranno fatto in tempo a vedere nelle feste popolari. Con il termine “attrazione”, nel caso, si intende uno di quegli spettacoli tra la magia e la meraviglia che popolavano i luna park dei secoli scorsi: di quando in quando, spesso in occasione delle feste patronali o del carnevale, nelle piazze si riunivano le giostre, il tirassegno, le donne barbute, i comici, gli uomini-scimmia e altre esagerazioni creative. Tra queste attrazioni, in genere, c’era anche una sorta di scatola magica: gli avventori erano chiamati a infilare l’occhio in un buco oltre il quale vedevano come un teatrino d’ombre in movimento. Nel senso che nella scatola c’era una lampadina (o, prima dell’arrivo della luce elettrica, una candela) che illuminava un’immagine tratta da un rotolo di carta velina dipinta. Svolgendosi sotto l’occhio dell’osservatore, il rotolo dipanava storie come un cartone animato. Un gioco di specchi e rifrazioni e la concentrazione della vista dello spettatore trasformavano questa attrazione in una vera e propria macchina delle illusioni. Era destinata ai bambini - che ammiravano il movimento delle ombre senza farsi troppe domande sul loro segreto - ma anche i grandi si mettevano in fila per ficcare il loro occhio in quel mistero.

È la scena dipinta alla perfezione da Giandomenico Tiepolo nel 1765 in un quadretto - piccolo e bellissimo - oggi conservato al Museo del Prado: si chiama Mondo novo perché quell’attrazione così veniva appellata dai veneziani del tempo. Lo stesso soggetto - quasi identico e con il medesimo titolo ma in un affresco di ben più vaste dimensioni - Tiepolo lo dipinse per la sua villa a Zianigo, nell’entroterra veneziano, oltre Mirano, dove concluse la sua vita. L’affresco, del 1791, fu staccato dalla sua sede nel 1935 e ricostruito al Museo veneziano di Ca’ Rezzonico dove ancora oggi è visibile.

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(Mondo Novo   di Giandomenico Tiepolo            1765, Madrid, Museo del Prado)

Siamo in un tipico campo veneziano, una parata di individui, uomini e donne, molti dei quali in maschera, si affollano intorno al casottino della scatola magica: sono tutti di spalle e al centro di loro un bambino, arrampicato su un panchetto, infila un occhio nel buco delle meraviglie. Ma, poiché l’attrazione veneziana aveva diversi pertugi dai quali osservare le ombre in movimento, altri personaggi, due donne e alcuni ragazzi, spiano le loro illusioni. Gli altri, gli adulti, un po’ fremono perché vorrebbero anche loro potersi concedere una visione, un po’ sono lì annoiati: non è un dipinto che esprima il senso di una festa popolare (quale comunque nei fatti doveva essere), piuttosto il clima generale è di indifferenza, quasi noia. Del resto, se pensiamo alla data di composizione, siamo praticamente agli ultimi sgoccioli della Repubblica Veneziana: sorta intorno all’Ottocento dopo Cristo, dopo quasi mille anni di vita sfavillante, sarebbe capitolata nel 1797 sulla spinta di un’altra, ben diversa illusione, incarnata da Napoleone Bonaparte. Il quale, dopo aver constatato la difficoltà a difenderla militarmente (per le strette calli veneziane non potevano marciare le mitiche armate che procedevano a file di quattro per venti), la regalò all’impero asburgico, per maggior scorno di tutti quei numerosi veneziani che nel sogno napoleonico avevano visto la possibilità di una rinascita. Unico segno tangibile della brevissima parentesi bonapartista è la creazione di lacerti di arterie tanto ampie da poter consentire il passaggio delle famose armate quattro per venti: Strada Nova in Cannaregio e quella che oggi si chiama Via Garibaldi nel sestiere di Castello (tra parentesi, due strade tanto estranee all’urbanistica e alla toponomastica millenaria di Venezia da essere le uniche a non chiamarsi Calle o Salizada, in città).

Insomma, Giandomenico Tiepolo è il pittore ufficiale e dolente del crepuscolo della Serenissima tanto quanto il padre Giambattista ne era stato il premonitore della fine attraverso una serie di disegni che paiono incubi pronti a slittare nell’informale (a Giambattista ha dedicato un libro struggente Roberto Calasso: Il rosa Tiepolo, Adelphi).

Sicuramente ricorderete tutti quei dipinti di Giandomenico che mostrano un’ossessiva moltiplicazione di Pulcinella: nella formalizzazione della maschera napoletana il pittore coglie l’impossibilità di Venezia di liberarsi dalla sua facciata secolare e priva - ormai - di specifico carattere. Al punto che questi Pulcinella non fanno sorridere ma sembrano segnali di un inferno nel quale ciascuno perde la propria identità: sono la piena rappresentazione di quell’umanità vuota e annoiata e misteriosa (perché di spalle o con il volto coperto dalle maschere) che abbiamo visto in Mondo novo. Torniamo, così, alla scatola delle meraviglie e alla folla immobile che la contorna del quadro del Prado come nell’enorme affresco di quasi trent’anni dopo. Il contesto di quel tipo di attrazioni ha avuto molto peso nella storia del teatro perché è da lì, da quelle feste di piazza, che è rinata la comicità popolare (quella portata al trionfo dalla Commedia dell’arte e dei suoi antenati medioevali).

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(Piazza Guglielmo Pepe                       Roma, 1905)

A Roma, all’inizio del Novecento, i treni che arrivavano dai paesi a Sud della nuova capitale (dai Castelli, dunque) svuotavano il loro carico di pendolari alla fine di Via Giolitti (fino agli anni Trenta del secolo scorso la Stazione Termini non era lo snodo ferroviario attuale): la piazza che raccoglieva immediatamente questa umanità di operai, militari, povericristi e sfaccendati vari era intitolata a Guglielmo Pepe, patriota ed eroe del primo Risorgimento. Qui s’era insediata una vasta repubblica delle illusioni popolari che culminavano addirittura in una grande ruota panoramica. C’erano maghi e contorsionisti, donne baffute e uomini-pesce, mangiafuoco, equilibristi, finedicitori, poeti improvvisatori e tre-palle-un-soldo. E poi c’era il barbiere della meluccia: era un tale, famosissimo tra i poveracci di Roma di allora, che esercitava la rasatura scientifica all’aperto, infilando una mela (sempre la stessa) in bocca i clienti; a fine giornata, la mela veniva donata all’ultimo cliente. Ed erano botte, per arrivare ultimi. Ma al centro della piazza c’erano anche i teatri propriamente detti: in una casa di legno - proprio come quella del Mondo novo di Giandomenico Tiepolo, una compagnia di attori professionisti inscenava grandi romanzi a puntate. I viaggiatori, ogni tardo pomeriggio, prima di riprendere il treno per Albano, per Marino o per chissà dove si godevano la nuova puntata del Conte di Montecristo, di Teresa Raquin, di Papà Goriot e tornavano a casa con gli occhi pieni di sogni. Insomma, Piazza Gugliemo Pepe, a Roma, a inizio Novecento, era l’equivalente dell’epoca del Mondo novo di Giandomenico Tiepolo.

D’altro canto, la conformazione specifica di quella “scatola delle illusioni” immortalata da Tiepolo ha conosciuto molta fortuna anche dopo: con il nome Laterna Magika, il regista Alfréd Radok e il grande scenografo Josef Svoboda, entrambi allora cecoslovacchi, alla fine degli anni Cinquanta del Novecento hanno rinnovato quella magia, inventando un gioco teatrale (all’interno di una “scatola” in tutto e per tutto simile a quella di Tiepolo, ancorché più grande) nel quale convivevano proiezioni cinematografiche e azioni dal vivo. L’obiettivo era quello di moltiplicare le dimensioni delle immagini, creando una sorta di gioco di specchi infinito nel quale ogni spettatore poteva perdersi. È stato lo stesso Svoboda, con un vezzo tipico di un grande artista, a richiamare l’opera di Giandomenico Tiepolo tra le fonti d’ispirazione di quel prodigio (per inciso, gli spettacoli della Laterna Magika sono ancora oggi una delle attrazioni turistiche di Praga).

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(Altalena di Pulcinella  di  Giandomenico Tiepolo    1793, Ca Rezzonico Venezia)

Ma perché il Mondo di Tiepolo è novo? Che cosa significa questo titolo? Qui sta il senso profondo dell’opera. Giambattista Tiepolo, il padre dell’artista, era stato il pittore ufficiale dell’aristocrazia veneziana cadente: ne aveva abbellito le residenze sontuose, aveva cantato l’atteggiamento nostalgico e illogico con il quale quei nobili avevano negato a se stessi la propria fine vicina. Infatti il Settecento, a Venezia, è stato un tempo terribile; con la borghesia montante certa di avere un progetto di nuovo sviluppo della città-mito puntando su nuovi generi di commerci, dopo il tramonto definitivo del primato del sale (di cui Venezia nei secoli d’oro aveva avuto il monopolio mondiale) nella conservazione dei cibi. Fino alla metà del secolo, commercianti, artigiani e professionisti hanno ritenuto di avere il pieno diritto di assumere un ruolo egemonico nella società veneziana (in pieno concerto con i loro omologhi francesi e inglesi, naturalmente), ma l’aristocrazia, incapace di vedere la propria crisi irreversibile e convinta di poter vivere sempre e solo sulle rovine del proprio mito millenario, alla metà del secolo ruppe l’assedio dei borghesi annettendoli ad essa: vendendo titoli e possedimenti, insomma. Carlo Goldoni - illuminista e rivoluzionario - riempì il suo teatro degli anni successivi al 1750 di borghesi immorali che avevano venduto il proprio sogno in cambio di un titolo che si sarebbe dimostrato inutile (ne è un prototipo perfetto il Conte d’Albafiorita della Locandiera, 1752).

Ebbene, la rottura dell’unità della classe borghese segnò la fine della Repubblica di Venezia: Giambattista Tiepolo, lungi dall’essere un esponente dell’aristocrazia, si trovò tuttavia a cantarla e, nella sua pittura, a edificarne un altare fasullo, fatto di richiami iconografici a un passato ormai sepolto. Il figlio, Giandomenico, che pure era entrato in arte come aiutante del padre, riuscì ad affrancarsi da lui, conducendo altrove la sua ricerca. E arrivando, appunto, a ritrarre un mondo perduto, senza più alcun ancoraggio con la realtà. Ecco perché il suo anelito è per un Mondo novo che non ha nulla più in comune con il passato. Ecco perché i personaggi di questo dipinto che al tempo stesso chiude la secolare stagione della scuola veneziana della pittura e apre un nuovo ciclo ci vengono mostrati di spalle, mentre cercano qualcosa che loro stessi ignorano. Il teatro delle ombre, qui, è come la rappresentazione dell’illusione: la Repubblica di Venezia è agli sgoccioli e Giandomenico lo sa benissimo. I suoi popolani, i suoi borghesi e le sue mascherine non possono far altro che distrarsi: con il carnevale, con la scatola magica, con il teatro. Insomma, questo è il Mondo novo: quello che gli intellettuali borghesi (Goldoni in testa, con la sua fissazione per l’equazione tra Mondo e Teatro) hanno cercato di edificare e di cui, invece, Giandomenico Tiepolo ha celebrato la mancata nascita.

Vi sembra davvero così casuale che questa triste parata di individui sconfitti e annoiati sia sostanzialmente identica a quelle delle mille Piazza Guglielmo Pepe d’Europa degli anni Dieci del Novecento? Anche lì si celebrava una rivoluzione mancata - quella dell’armonia degli Stati/Nazione ottocenteschi - alla vigilia di un trentennio di conflitti segnato dalla Prima guerra mondiale, poi da un breve interregno di caos e dittature e infine dalla la Seconda guerra, che avrebbe spazzato definitivamente l’utopia illuminista. Che tutto ciò avvenga con un miscuglio perfetto di pittura e teatro popolare è il segno ulteriore, se ce ne fosse ancora bisogno, di un gemellaggio profondo che va ben oltre i confini delle singole sensibilità creative.