Alto e le Alpi del Mare, sulle tracce di Fischia il Vento

di DONATELLA ALFONSO*

I luoghi di confine, che siano tra due nazioni, due regioni o due vallate, a me incuriosiscono sempre. Perché hanno storie particolari, culture condivise, indecisione se stare da una parte all’altra. Vivono sul crinale, insomma. 

Così, la prima volta che mi hanno invitato ad Alto, nell’agosto del 2013, sette anni fa, la prima cosa che mi ha fatto sorridere è che, salendo lungo la provinciale 582 (uscite dal casello autostradale di Albenga sulla A10 e non cedete alle lusinghe della prima rotonda che vi porta un po’ ovunque, ma puntate dritti a monte, verso Garessio) dopo una ventina di chilometri, superata Nasino – paesino dal nome aggraziato, vero? - un doppio cartellone a cavallo della carreggiata segnala la fine della provincia di Savona e l’inizio di quella di Cuneo: proprio dove comincia a cambiare la vegetazione. 

Cippo Cascione a Case Fontane di Alto 1jpg(Il cippo Cascione a Case Fontane di Alto        foto di Donatella Alfonso)        

Avete lasciato solo da una ventina di minuti il mare e le spiagge, cosa ci fanno qui le conifere? Stiamo iniziando a salire verso le Alpi, semplicemente. Perché quelle che vedrete, qualche curva dopo, mezz’ora scarsa dalla Riviera ligure di Ponente, sono le prime Alpi Liguri, o Alpi del Mare che si voglia dire.

E il primo centro abitato , 654 metri di altezza, è Alto, provincia di Cuneo: allora, 120 abitanti. Un micropaese di case in pietra e fiori ovunque, tanto da aver figurato alla grande tra i Borghi Fioriti d’Italia, scoprirò poi, per la passione di Renato Sicca: un sindaco che alla mattina alle sei dà l’acqua ai vasi e alle aiuole e controlla che i giochi dei bambini nella piazza-giardino siano sempre in ordine; che quando ci sono le sagre dorme tre ore per controllare che tutto sia a posto e che nella grande cucina le donne e gli uomini della Pro Loco (il paese e qualche amico e parente, insomma) siano pronti a far gustare gli sciancui – straccetti di pasta condita con una fonduta di toma locale - e gli altri piatti della cucina bianca: cucina di montagna contraddistinta dal bianco del latte, dei suoi derivati, delle verdure (patate, rape, cavoli) che crescono quassù e che, con poche variazioni, si incontra fino alla valle del Roja in Francia.

 Forse è questo il segreto degli entroterra che resistono, degli amministratori che vivono i loro paesi come la loro “casa”, e coinvolgono tutti: a credere nel loro territorio, a trovare idee e occasioni di sviluppo. Anche perché ci si vive bene, in questi borghi.

Cippo Cascione e Alto sullo sfondojpg(Il cippo Cascione con Alto sullo sfondo            foto di Donatella Alfonso)

Perché andare ad Alto, la prima domenica di agosto? Perché è la festa di u Megu. Cioè il raduno interregionale partigiano che ricorda la figura di Felice Cascione, il medico imperiese che fu comandante di una delle primissime bande ribelli della prima zona Liguria; e che qui ad Alto, il giorno dell’Epifania del 1944, insieme ai suoi ragazzi cantò nella piazza della chiesa dedicata a San Michele, sotto la mole severa – saliteci, vista meravigliosa – del castello dei Conti Cepollini, proprietà della diocesi di Albenga, la versione completa di Fischia il Vento. Sì, il vero inno dei partigiani, prima dei garibaldini e poi di tutti, con parole che raccontano la vita della banda arrampicata sui crinali tra Liguria e Piemonte, sulla musica di Katiuscia, la canzone russa che tutti i soldati italiani dell’Armir, folle e inutile spedizione in Russia, avevano imparato a conoscere lungo i percorsi della ritirata. 

Anche Giacomo Sibilla, il partigiano “Ivan”, era stato in Russia come telegrafista, era riuscito a tornare e poi via, su per i monti dopo l’8 settembre, con Cascione: che era u Megu, il medico,  perché si era laureato in medicina a 24 anni e aveva aperto subito uno studio con il quale aveva chiarito come la pensava: niente soldi da chiedere ai poveri, anzi, un aiuto quando si poteva.

Felice è, come nella migliore iconografia dell’eroe, non solo il medico buono, il comandante partigiano comunista che studia politica e cospirazione insieme ad Alessandro Natta e altri giovani antifascisti, che mette in pratica le cose in cui crede andando ad aiutare i contadini anche nella clandestinità; a Imperia, ancora prima dell’inizio della guerra partigiana, è una leggenda perché è anche un campione sportivo, il leader della squadra di pallanuoto locale.

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(Alto                foto di Donatella Alfonso)

A Alto, anzi a Case Fontane, sulle pendici del monte Dubasso, è arrivato nei primissimi giorni di gennaio con la sua banda, lasciando altri casoni nell’entroterra di Albenga, non più sicuri dopo la fuga di un repubblichino preso prigioniero che però lui ha proibito di uccidere. Fischia il vento l’hanno cantata la notte di Natale a Curenna, frazione di Vendone, in valle Arroscia; però non è ancora la versione definitiva, quella che sarà eseguita ad Alto; un testo che attraverso le staffette raggiunge tutte le bande tra Liguria e Piemonte in poche settimane. 

Ma u Megu non arriverà a saperlo: la spia repubblichina ha fatto la sua parte, la mattina del 27 gennaio 1944 arriva una colonna di fascisti e tedeschi, si spara, ma lui - che si è reso conto che ha lasciato il suo zaino da medico con i documenti dei partigiani nel casone - torna indietro a prenderlo, viene ferito e catturato. Inspiegabilmente, suscitando la rabbia degli stessi nazisti che vorrebbero interrogarlo,  un drappello di fascisti lo uccide.

Con una storia così come poteva u Megu, medaglia d’oro al valor militare, non diventare un mito, una sorta di Che Guevara? Proprio uno che ci credeva talmente che fosse il Che del Ponente (tanto da andare a parlarne a Cuba al figlio di Guevara convincendolo anche a venire in visita lassù…), il partigiano Carlo Trucco “Girasole”, è stato quello che mi ha convinto ad andare ad Alto quel giorno e poi a raccontare la storia di u Megu e della sua canzone in un libro. Non ho potuto farne a meno, di dirgli di sì: e ho fatto bene.

Madonna del Lago e monte DubassoJPG

(Madonna del lago e monte Dubasso        foto di Donatella Alfonso)

Perché ho scoperto un territorio - la Val Pennavaire - dove la vicinanza del mare la annusi, ma anche il profumo delle Alpi, le cui pareti di roccia sono un richiamo per climbers da tutta Europa: potrebbe essere anche un elemento forte di sviluppo turistico ed economico. A monte del paese c’è la Madonna del Lago, un piccolo santuario sulla riva di un affascinante laghetto rotondo che ospita anfibi protetti, tra cui il pelodite che altrove non si ambienta; da qui sale la strada – che poi diventa sentiero – che porta a Case Fontane , da dove si raggiunge in una decina di minuti il cippo dov’è stato ucciso Cascione.

La luce migliore è quella d’inverno, il 27 gennaio e dintorni vi si ritrovano sempre persone in arrivo da Imperia, dal savonese e dal Cuneese a guardare avanti, verso il mare, superando una balza di monti, con il Dubasso e il Colle San Bartolomeo alle spalle. Se invece di girare verso la Madonna del Lago si prosegue verso il Colle di San Bartolomeo, allora le Alpi si presentano al loro meglio: d'obbligo una sosta all’abitato di Caprauna, già in Valle Tanaro, con la rapa locale che è presidio Slow Food; scendendo poi verso Ormea, montagna vera che punta su trekking ed escursionismo, il luogo del fresco dei ponentini.

Da quella mia prima visita sono accadute tante cose: Alto è cresciuta di almeno una ventina di abitanti, tra cui un bel po’ di bambini che ora giocano in piazza, ha aperto una nuova enoteca con i prodotti locali, il sindaco ha continuato infaticabile a promuovere sagre ed eventi. Poi, un anno e mezzo fa, Girasole, l’anima di tutte queste feste intorno a u Megu, se n’è andato e adesso chissà, magari chiacchierano insieme. Io non solo ho scritto un libro in cui ci sono tutti loro, ma proprio a Alto, un giorno di settembre, mi è successo di sposarmi, e anche questo dimostra come i luoghi per caso diventino luoghi del cuore. Il Covid-19 quest’anno ha rubato la festa in piazza, ma comunque domenica 2 agosto qualcosa si farà: e per chi non potrà esserci funzionerà uno streaming sulla pagina www.facebook.com/felicecascione2020.

Vi verrà comunque la voglia di andarci. E farete bene, chissà cosa capiterà a voi…


*DONATELLA ALFONSO (Nata a Genova nel 1957. Giornalista, scrittrice e curiosa - delle persone e della storia - per natura e per professione. Confida di tornare a viaggiare oltre i confini)

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